Nell’ala indipendente del cinema cinese si sta affermando un giovane regista, Bi Gan, emerso con Kaili Blues nel 2015 e arrivato alla sua seconda opera nel 2018 con Long Day’s Journey Into Night. Bi Gan è diverso dal filone della sesta generazione di vocazione realista, di cui l’esponente più noto è Jia Zhangke (di cui abbiamo parlato per l’uscita de I figli del fiume giallo). Basta vedere il suo ultimo Long Day’s Journey Into Night per notare delle lampanti differenze, infatti: si è dalle parti di un cinema poetico, persino elegiaco, dove lo spazio è funzionale a un viaggio della memoria, nel fluire del tempo interno all’animo umano. Specialmente in Long Day’s Journey Into Night non c’è vocazione politica, sociale, come in Jia, ma si torna all’ambizione di far rivivere una magia del cinema come esperienza narrativa, legata all’incanto dell’immergersi in una storia. Non a caso qualche critico definisce l’opera di Bi come un “cinema delle attrazioni”, per via dello sperimentalismo tecnico volto a stupire, ma anche a una maggiore immersione nel viaggio narrativo articolato dal regista. Long Day’s Journey Into Night torna all’eterno accostamento tra cinema e sogno, costituendosi proprio come un’esperienza onirica, sfuggente, intrisa di ricordi e percorsi in mappe sentimentali.
L’attrazione del passato
Il cinema come esperienza di Bi è più vicino, di certo, a certi riferimenti cinematografici ben sottolineati in Long Day’s Journey Into Night come il regista russo Andrej Tarkovskij. Si è ben lontani dal cinema commerciale non solo per i modi di produzione, ma per il modo di intendere la stessa immersione in una storia. Bi non segue strutture narrative lineari, ma ha al contrario ambizioni di decostruzione delle classiche logiche narrative che hanno fatto da impalcatura al cinema classico. L’immersione non passa più per un universo narrativo ordinato, coerente, di successione cronologica degli eventi, dove la presenza registica dev’essere quanto più invisibile possibile per non far emergere la finzione come finzione. L’immersione in questo caso dello spettatore sarebbe in un universo ben confezionato, credibile, che dà un senso di causa-effetto realistico.
Bi Gan invece è figlio di tutt’altra tradizione cinematografica: l’immersione passa al contrario per la seduzione del sogno, della restituzione di un’esperienza interna del tempo con il suo senso di durata – come in Tarkovskij. L’avventurarsi in regioni dell’anima chiama allo scardinamento di qualsiasi logica ordinata e diventa un’esplorazione dove passato e presente si confondono, secondo un processo più vicino all’impressione associazionistica. Il presente, in verità, è atto a tornare sulle tracce del passato tramite indizi che lo riattivano per lo spettatore. Un movimento esplorativo fluttuante dove, usando una metafora del film, i ricordi, come pietre, trascinano giù con il loro peso sempre giù in anfratti profondi. Si può vedere un riferimento all’hongkonghese Wong Kar-Wai, al suo cinema dedicato a sua volta al tempo, proprio attraverso la memoria sentimentale, ad una vocazione malinconica (pare proprio di rivedere i “ricordi imbevuti di lacrime” di Hong Kong Express) e alla fascinazione per il passato sin dall’estetica – come accade nelle figure da sogno di quest’opera di Gan, che richiamano ad un’altra era, un altro tempo.
Qui viaggiare non è tanto andare da un punto A a un punto B, ma girare a vuoto, girare senza soluzione in un labirinto. Tanto più che in Long Day’s Journey Into Night c’è l’elemento narrativo della ricerca, di ricca tradizione narrativa. Infatti si ritrovano nel film non solo certi cardini del cinema d’autore appena menzionati, ma anche al genere noir. Come Kaili Blues voleva destrutturare le regole tradizionali del road movie, così Bi qui vole destrutturare il noir. Il materiale di base c’è: l’omicidio, la vendetta che porta a un’indagine, alla ricerca di informazioni, di indizi, l’apparire della femme fatale e lo smarrimento che genera nel protagonista. L’indagine qua è di Luo Hongwu, gestore di un casinò che torna nel paese natale, Kaili (il bisogno di tornare alla propria terra continua ad essere presente per Bi), in occasione della morte del padre, che lo porterà, poi, sulle tracce di memorie della giovinezza, dell’amico Wildcat, morto giovane, ucciso da Zhuo, e della sua relazione con la ragazza di quest’ultimo, Wan Qiwen.
Il presente, dove si raccolgono informazioni disseminate sulla donna amata Wan Qiwen, si confonde con una ricerca dell’assassino di Wildcat avvenuta in passato. Sempre più sarà complicato poter distinguere chiaramente cosa è avvenuto effettivamente e quando è avvenuto, per poi sfociare nella pura e dichiarata esperienza onirica. L’indagine infatti è condotta in una narrazione frammentaria e finisce per perdersi in un vortice puramente personale, dove niente è chiarito né risolto, ma vince la seduzione del fantasma e dell’illusione.
Stupirà la divisione radicale del film in due parti. La prima è discontinua, con un montaggio di frammenti da tempi diversi. Cercare Wan Qiwen condurrà in una sala cinematografica, dove Luo Hongwu, indossando gli occhialini 3D, sprofonderà in un’altra dimensione, con una chiara allusione meta-cinematografica. Solo qui appare il titolo di testa del film. Questa seconda parte è girata e da vedere in 3D, come comicamente suggerito dallo stesso Gan, e la tecnica narrativa subisce un’alterazione significativa. Infatti questa parte vuole essere tridimensionale per restituire l’esperienza multi-sfaccettata del ricordare. Si tratta di un unico piano-sequenza, dunque un tempo continuo, dove lo spettatore ha raccolto qua e là quante informazioni bastano per poter immergersi nel flusso onirico, insieme all’andamento peripatetico dei personaggi.
Dunque il noir è destrutturato in quanto si perdono le tracce della ricerca dell’assasino, non viene ricostruito il filo dell’intrigo, ma si sprofonda nei fantasmi. Di certo la femme fatale ha sempre generato scompiglio e confusione nel noir. Torna infatti l’inseguimento e l’essere inseguiti, senza possibilità di interrompere questo rapporto, come destinati ad esso. Per un film popolato dal passato e dai fantasmi, anche la donna amata si carica di una consistenza fantasmatica, e perciò sognante, intrecciandosi fittamente con le altre memorie d’infanzia, specialmente la madre e la città di Kaili. Ci sono note esplicite al riguardo, con l’accostamento di Luo Hongwu tra il trucco rovinato di Wan Qiwen e quello simile della madre, ma anche tra il vestito verde sempre indossato da Wan Qiwen nella prima parte e il verde nebuloso, acqueo di Kaili. Né la madre biologica né la terra natale sono ricordate così come sono, infatti, ma sono trasfigurate.
Vale la pena specificare infatti che la Kaili di Gan non è indizio di come questa città cinese sia veramente (è una città moderna, urbana), ma si tratta di una visione idealizzata, ninnolo di memorie infantili del regista. Si tratta di una Kaili tutta privata, in questo caso, localizzata in rotaie ferroviarie dense di solitudine, di case abbandonate e di un ritorno continuo dell’elemento dell’acqua (qui è anche il riferimento a Tarkovskij).
È anche una Kaili fiabesca, dove rimbalza da un personaggio all’altro, di storia in storia, come la casa abbondonata sia legata alla storia di due amanti, ad un orologio rotto, ad un libro verde. La stessa volontà di Bi di ricreare una “magia cinematografica” è connessa proprio alla fiaba. Il cinema può far accadere un incanto sentimentale, misterioso, rendendo possibile attraverso le acrobazie della tecnica di dare il senso, per due innamorati, che lo spazio circostante giri durante la vertigine di un bacio.
Bi connette continuamente memorie e cinema, dove la seconda è un’arte deliberatamente falsa, mentre la prima confonde verità e bugie. La destrutturazione di logiche lineari è anche nell’impossibilità di saper distinguere quando un personaggio dice il vero, da quando non lo dice. Il tema della memoria è strettamente connesso, qui (come in Stalker di Tarkovskij, appunto), a quello del desiderio: esso fa materializzare scene, immagini, permette di edificare storie. La donna amata, qui in particolare, ama raccontare storie. Non sembra casuale allora che una figura fantasmatica di grande potere attrattivo dia origine a una rete finzionale: un’illusione che genera illusioni.
Così anche il groviglio narrativo di Bi si diverte, nei suoi giri in tondo, a generare mille riflessi. L’immagine del vetro e dello specchio è costante: molte volte una scelta è filtrata da un vetro, sottolineandone la natura vagamente irreale, filtrata e soggettiva, remota come i ricordi. Le singole scene si legano una alle altre anche attraverso eco, ripetizioni, allusioni. Wildcat viene da una miniera, così il primo ambiente in cui si trova Luo Hongwu, come rinvenuto in un altro mondo, è proprio una miniera, insieme a un bambino – che potrebbe alludere, dato il breve rapporto padre-figlio che si crea, a un figlio mai avuto con Wan Qiwen. Ci sono persino momenti hitchcockiani in queste ripetizione, dove Wan Qiwen pare diventare una “donna vissuta due volte”, mostrandosi in diverso vestiario, diversi capelli. Trattandosi di un’atmosfera deliberatamente onirica, è la persistenza, come in Hitchcock, della figura della donna amata del passato, presentata sotto forme diverse eppure analoghe, suggerendo un’unica identità per la psicologia del protagonista.
Si possono intessere numerosi accostamenti, si può ricucire la storia in varie maniere, lasciandosi guidare una volta da un aspetto, una volta dall’altro, senza raggiungere un centro definitivo. È appunto la natura labirintica di Long Day’s Journey Into Night, un film che vuole essere evocativo, attorcigliandosi volutamente su sé stesso, e vivendo dell’inseguimento di memorie di potere mai sopito e di ritorno costante.