Maria Inglese, immaginare l’altro per uscire dall’indifferenza

La dottoressa Maria Inglese lavora come psichiatra territoriale presso l’ASL di Parma. La psichiatria di comunità è uno dei suoi principali campi di interesse, insieme alle trasformazioni dei bisogni di cura dei pazienti e, di conseguenza, delle risposte cliniche e della visione dei servizi. Il modello manicomiale della cura della follia non esiste più, ma esistono ancora istituzioni e coscienze che pensano che la follia sia un elemento da contenere e separare dal cuore vivente della comunità. La professione della cura è viva, e proprio perché “vitale” deve essere orientata ad accompagnare la ricerca di significato dei soggetti.

Maria Inglese ha coordinato per otto anni in carcere una équipe multiprofessionale per la presa in carico dei disturbi psichici e psichiatrici, comprese le dipendenze. Precedentemente ha lavorato presso il CSM delle Valli Taro e Ceno e ancor prima presso il Servizio Dipendenze Patologiche. Nel suo lavoro ha incontrato molte marginalità, in tutte le sue declinazioni: migrazione, tossicodipendenza, malattia psichica, disagio giovanile, violenza, reati e conflittualità. Nelle sue parole, «la marginalità è un laboratorio inesauribile per le nostre professioni, un’occasione di conoscenza e per far crescere una cultura della cura, della convivenza possibile, della non violenza e della pace».

Con un gruppo di mediatori di Parma, Maria Inglese ha fondato una associazione che propone alla città gli strumenti della mediazione per i conflitti sociali, penali e scolastici. Si occupa di laboratori espressivi da oltre dieci anni per il Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale e Dipendenze Patologiche. Da oltre dieci anni è tra gli organizzatori di una rassegna dal nome Dolore in bellezza, che esplora la narrazione del dolore e della sofferenza psichica e di come queste possano diventare narrabili attraverso l’arte e la creatività. La dottoressa è inoltre mediatrice etnoclinica, secondo il modello dell’etnopsichiatria.

maria inglese
Uno dei disegni presenti nelle rassegne curate dalla dottoressa Maria Inglese.

Oggi theWise Magazine ha incontrato la psichiatra Maria Inglese.

Come è nato l’interesse verso la psichiatria? Perché ha deciso di lavorare a stretto contatto con la marginalità?

«Il mio primo contatto con il mondo della psichiatria è avvenuto al liceo, precisamente con la lettura di alcuni testi che hanno aperto la mia curiosità e interesse. Prima di tutto l’incontro con la scrittura di Franco Basaglia che riconoscevo e riconosco come un maestro e un visionario, capace di immaginare l’impossibile. Poi Foucault e la sua Storia della follia ma anche Sorvegliare e punire, analisi ancora utilissime per comprendere i dispositivi che si generano per controllare il disordine. E infine le storie cliniche di Oliver Sacks. Nei suoi libri ho trovato la possibilità di coniugare scienza e narrazione, passione intellettuale e rispetto per il paziente, ascolto dell’altro e ascolto del proprio “ascoltare”.

Mi sono avvicinata alla medicina con questi pensieri, lasciati e depositati. I sei anni di medicina non mi hanno proprio avvicinata a questi temi: solo dopo, nella scelta della specializzazione, ho ritrovato le voci e le scritture che mi avevano comunque accompagnata e forse ancora mi accompagnano».

Oggi il manicomio non esiste più. Quali sono le istituzioni chiuse rimaste in vita dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici? Quali funzioni hanno?

«Anche qui la riflessione nasce da una lettura preziosissima, sempre degli anni del liceo, che ho poi ripreso successivamente. Goffman nel suo libro Asylums ci mostra i meccanismi dell’internamento. Lui parla della “carriera” dell’internato da quando entra nel manicomio. Riletta oggi, la sua descrizione si estende a quanto succede in carcere. La mia generazione non ha conosciuto il dispositivo manicomiale come cura (o meglio, l’internamento era considerato, erroneamente, una cura della follia) ma conosce il carcere, uno degli ultimi dispositivi di contenimento e controllo.

Un’istituzione totale che fatichiamo a superare. Del carcere abbiamo drammaticamente bisogno, ma il carcere che conosciamo è luogo totalmente inutile, basta leggere i dati sulle recidive di reato e le caratteristiche sanitarie e sociali dei detenuti. Il carcere ammala, separa, incattivisce, non risponde al bisogno di giustizia delle vittime, non riallaccia quanto è stato lacerato dal reato anche nella comunità. Inutile e disattivante, purtroppo ancora necessario per controllare il disordine.

Ma c’è un aspetto che occorre tenere in mente. Quanto l’idea dell’istituzione totale è presente nelle coscienze di chi, colpito, ferito o impaurito, attende una risposta al bisogno di contenimento del male, della violenza e della malattia. C’è il rischio di avere nella mente l’istituzione totale: di questo era ben consapevole Basaglia. Oggi tanti luoghi di cura sembrano dei manicomi, per l’esasperazione del controllo, della sedazione, dell’idea illusoria di poter curare tutto».

Leggi anche: L’ospedale psichiatrico nelle parole di un ex infermiere.

Quali sono i servizi attivi nel trattamento della tossicodipendenza? Può essere considerata una malattia?

«Nel nostro territorio, la presa in carico della dipendenza patologica conosce esperienze consolidate storiche, innovative e integrate. Oggi è necessario ripensare alla presa in carico e cura delle dipendenze, perché queste ultime sono cambiate: cambiano le droghe e di conseguenza gli effetti sulla salute delle persone che si rivolgono ai servizi.

Oggi il Servizio Dipendenze Patologiche incontra chi si rivolge a loro, ma tanti non si rivolgono al servizio. Aumentano le basse soglie, le polidipendenze, i mix di droghe e farmaci. E anche nel mondo delle dipendenze incide pesantemente la diseguaglianza e la povertà. Questi aspetti sono molto evidenti in carcere perché vi si vedono le dipendenze “nuove”, con tipologie di utenti che ai servizi non sono mai arrivati e forse mai arriveranno.

La dipendenza è certamente una malattia. Esistono delle cure, esistono delle risposte ma cure e risposte devono essere aggiornate ai dati della ricerca e fortunatamente ne esiste molta».

Quali sono le pratiche migliori per la mediazione del conflitto?

«Il conflitto è qualcosa che tutti noi incontriamo. Così come l’ingiustizia. Come mediatori abbiamo appreso che per conoscere e intervenire sul conflitto dell’altro occorre prima di tutto conoscere il proprio. La mediazione tra colpevole e vittima è uno degli strumenti della Giustizia Riparativa. Questo è il più diretto ed efficace e cerca di rispondere al bisogno di giustizia presente in tutte le parti coinvolte: la vittima, il reo e la comunità.

La mediazione è un “saper fare”. È uno strumento, appunto, e come tale va praticato. I campi di applicazione sono moltissimi: dalla mediazione reo-vittima come dicevo, la mediazione sociale o comunitaria, la mediazione scolastica, in carcere o aziendale. Serve coraggio e capacità. I miei formatori, Adolfo Ceretti e Federica Brunelli, incarnano questo coraggio e infondono una fiducia nella possibilità di ripartire, di fronte al male che blocca, congela e annulla».

In quale modo l’arte e la creatività possono essere utili per esprimere il proprio dolore interiore?

«Non userei la parola “utile”. Piuttosto l’arte e l’espressività sono un’occasione per conoscersi meglio, anche nella sofferenza e nel dolore. Il titolo della rassegna che organizzo con l’amica Vincenza Pellegrino dell’Università di Parma in fondo ha questa intenzione. L’idea è riuscire a dare una forma narrabile e condivisibile, al dolore che di solito isola e allontana. La bellezza, appunto.

Il titolo, Dolore in bellezza, ci è stato regalato da una amica preziosa, Bianca Tosatti, storica dell’arte, che in un seminario sull’arte irregolare (l’art brut, come viene definita) ci disse che “ci vuole molto coraggio per trasformare il dolore in bellezza”. In atelier incontro questo dolore, questa bellezza e questa esperienza di trasformazione».

l'appeso
L’appeso. Foto per gentile concessione della dottoressa Maria Inglese.

Cosa è l’etnopsichiatria? Quali sono i suoi campi d’indagine?

«Dare una definizione di etnopsichiatria è difficile, si potrebbe dire che l’etnopischiatria considera “l’acqua nella quale i pesci nuotano”, usando una bella immagine. Vale a dire che nell’incontro con il paziente, straniero, “alieno” direbbe l’antropologo Ernesto De Martino, abbiamo la necessità di considerare la sua cultura, i suoi attaccamenti, credenze, metodi di cura tanto quanto noi occidentali nel praticare la nostra professione teniamo in mente i nostri.

Oggi l’incontro con la differenza entra prepotentemente nelle nostre stanze di lavoro. E non sempre abbiamo la curiosità di farci raccontare la loro “acqua”, pensando che anche loro, come noi, nuotino nella nostra. Penso anche che sia una necessità politica, un po’ strategica, per pensare a servizi che sappiano incontrare l’altro e non allontanarlo o semplicemente definirlo e descriverlo».

Partendo dalla scuola, secondo lei, come si potrebbe formare una nuova generazione più sensibile verso le sofferenze e le difficoltà dell’altro?

«Questa è una bella domanda! Direi che esistono le prove delle neuroscienze che affermano la possibilità di immedesimarsi nell’altro, quindi anche nelle sue sofferenze. Una volta che, attraverso l’incontro con le storie dell’altro, ci siamo messi nei suoi panni e nelle sue scarpe, insieme a lui possiamo trovare una lingua comune e immaginare soluzioni possibili per la convivenza e la coabitazione. Penso che queste esperienze di ‘capacità di immaginare l’altro’ siano un buon modo per uscire dall’indifferenza e dal pregiudizio».

Leggi anche: Giuseppe Turchi: coltivare relazioni positive.

Impostazioni privacy