La sfida di Letta passa dalla capacità del Pd di cedere potere

Per certi versi il rapporto che il Partito Democratico ha con la figura del suo segretario sembra quello di una squadra di calcio con il suo allenatore: quando le cose non vanno, lo si cambia. Un po’ spesso a dire il vero. Nove segretari in tredici anni rappresentano una sorta di abitudine al ricambio, quasi un metodo. A volte gli avvicendamenti alla segreteria sono stati dettati da sconfitte elettorali, altre in seguito a rotture o scissioni. Altre volte ancora, e questo è sembrato il caso, senza ragione apparente.

Zingaretti si è dimesso dopo che le critiche interne nei suoi confronti si sono fatte più consistenti a seguito della crisi di governo. Nel giro di poco più di una settimana però, proprio come dopo l’esonero di un allenatore, il Pd ha già trovato un nuovo segretario. Enrico Letta è stato eletto in assemblea nazionale domenica 14 marzo quasi all’unanimità, completando una sostituzione rapida e indolore alla guida del partito. Un partito che, più che di una riflessione interna, avrebbe bisogno di confrontarsi con ciò che sta fuori, cercando di abbandonare la sua ormai tipica autoreferenzialità e provando a cedere spazi di potere. 

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Il partito del potere (e dei comunicati stampa)

«Il partito del potere». Così Letta ha definito il Pd durante il suo discorso in assemblea, affermando il valore dell’opposizione rispetto a un governismo che nel centro sinistra ha spazzato via negli ultimi anni qualsiasi pretesa di ideale. Una sorta di appiattimento in nome dell’amministrazione del potere che ha fatto venir meno la passione politica tipica di una forza di sinistra. Le dimissioni di Zingaretti sono state la chiusura perfetta di un cerchio iniziato con l’alleanza giallorossa – strategica per evitare il voto e la conseguente vittoria della destra – e finito con un immobilismo generale dopo la caduta del Conte bis.

Il problema del Pd non sono le correnti

La fine della segreteria Zingaretti dunque ha di certo le sue ragioni, che sono però (quasi) tutte interne al partito. Si dice spesso infatti che il problema del Pd sono le correnti. Lo stesso Letta ha giocato sulla palese difficoltà di venire a capo della geografia interna al Partito Democratico, dicendo di «non aver capito nulla» a riguardo. Il problema vero però non è tanto l’esistenza di queste correnti, quanto che esse non sono mai state portatrici di interessi diversi, rappresentanti di anime contrastanti. Non sono mai state cioè il riflesso di un reale confronto all’interno del Paese.

 

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Il Partito Democratico ha fatto di questa dialettica fine a sé stessa quasi un metodo. Si inizia lanciando qualche frecciatina con un comunicato stampa, si prosegue con «la richiesta di un confronto» nelle interviste ai quotidiani, si finisce con le dimissioni del segretario. Ma tanto, morto un Papa se ne fa un altro ed ecco così Enrico Letta che apre l’ennesima stagione di rinnovamento del partito. Durante questa crisi del Pd, durata poco più di due settimane, si è avuta la netta sensazione che le critiche rivolte dagli ex renziani a Zingaretti fossero abbastanza vuote dal punto di vista dei contenuti politici. In pieno stile Pd erano invece orientate alle strategie elettorali. A molti sindaci eletti con l’appoggio del Partito Democratico ma non propriamente “militanti” non è mai andata giù l’alleanza con i 5 Stelle, e così ai vari Marcucci, Lotti eccetera. 

Un partito chiuso in sé stesso

Uno degli scambi più emblematici di questa crisi è avvenuto, sempre a suon di comunicati stampa, tra il neo ministro del lavoro Orlando e il capogruppo dem al Senato Andrea Marcucci (fedelissimo di Renzi rimasto nel Pd). Orlando ha accusato gli ex renziani di voler «logorare» Zingaretti; Marcucci ha risposto: «insegue delle ombre». Contenuti politici non pervenuti, interesse alla vicenda da parte del Paese nemmeno.

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L’unica critica sensata, quella delle donne

In mezzo alla crisi del Partito Democratico non ci sono stati però solo attacchi personali a Zingaretti o all’alleanza con il Movimento 5 Stelle. C’è stata anche una critica, l’unica, che aveva un contenuto politico e che rappresentava un interesse reale all’interno del Paese: quella che hanno portato avanti le donne del partito. In seguito alla nomina di tre ministri uomini da parte di Zingaretti per il nuovo governo Draghi, quasi tutte le esponenti del Pd hanno accusato i dirigenti del partito di un’evidente incoerenza tra le dichiarazioni in favore della parità di genere e le azioni politiche volte a sostenerla. 

Un percorso politico serio

Questi attacchi da parte delle donne democratiche non sono campati per aria e non nascono improvvisamente dopo la scelta dei tre ministri. Sono parte integrante di un percorso che molte esponenti dem stanno portando avanti con associazioni, come Il Giusto Mezzo e Half Of It, in nome della parità di genere. Questa azione politica ha un obiettivo preciso che è legato alla richiesta di destinare la metà delle risorse del Recovery Fund alle donne. La metà dei fondi di Next Gen EU dovrà essere utilizzata per conseguire la parità salariale tra uomini e donne, per stimolare progetti di imprenditoria femminile, attivare politiche di occupazione femminile, liberare le donne dai carichi di cura non retribuiti, garantire asili nido gratis, aumentare i fondi per il contrasto alla violenza di genere. Insomma, un’azione politica chiara che risponde a un’esigenza sentita nel Paese e avanza soluzioni pratiche per le quali le principali attrici sono più volte scese in piazza e intorno alle quali hanno organizzato momenti di confronto e di dibattito. Un po’ diverso dal comunicato stampa in cui si chiede «un momento di riflessione interna» o si accusa di «inseguire le ombre».

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Di quale apertura ha bisogno il Pd?

Non è un caso che questa azione politica sia portata avanti dalle donne democratiche insieme a numerose associazioni radicate nei territori. Esse avanzano infatti temi concreti al cospetto della politica e chiedono risposte precise. È di questa apertura che il Partito Democratico avrebbe bisogno anche su tutti gli altri temi che riguardano il nostro tempo. Quello dell’ambiente, dell’accesso ai diritti, delle politiche del lavoro. Aperture politiche, non elettorali, che avrebbero inoltre l’effetto di far ritornare tra i circoli quel calore che negli anni è stato appiattito in nome dell’amministrazione del potere.

Enrico Letta non è la soluzione

Enrico Letta nel suo discorso di apertura ha toccato in qualche modo questi temi, ma l’impresa da compiere è ardua. In primo luogo perché il metodo scelto per l’elezione del segretario va nella direzione opposta. Invece che nominare una guida dopo un rinnovamento del partito si è deciso di affidare (praticamente all’unanimità) il processo del cambiamento a una sola persona. È vero, il momento non è dei migliori per avviare un confronto che porti alle primarie, ma vedere un cambio di segreteria così rapido è quanto meno strano. In secondo luogo perché anni di governismo e di progressivo raffreddamento delle emozioni non si cambiano in un attimo. Bisognerebbe passare dalle dichiarazioni all’ascolto, dai comunicati stampa al confronto in piazza, nelle fabbriche, nelle scuole. Addirittura bisognerebbe fare lo sforzo di stare all’opposizione, pratica abbastanza sconosciuta ultimamente dalle parti del Nazareno.

Un cambio di metodo

Si tratta di un cambio di metodo che non si può affidare a un solo uomo, ma che riguarda un’intera comunità. L’esempio delle donne democratiche è vivo ed è un modello che tutto il partito dovrebbe seguire per la sua capacità di dare spazio a realtà che esprimono istanze di cambiamento sentite. Questo significa aprirsi: cedere spazi di potere per condividerli con chi non ne ha. Se Letta riuscirà ad accogliere all’interno del partito questo metodo di reale apertura avrà vinto la sua sfida, indipendentemente dai risultati elettorali che il Pd raggiungerà nel breve termine. Se baderà alle alleanze, all’amministrazione e alla gestione del potere sarà invece solo l’ennesimo nuovo (ed ex) segretario del Pd.  

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