Il caso GECO: innovativa espressione d’arte o reato contro il patrimonio?

Nella contemporanea concezione di arte, sempre in costante mutamento e avvezza a nuove forme espressive, talvolta la linea tra la libertà e il reato risulta molto sottile, quasi incerta, spesso causa di notizie eclatanti e scandali quotidiani.

Reato o libertà d’espressione?

La street art, forma d’arte non canonica e purtroppo non ancora totalmente sdoganata, nel corso della sua storia e della sua evoluzione ha fatto perennemente parlar di sé poiché erroneamente associata al diffuso fenomeno del vandalismo. Grazie ad alcuni artisti, però, in molte parti del mondo, il graffitismo e la street art, uniti ad un nuovo concetto di arredo urbano, stanno pian piano acquisendo la pubblica legittimazione di cui fino a pochi decenni fa non potevano godere.

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Fenomeno Banksy: quando la street art viene sdoganata 

Uno dei massimi esponenti di questa nuova corrente culturale è sicuramente Banksy, artista contemporaneo formatosi nel contesto underground della Bristol giovane e attiva, che iniziò a dipingere nel cosiddetto “centro dei teppisti”. Ovviamente, come già accennato precedentemente, spesso il confine tra arte e legalità, soprattutto nelle nuove correnti espressive, risulta quanto mai incerto e sottile, tanto da portare molti writer e wallpainter a celare la loro identità dietro un fittizio tag, utilizzato per firmare le proprie opere.

Banksy, non facendo eccezione a questa consuetudine, non si è ancora rivelato al pubblico, pur essendo uno degli artisti più apprezzati del panorama mondiale, anche per via di qualche gesto di protesta di cui si rese in passato protagonista, come quando scrisse nella gabbia dei pinguini dello zoo di Londra una frase poi diventata celebre: «Siamo tutti pesci annoiati». Insomma, il tema del dissenso e della contestazione sociale è senza dubbio un punto cardine fondamentale per le nuove arti grafiche, elemento che spesso ha fatto apparire questo nuova corrente espressiva come una mera forma di vandalismo e che, unito a una mentalità forse non sufficientemente aperta, ha contribuito notevolmente alla relegazione di molte forme d’arte tipiche dell’universo hip-hop

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geco writer
Un graffito di Banksy. Foto: Wikimedia Commons.

GECO, chi è il writer arrestato?

Circa tre mesi fa la notizia che ha scosso i giornali e l’opinione pubblica è stata quella dell’arresto di GECO, il writer più ricercato d’Europa. All’anagrafe Lorenzo Perris, è riuscito a disseminare, nel corso degli anni, una quantità infinita di tag in molte capitali straniere, tra cui anche Madrid e Lisbona. Se siete di Roma vi sarà sicuramente capitato di vedere la sua firma scritta a caratteri cubitali sui luoghi più impensabili, magari sulla facciata di un palazzo di sette piani o su un cavalcavia autostradale sospeso nel vuoto. Qualcuno l’ha ribattezzato ironicamente er Diabolik de noantri, mostrando, pur senza proteste né iniziative plateali, un grande dissenso verso la sua attività, non molto gradita alla maggior parte della popolazione della capitale. 

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Gogna mediatica o santa indignazione?

Non possiamo paragonare GECO ai grandi artisti contemporanei, come ad esempio Banksy e Invader, ma il suo recente arresto ha per forza di cose fatto sorgere qualche domanda a cui ancora manca una risposta adeguata. Il naturale interrogativo che in un primo momento è parso immediato è stato per quale ragione ad alcuni artisti sia stata data la possibilità di esprimersi, magari anche tramite vere e proprie mostre, mentre altri sono ancora etichettati come criminali.

Forse è una sorta di ipocrisia da parte della collettività, che accetta solo in alcuni casi lo sviluppo e l’evoluzione di qualche forma d’arte, spesso esclusivamente nelle sue sfaccettature più mainstream, mentre relega altre correnti e movimenti a semplice teppismo. O più probabilmente è una banale mancanza di organizzazione: se si desse maggiore spazio agli artisti, ai writer e ai graffitari, magari si eviterebbe la comune indignazione nel vedere l’ennesima saracinesca dipinta o il nuovo vagone imbrattato.

Come fare? Semplice, concedere agli artisti degli spazi, dei palazzi, dei muri (possibilmente non di interesse storico), così da creare dei veri e propri isolati e degli interi quartieri interamente decorati con murales e graffiti, fornendo così non solo una tela su cui dipingere a molti street-artist, ma proponendo un nuovo e innovativo modo di concepire l’arredo urbano. In alcune città europee il concept ha funzionato, chiaramente con le dovute regolamentazioni e con una dose abbondante di civiltà. Varie sono le chiavi di lettura, contrastanti sono le opinioni sul tema, ma una cosa è certa: per minimizzare il malcontento è necessaria una seria progettazione, che conceda libertà d’espressione senza ledere la proprietà del privato cittadino, unificando gli interessi ed evitando scontri.

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