Vaccini, quando arriverà il turno degli ultimi?

La scarsità delle prime dosi di vaccini contro il Covid-19 ha costretto il governo italiano a stabilire categorie prioritarie nel processo di immunizzazione. Ma c’è una quota di popolazione che rischia di rimanere fuori da questa gerarchizzazione cronologica. Richiedenti asilo, profughi e migranti irregolari presenti sul territorio, dimenticati da quasi la metà dei Paesi che hanno già dato alla luce un piano di vaccinazione strutturato.

All’inizio di febbraio, alcune associazioni, tra cui Caritas, Emergency e Medici senza frontiere, hanno sollevato la questione, con una lettera al Ministro della Salute Roberto Speranza, evidenziando la necessità di impostare misure specifiche per la vaccinazione delle categorie marginali. Non solo migranti, ma anche senzatetto, apolidi, gruppi etnici particolarmente svantaggiati e cittadini senza documenti.

Rispondendo ad alcune FAQ sul proprio sito, l’Agenzia italiana del farmaco ha detto che saranno vaccinate “tutte le persone presenti sul territorio italiano, residenti, con o senza permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 35 del testo unico sull’immigrazione”. Non è ancora chiaro, però, quando arriverà concretamente il turno degli ultimi. E soprattutto se e come il sistema sanitario sarà in grado di superare le tradizionali barriere che marginalizzano questi individui, specialmente quelli che sfuggono alla rete dell’accoglienza.

Secondo i dati ISPI, parliamo di oltre 600.000 persone attualmente in condizioni di irregolarità giuridica, di cui soltanto un terzo in fase di regolarizzazione, stando ai numeri di Human Rights Watch. Si tratta di individui che non hanno mai ottenuto un permesso di soggiorno, oppure con documenti non più in corso di validità, rimasti ugualmente sul territorio italiano.

A queste cifre, si aggiungono circa 50.000 italiani e stranieri senza fissa dimora, più alcune minoranze etniche particolarmente svantaggiate, come Rom, Sinti e Camminanti (circa 160.000, stando ai dati del Sole 24 ore). Senza dimenticare gli ospiti delle strutture di accoglienza (circa 85.000 persone), per cui le dosi dei vaccini difficilmente arriveranno prima della fine del 2021.

Il calderone dell’emarginazione sociale raccoglie al suo interno persone molto diverse tra loro, accomunate da condizioni di particolare disagio, e da evidenti limitazioni nell’accesso al servizio sanitario nazionale. Ma proprio per questo potenzialmente prioritarie nel processo di somministrazione dei vaccini, anche se con binari di accesso e fruizione ancora tutti da costruire.

Senzatetto sotto il pronao del Teatro Carlo Felice di Genova. Foto: Wikimedia Commons.

Bassa marea

Secondo un dettagliato studio pubblicato ad agosto dall’INMP (Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà), condotto sul periodo 1 febbraio-12 giugno 2020, il sistema di accoglienza italiano ha resistito con buona efficacia alla prima fase della pandemia.

I casi confermati di positività al coronavirus, in 5.038 strutture di accoglienza sulle 6.837 censite dal Ministero dell’Interno, sono stati 239 su 59.648 ospiti presi in considerazione. Queste persone erano distribuite in sessantotto strutture di otto regioni (Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Liguria, Emilia-Romagna, Lazio e Molise). Sessantadue sono state ricoverate e due di queste sono finite in terapia intensiva. Ma non sono stati registrati decessi. Il 60,7% dei casi confermati aveva meno di trent’anni, e per il 90,8% di questi si tratta di uomini. Tra l’altro, i 239 casi confermati erano tutti ospiti nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS). Mentre i CARA (Centri di Accoglienza per i Richiedenti Asilo) e i Centri di Accoglienza per Minori Stranieri non Accompagnati non hanno registrato casi di positività.

I nodi critici del sistema di accoglienza, durante una pandemia, non riguardano soltanto l’ordine di priorità nel processo di somministrazione dei vaccini anti Covid. La ricerca di spazi adeguati per la quarantena, ad esempio, ha presentato notevoli difficoltà. Il 98,2% delle strutture partecipanti all’indagine dell’INMP ha detto di possedere un quantitativo sufficiente di dispositivi di protezione individuale. Ma soltanto il 44,1% dei casi sospetti, in quarantena presso le strutture interpellate, è stato isolato in una stanza singola con servizi privati.

In Italia, il sistema di accoglienza è strutturato a strati, e si rivolge alla tutela dei richiedenti protezione internazionale, dei rifugiati, dei titolari di protezione internazionale, dei minori stranieri non accompagnati e dei titolari di specifici permessi di soggiorno. Complessivamente, al 15 luglio 2020, questo insieme toccava la cifra di 85.498 persone. I Centri di Accoglienza Straordinaria ospitano l’81% del totale di questi individui, nonostante si tratti di strutture teoricamente ricavate per sopperire alla mancanza di posti negli hub ordinari. Ad oggi, però, come conferma Open Migration, i CAS costituiscono un canale ordinario per l’accoglienza, nonostante la permanenza in questi luoghi dovrebbe essere limitata al tempo strettamente necessario al trasferimento in altre strutture.

L’età media dell’80% degli ospiti dei centri d’accoglienza, tra le altre cose, si attesta tra i 20 e i 34 anni.  Questo contribuisce a renderli teoricamente non prioritari nel processo di vaccinazione, seppur in larga parte ospiti di strutture svantaggiate o provvisorie, specie considerando i Centri per il rimpatrio (CPR), i cui soggetti dovranno comunque essere coinvolti nel processo di immunizzazione. In più, l’ingolfamento delle Asl ha ridotto l’assistenza ordinaria per gli ospiti di queste strutture, costringendole ad appoggiarsi su basi mediche volontarie e associazionistiche esterne. I dati relativi all’impatto della seconda ondata sul sistema di accoglienza italiano non sono ancora noti. Ma, in ogni caso, numeri di questo tipo possono essere considerati molto affidabili. Le Asl locali non hanno fatto fatica a tracciare i contatti dei casi sospetti nei centri di accoglienza, secondo quanto riporta l’INMP.

I problemi veri per queste strutture, tenendo da parte la gestione critica degli spazi per la quarantena, riguardano la loro ulteriore marginalizzazione, in una fase in cui la domanda di vaccini è altissima e l’offerta non ancora adeguata. Alcuni Paesi, come la Germania, hanno impostato il loro programma di vaccinazione partendo da un punto di vista diverso rispetto all’Italia. Essi hanno cercato di tutelare da subito gli strati socialmente più deboli della popolazione, preoccupandosi della vaccinazione nei centri di accoglienza attraverso unità mobili in loco, e costruendo corridoi preferenziali specifici anche per i senzatetto.

L’ingresso del Centro di Accoglienza Richiedenti Asilo (CARA) di Crotone. Foto: Wikimedia Commons.

Ultimi tra gli ultimi

L’altro grande problema riguarda i migranti che vivono all’ombra dell’irregolarità giuridica. Dall’emanazione dei Decreti Sicurezza, il loro numero è aumentato di circa 120-140.000 unità. L’abolizione dei permessi per motivi umanitari, congiunta alla politica dei porti chiusi, ha contribuito a svuotare i centri di accoglienza, i cui ospiti sono scesi dai 183.800 del 2017 ai circa 85.000 di fine giugno 2020; ma anche a ridurre la percentuale di riconoscimento delle domande di protezione presentate (dal 32,2% del 2018 ad appena il 19,7% del 2019, secondo un rapporto del Centro Studi e Ricerche Idos, in partenariato con la rivista Confronti). Tutti questi aspetti convergenti hanno contribuito a ingrossare le file degli stranieri irregolari. Rispetto al 2013, il loro numero è quasi raddoppiato: da 300.000 unità a più di 600.000 (649.000, stando ai dati ISMU e alle proiezioni ISPI per il 2021).

Rispetto all’inizio della pandemia, la gestione del flusso dei migranti, giunti in Italia tramite imbarcazioni o attraverso la frontiera terrestre, si è ormai incanalata verso procedure standardizzate. Questi individui vengono valutati al loro arrivo dagli Uffici di Sanità Marittima, Aerea e di Frontiera. O dall’Asl competente per l’identificazione di urgenze di tipo medico. A seguito di eventuale contagio da coronavirus, si procede all’accoglienza in strutture per l’isolamento, che durante la pandemia hanno faticato a essere disponibili con spazi adeguati. Solo in una seconda fase si passa allo smistamento nei livelli dedicati del sistema di accoglienza. Ed eventualmente si procede verso un lentissimo processo di rimpatrio.

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Per gli irregolari già fuori dal circuito è molto difficile avere dati precisi. E quelli che abbiamo sono da considerarsi parziali, utili solo per avere un’idea generale delle dimensioni del fenomeno. Questo complica l’organizzazione pratica del processo vaccinale dedicato a gruppi di individui che, negli ultimi anni, hanno rinforzato uno stato sommerso.

L’alone di silenzio sulle priorità di queste quote marginali di popolazione è solo in parte giustificato dalle difficoltà generali del processo di somministrazione dei vaccini. Anche perché il modo in cui la vaccinazione degli ultimi verrà messa a terra potrebbe non dipendere soltanto dalle volontà dello Stato. Una delle richieste al Ministro della Salute della lettera di quelle associazioni si focalizza su una maggiore flessibilità amministrativa, che renda il diritto al vaccino effettivamente praticabile per tutti. Ma che consenta anche a quelle categorie sociali di ricevere vaccini senza bisogno di documenti o prenotazione su piattaforme virtuali.

Accanto a questo, servirà un’adeguata e specifica campagna di sensibilizzazione, che riavvicini lo stato sommerso alla sua superficie. I problemi di un processo simile, infatti, sono molto diversi da quelli dei centri di accoglienza. Questi ultimi, nonostante le difficoltà, possono provvedere alla tutela sanitaria minima dei loro ospiti, e dunque costruirsi corridoi specifici per la vaccinazione. Rendere prioritarie le categorie sociali svantaggiate, nel processo di somministrazione dei vaccini, rappresenterebbe un vero messaggio di rottura per una fase storica in cui il divario tra ricchi e poveri non smette di allargarsi.

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L’input per la vaccinazione degli ultimi non dovrebbe essere generato solo dalla volontà di limitare i cluster di contagio. Ma anche dalla necessità di stringere le maglie dello Stato intorno a chi, dallo Stato stesso, è fuggito o non viene riconosciuto. Il tutto partendo da un processo di vaccinazione strutturato e finalmente proattivo, con unità mobili che possano seguire e accompagnare l’immunizzazione attiva degli ultimi. Sarebbe il primo passo verso una reintegrazione efficace di questi soggetti, che riesca a prescindere dalla necessità impellente di fare giustizia piegandoli alle norme. Sarebbe anche il primo mattoncino per una nuova retorica dell’accoglienza, costruita attraverso il ribaltamento delle priorità sui vaccini, ma che transiti solo in prima battuta da un siero inoculato contro un temibile agente patogeno.

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