Task force e commissari: la Politica appalta ad altri la propria crisi

In questi giorni abbiamo assistito alle prime proposte su come gestire gli ormai famosi 209 miliardi che arriveranno dall’Europa per costituire il Recovery Fund a disposizione dell’Italia.

È dal 21 luglio che abbiamo notizie certe sull’assegnazione, eppure poco si è mosso, vuoi per il tema difficile da gestire, vuoi per i problemi legati all’emergenza della seconda ondata, vuoi perché il governo è composto da anime tanto diverse eppure in contatto tra loro: avreste mai pensato di vedere Renzi e i Cinque Stelle governare insieme?

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Tra distinguo e problematiche varie, dibattiti che sono scoppiati a metà e subito messi a tacere tra ipotesi di rimpasto e minacce più o meno velate, è stato Conte a mettere per primo le carte sul tavolo, come si addice a un Presidente del Consiglio dotato di tanto raggio d’azione come nessun altro prima aveva avuto, almeno dal punto di vista dell’emergenza usata come cardine per superare alcuni limiti seppur costituzionalmente previsti.

La “propostona” è in realtà il trito e ritrito meccanismo della “task-force”, in questo caso una “Super task-force”, vista la struttura burocratizzata e la sua grandezza monstre. Ci ricordiamo tutti la struttura guidata da Colao e finita presto nel dimenticatoio, così come abbiamo già potuto apprezzare le falle del sistema-Arcuri.

La politica e le task-force, dall’ideologia alla tecnica

La Politica (con la P maiuscola perché va intesa nel suo insieme come tensione morale, pensiero politico, azione, ruolo dei partiti e collegamento con l’elettorato) è in crisi di competenze e di esperienze e non sa più come sbrogliare le matasse. Per questo un vertice sempre più isolato, ma comunque in buona parte votato dal popolo – ricordiamo a tale proposito che Cinque Stelle e PD, le due gambe dell’attuale governo, sono state le due liste più votate alle elezioni 2018 – deve andare ad arrogarsi il diritto di ricorrere a esperti esterni, saltando a piedi pari parlamentari e forze di partito.

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La Politica si è data in appalto, ha smesso di decidere e probabilmente pure di ragionare. L’abbassamento di preparazione e cultura politica in atto (voluto soprattutto dai pentastellati e dal loro “uno vale uno!”) ha portato a un’ulteriore erosione delle competenze già iniziata fin dai primi leghisti e portata avanti a vele spiegate da Forza Italia e dai suoi politici-imprenditori. A ciò si aggiunga un sistema fatto di politiche sempre più tecniche e meno ideologiche: anche le scelte di campo vengono tradotte in termini tecnici. La stessa discussione sul Recovery Fund è permeata di cifre, di modelli, di proiezioni. Abbiamo però sentito poco parlare di idee di welfare: il Pd, che una volta aveva dentro un’ala di socialisti liberali, non ha quasi mai nominato lo stato sociale. Sembra tutto un cadere a pioggia dall’alto, in modo improvviso e un po’ casuale, quasi fortuito.

Dov’è la Politica dei pensieri lunghi?

È venuta a mancare la Politica dei “pensieri lunghi”. Addirittura l’arrivo di così tanti denari, spalmati in tre anni, sembra dover avvenire con un tutto e subito, sotto un’appaltata direzione di tecnocrati che hanno il grande vantaggio di non scegliere in nome degli elettori, bensì in nome della tecnica stessa, applicando non un’idea di Stato né un indirizzo: semplicemente inserendo formule matematiche.

Si è tentato di delegittimare il Parlamento con il nefasto ultimo referendum: per una volta possiamo dire che la Politica ha anticipato il percorso delle cose negando a sé stessa il proprio ruolo e diventando una non-Politica. Il Parlamento, di fatto, appare già un mero ratificatore. L’arrivo imperante della tecnica allontana ulteriormente i cittadini, i quali non si appellano più alla pluralità o ai partiti ma a singoli nomi. E i singoli, molto spesso, sbagliano.

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