Covid-19 e scuola: dati truccati alla base del “modello svedese”

Nella comunità scientifica sta facendo scalpore lo scandalo che riguarda il celebre «modello svedese» nella gestione della pandemia, in particolare per ciò che concerne il dibattito sull’apertura delle scuole. Secondo la rivista scientifica Science, infatti, la ricerca che sta alla base di questo approccio è viziata da gravi irregolarità.

Il «modello svedese»

Gli approcci alla pandemia in Europa sono stati molteplici. Se qui in Italia il governo è stato estremamente prudente, implementando immediatamente un lockdown totale per poi allentare le regole a mano a mano che la conoscenza del virus aumentava, all’opposto troviamo la Svezia con il suo approccio volto a salvaguardare prima di tutto l’economia e la libertà di movimento dei cittadini, compreso il diritto alla scuola in presenza per gli alunni.

Questo si è tradotto in una serie di raccomandazioni alla popolazione che, senza costituire espliciti divieti, puntavano a responsabilizzare i cittadini su vari punti: lavarsi le mani spesso, stare a casa se malati, evitare le case di riposo per anziani, se possibile evitare i viaggi, evitare gli ambienti con più di cinquanta persone. Addirittura, non sono state date particolari raccomandazioni sull’uso della mascherina.

Controcorrente rispetto alla stragrande maggioranza degli altri Paesi, il governo svedese ha deciso fin da subito di mantenere le scuole aperte, scelta che ha mantenuto anche dopo la prima ondata, forte delle ricerche svolte dallo svedese Jonas Ludvigsson.

Chi è Jonas Ludvigsson?

Foto: Wikimedia Commons.

È un epidemiologo e pediatra svedese conosciuto soprattutto per i suoi lavori nel campo della gastroenterologia e famoso per essere uno dei principali firmatari della Great Barrington Declaration. Questa dichiarazione propone una gestione della pandemia focalizzata sulla protezione dei soggetti a rischio (anziani, immunodepressi eccetera) al fine di lasciare il resto della popolazione libera e di raggiungere l’immunità di gregge attraverso l’infezione naturale dal virus con l’aiuto – ora che sono disponibili – dei vaccini. Questo si traduce nel rifiuto delle normative sui lockdown e delle regole limitative delle libertà dei cittadini, sostenendo quindi la necessità di mantenere le scuole aperte e l’insegnamento in presenza per evitare ulteriori traumi legati all’isolamento da lockdown per i più giovani.

La lettera incriminata

La lettera di Ludvigsson pubblicata il 6 gennaio sul New England Journal of Medicine sostiene che l’aver mantenuto aperte le scuole durante la pandemia non abbia portato a sostanziali aumenti della mortalità tra i bambini svedesi rispetto alla normalità.

Questo è stato fatto, secondo quanto ha sostenuto da Ludvigsson, attraverso lo scrupoloso monitoraggio di tutti i casi di bambini ricoverati in terapia intensiva per Covid-19, compresi quelli con sindrome infiammatoria multisistemica. I dati portati da Ludvigsson mostrano che la mortalità nei bambini e nei ragazzi da 1 a 16 anni è rimasta sostanzialmente la stessa nel periodo pre-Covid-19 da novembre 2019 a febbraio 2020 rispetto a quello della prima ondata, da marzo a giugno 2020, nel quale «nessun bambino è morto a causa del Covid-19».
Anche per gli insegnanti vale grossomodo lo stesso concetto: Ludvigsson ha rilevato un’incidenza del virus simile a quelle delle altre categorie lavorative. La lettera si conclude con una precisazione, ovvero la mancanza di dati in merito alla diffusione del virus a livello domestico da parte dei bambini.

Gli studi di Ludvigsson sono diventati il principale argomento dei sostenitori della linea svedese e di chi è quindi ostile alla chiusura delle scuole quale misura per prevenire la diffusione del Covid-19.

Immunità: meglio il vaccino o l’infezione naturale?

Foto: Naina Helén Jåma/imagebank.sweden.se

La strategia svedese si basa su un delicato assunto: è fondamentale raggiungere l’immunità di gregge a ogni costo. Ora che sono arrivati i vaccini ed è in atto la campagna vaccinale questo è un risultato che sembra raggiungibile concretamente, ma nel periodo preso in esame da Ludvigsson i vaccini erano ancora lontani dall’essere disponibili e del virus si sapeva ancora molto poco. La scommessa era quindi di raggiungere l’immunità di gregge attraverso la guarigione dal virus dopo essere stati contagiati per via naturale, il che non è affatto scontato, anzi. Le ultime ricerche evidenziano che, dopo aver contratto naturalmente il Covid-19 ed essere guariti, è possibile reinfettarsi. Il fenomeno non è un’ipotesi, i casi sono reali e documentati e l’immunità naturale appare particolarmente debole nei confronti delle varianti.

Di converso, i risultati che provengono dalla campagna vaccinale in corso mostrano un’immunità più forte, duratura e una copertura – finora – ottima nei confronti delle varianti. Non solo, il rapporto rischio benefici tra infezione naturale e vaccini è inclemente. Gli studi dimostrano che al fine di ottenere l’immunità i vaccini sono la via nettamente più sicura ed efficace. Altrettanto non si può dire dell’infezione naturale, che può portare a serie conseguenze a lungo termine, in particolare a carico dei polmoni.

La smentita di Science

Le ricerche di Ludvigsson hanno insospettito molti studiosi e, com’è abitudine nel mondo scientifico, i ricercatori (e non solo) hanno cominciato a fare le pulci al suo lavoro.

Altre due lettere sullo stesso New England Journal of Medicine hanno infatti contestato nel merito il ragionamento alla base della ricerca svedese. Il punto non è la mortalità da Covid-19 tra i bambini – la cui scarsa incidenza è risaputa – ma quante persone a loro volta i bambini rischiano di infettare quando tornano a casa, cioè proprio il punto su cui Ludvigsson ha candidamente affermato di non avere dati. Non solo, pensare che i risultati della ricerca svedese siano un segnale dell’innocuità nel tenere le scuole aperte in piena pandemia non è affatto automatico, quanto piuttosto un caso fortuito relativo alla specifica situazione svedese. Ad esempio, la densità di popolazione gioca un ruolo fondamentale nel contagio. Tra Svezia e Taiwan, per citare due casi opposti, c’è un abisso, quindi applicare gli stessi metodi in entrambi i luoghi porterebbe a conseguenze diametralmente opposte.

A queste due lettere ha fatto eco un articolo uscito su Science che non solo ha messo in dubbio l’analisi di Ludvigsson sul piano del metodo ma addirittura porta prove a dimostrazione del fatto che gli autori della ricerca svedese avrebbero omesso di inserire nella ricerca dei dati che contraddicevano le loro conclusioni.

Infatti, oltre alle due lettere di cui sopra, Science riporta l’indagine svolta da una privata cittadina svedese, Bodil Malmberg, che a un certo punto si è resa conto che i conti non tornavano nel lavoro di Ludvigsson.
E aveva ragione. Malmberg ha notato un aumento della mortalità anomalo, non riportato nelle casistiche della ricerca svedese. A quel punto ha richiesto di accedere alle email di Ludvigsson, una procedura perfettamente legale in Svezia, riuscendoci. In particolare ha avuto accesso alle email che si sono scambiati Ludvigsson e Anders Tegnell, responsabile della task force svedese che ha l’obiettivo di far raggiungere alla Svezia l’immunità di gregge.

Dalla corrispondenza dei due è emerso che Ludvigsson era a conoscenza di dati che smentivano la sua ricerca e nonostante questo ha deciso di non farne menzione. Un caso di cherry picking estremo, con pesanti conseguenze.

Scrive Ludvigsson a Tegnell: «Sfortunatamente c’è una chiara indicazione in merito all’eccesso di mortalità nei bambini in età scolare tra i tre e i sedici anni. Nei mesi primaverili, tra il 2015 e il 2019 c’è una media di 30,4 bambini deceduti. Nel 2020, 51 bambini in età scolare sono deceduti. Un eccesso di mortalità pari al 68%». Ludvigsson sostiene però che possa trattarsi di una variazione fortuita dato che i numeri in questione sono estremamente bassi. Al che ha cercato di rintracciare le cause di questi decessi, senza successo. In occasione della sua risposta alle critiche pubblicate il primo di marzo, Ludvigsson ha aggiornato il suo paper con i dati sulla mortalità dal 2015 al 2019, continuando però a occultare quel 68% di aumento nella mortalità in età scolare.

Foto: Ann-Sofi Rosenkvist/imagebank.sweden.se

La deontologia nel mondo scientifico

Quanto compiuto da Ludvigsson – che non ha negato il contenuto delle email – è un fatto estremamente grave. Oltre alle conseguenze materiali nei confronti della popolazione svedese in generale e dei bambini in particolare, si tratta di una grave crepa nella fiducia che con grande difficoltà la comunità scientifica cerca costantemente di costruire con l’opinione pubblica.

Da un anno i governi di tutto il mondo si trovano a gestire un’emergenza complessa, nella quale devono costantemente bilanciare il conflitto tra l’esigenza di salvaguardare la salute dei cittadini e quella non far collassare la propria economia. In questo senso la scienza svolge un ruolo fondamentale e poter contare su ricerche veritiere è un tassello insostituibile affinché i governi possano fare le scelte che ritengono migliori.

La deontologia di chi fa ricerca dovrebbe essere sempre proiettata a far sì che il fine ultimo sia sempre la verità. Piegare la scienza all’esigenza di dimostrare una tesi preconcetta anziché separare ciò che è vero da ciò che è falso è uno dei problemi principali che la comunità scientifica si trova ad affrontare al giorno d’oggi. Il fatto che Ludvigsson sia riuscito a far pubblicare la sua ricerca oltrepassando i filtri editoriali di una rivista scientifica come il New England Journal of Medicine deve fare riflettere ma, al contempo, la reazione della comunità scientifica ha dimostrato che gli anticorpi ci sono e sono molto solidi: la risposta è stata indubbiamente efficace, il che fa ben sperare.

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