L’importanza di essere Mascherano

«La vida es esta, eh… Esto es el futbol y la vida es esta: ganar es una exception. Normalmente perdemos… En la vida, el problema es no aceptarlo». Lo dice così, con la faccia di chi sa vincere ma anche perdere, com’è mandare un campionato all’aria, all’ultima di campionato, Javier. Era il 17 Maggio 2014, e l’Atletico strappava un preziosissimo 1-1 al Camp Nou, vincendo la competizione con soli tre punti di vantaggio sul Barcelona. «Vincere è un’eccezione», sostiene Mascherano nel post partita. Lui, che ha vinto tutto, o quasi. Lui, componente di quella che verrà ricordata, probabilmente, come una delle squadre più forti di sempre, se non la squadra più forte di sempre: il Barcellona della prima metà degli anni Dieci del nuovo millennio.

L’importanza di essere Mascherano

Per capire Javier Alejandro Mascherano bisogna andare a San Lorenzo, nel 1984, e ascoltare perfino il pianto in sala parto. Mamma Teodorina e papà Oscar sono due onesti abitanti di Buenos Aires. Persone semplici, tranquille e dedite a casa e lavoro. È qui che, probabilmente, nasce la storia del “Jefecito”, il piccolo comandante, che silenziosamente si impone in tutto il campo facendo da leader delle squadre. Proprio in quel di Buenos Aires, sponda River Plate, incomincia la carriera del minuto centrocampista.

È la stagione 2003-2004, e a soli diciannove anni si prende la vecchia “Clausura” in entrambe le annate, da titolare inamovibile, andando perfino a scherzare a Uruguay 2003 e Atene 2004, quando con l’Albiceleste U20 e quella olimpica conquista il Sudamericano di categoria e l’oro Olimpico. Quel River Plate, però, è una squadra particolare. Ha un nuovo allenatore, Leo Astrada, fresco di ritiro dal calcio professionistico e appena subentrato a Manuel Pellegrini, che non se la passava benissimo. Los Millonarios sono imbottiti di giovani talenti: Dario Conca, funambolico centrocampista dal piede fatato, Fernando Cavenaghi, che diventerà idolo di metà Buenos Aires e incubo dei rimanenti quartieri e il Galina, Maxi Lopez. Ai giovani si uniscono vecchie glorie come Marcelo Gallardo, Marcelo Salas e Celso Ayala, e solide realtà come quella del portiere Germán Lux e dello stoico Lucho Gonzalez. I risultati arrivano, e così le chiamate dei club importanti.

La “strana” avventura in Brasile

Succede però un evento molto, molto particolare. Siamo abituati a sentire che i campioni sudamericani giochino nei campionati natii o in Europa. In Brasile si affaccia un ragazzo iraniano, che promette grandi investimenti tramite la sua Media Sports Investment. È Kia Joorabchian e, nonostante la giovane età, arriva a impossessarsi di una delle compagini storiche carioca: il Corinthians. Ora, capita di rado che un argentino abbia successo in Brasile: inutile dire che capita ancora più di rado che due argentini abbiano successo in Brasile, per di più nella stessa città. Due, perché i brasiliani si vanno a prendere Javier, il miglior prospetto del River Plate, e un certo Carlos Alberto Martínez Tévez, “El Apache”, il miglior prospetto del Boca Junior. Inutile dire che in Brasile, per qualche anno, non ci sarà troppo da raccontare.

Il destino dei due si incrocia ancora una volta nell’estate successiva, quando entrambi arrivano all’Upton Park, Londra, per firmare quella che sembra una dichiarazione di intenti da parte del West Ham. Mentre le cose si mettono relativamente bene per Tevez, Mascherano non riesce a relazionarsi a Pardew, che dopo solo cinque presenze in campionato lo fa partire per il Merseyside, sponda Liverpool.

Gli anni d’oro di Liverpool e Barcellona

Come è possibile tutto ciò? Un giocatore forte, leader in campo e fuori (Mascherano ha imparato a parlare fluentemente inglese nel giro di un paio di mesi), mandato via dall’allenatore che a stento credeva al suo arrivo a inizio stagione. Va bene così, se non sei un Hammer, perché Javier si trasferisce alla coorte di Benitez, dove per sua stessa ammissione, diventa il giocatore che abbiamo ammirato fino a oggi.

Il centrocampo composto da lui, Xabi Alonso e Steven Gerrard diventa da antologia: Alonso è il cervello, il regista dal lancio lungo perfetto, pronto a sganciare gli attaccanti rapidi e letali; Steve G è il capitano, il leader, colui che collega centrocampo, attacco e anima della squadra, ed “El Jefecito” è l’invalicabile scudo che copre la difesa dei Reds. I tre anni a Liverpool, seppur poveri di trofei, gli varranno la chiamata del Barcellona, dove vincerà tutto con Guardiola, che se lo inventerà, con ottimi risultati, perfino difensore centrale.

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Il rapporto con la Nazionale

Il resto è ben noto, con Hebei ed Estudiantes ad accoglierlo a svernare. Quello che però va osservato bene è il suo rapporto con la Nazionale. L’Argentina non ha mai avuto un centrocampista così europeo nel modo di giocare e di pensare, probabilmente. Nemmeno con Simeone, e tantomeno con ciò che sembra verrà dopo. Molti storceranno il naso e diranno di Cambiasso. Il capitolo “Esteban” non va aperto per i cuori albicelesti, una cicatrice troppo grande, segnata da chi doveva essere il leader del centrocampo azulblanco per anni ma non lo è stato.

Eppure, “El Jefecito”, il piccolo capo, non era il capo. Non formalmente, almeno. Passi la sua prima parte di esperienza in Nazionale, dove c’era gente come “El Pupi” Zanetti e Roberto Ayala, ma dopo? Eh, dopo… Dopo c’è l’era d’oro di Messi, che porta all’albiceleste tante finali, quante sconfitte.

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Eppure lui, Javi, era lì in ogni finale, a sbraitare e correre anche quando l’età avanzava e i minuti giocati diventavano 120. Anche quando la tanto bistrattata difesa argentina reggeva ai colpi di qualunque altra Nazionale e il tanto decantato attacco non riusciva a capitalizzare le occasioni create. C’era, e dopo 147 presenze farà strano non vederlo più.

E chissà se al piccolo capo fosse stato dato il compito di grande capo più spesso, quanto sarebbe stata un’eccezione, la vittoria.

Ci salutiamo cosí, Jefe, in tackle, come piace a te.

Muchas gracias, Capitán.

 

Luigi Tortoriello

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