Omotransfobia: chi ha paura del decreto Zan?

Dopo mesi di slittamenti e polemiche, il ddl Zan è stato finalmente calendarizzato in commissione Giustizia. Ma con un colpo di scena degno di una soap opera, proprio il leghista Ostellari che ne ha favorito lo stallo sfruttando il suo ruolo di presidente della commissione se ne è auto-nominato relatore, lasciando presagire per il disegno di legge una strada ancora tutta in salita.

La discussione sul ddl Zan

Se ne parla appena da vent’anni dopotutto, e mentre in Italia ancora si specula se davvero esistano matrimoni e famiglie alla fine dell’arcobaleno, nei Paesi evoluti la scoperta della ruota ha cambiato il volto della tecnologia, il buio non fa più paura grazie alle meraviglie del fuoco domestico e i figli delle coppie gay si sono ormai laureati e sono diventati a loro volta genitori. Ma di che cos’è, esattamente, che stiamo discutendo?

Nonostante le categorie coinvolte comprendano anche donne e persone diversamente abili, il grande problema alla base di questo decreto legge e dell’opposizione a esso, è lo stesso, l’omotransfobia. Da un lato le persone della comunità LGBTQIA* non hanno più intenzione di farsi trattare come cittadini di serie B e, visto che pagano le tasse e sono soggette agli stessi obblighi e doveri di chiunque altro, pretendono anche gli stessi diritti e le stesse tutele.

Dall’altro lato, c’è chi non vuole che nulla di tutto questo accada perché è convinto di rappresentare l’unico modello di valori possibile. Sulla base di tale preconcetto, tenta di negare a coloro che invece non vi si riconoscono la possibilità garantita dalla costituzione di realizzarsi appieno come persone, come professionisti, come cittadini a tutti gli effetti. Il ddl Zan, estendendo i reati d’odio anche alle manifestazioni (fisiche e verbali) di odio omotransfobico, rischia di ostacolare questa agenda e dunque va bloccato in ogni modo, rispolverando per l’occasione la classica retorica e i soliti slogan del mondo conservatore.

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Le priorità sono altre

Tra i principali argomenti forniti a giustificare tale ostracismo, spicca l’intramontabile classico «non è una priorità per il Paese», orgoglio e vanto italiota che dai palazzi della politica riecheggia senza sosta nel vespero migrar di Twitter.

Le priorità sono altre, tuonano i leghisti, come ad esempio, trasformare la Repubblica Italiana in uno Stato federale, chiamato Stati Uniti d’Italia (Vescovi, DDL 1869, 2020), fare in modo che la canzone Romagna mia venga insegnata nelle scuole «quale espressione popolare dei valori fondanti della nascita e dello sviluppo della Repubblica» (Morrone ed altri, proposta di legge C. 2766, 2020), istituire la giornata nazionale dei figli, con tanto di Premio nazionale dei figli d’Italia (Pillon, atto senato n.1670, 2020) o istituire la giornata di commemorazione della battaglia di Lepanto «quale evento simbolo della difesa della cultura e dell’identità cristiana in Europa» (Vallardi, atto Senato n. 1986, 2020).  No, non è Lercio.


Celebre è anche la loro ultima crociata contro i Griffin, sit-com animata del filone umoristico-demenziale accusata di aver «sconfinato pesantemente nel cattivo gusto e nell’offesa ai sentimenti religiosi». E se a dirlo è Calderoli, uno che ha portato a spasso un maiale sulla terra destinata alla costruzione di una moschea e ha paragonato l’allora ministro Cécile Kyenge a un orango, possiamo fidarci.

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Una legge liberticida

Sarebbe comico, se non fosse tragico, osservare le stesse persone che sprecano tempo e risorse a denunciare un cartone animato, accusare il ddl Zan di sottrarre tempo prezioso alla politica e di minacciare la libertà di espressione. Sì, perché l’altro grande tormentone di questi giorni, è che il decreto in questione sia addirittura una “legge liberticida”.  È una libertà di espressione un po’ particolare a essere minacciata, visto che consente di offendere i sentimenti e la dignità di un’intera categoria di onesti cittadini definendoli “pedofili”, ma non di fare umorismo sulla storia di un bambino sovrumano nato da una madre vergine.


Priorità, appunto, e soprattutto coerenza. Come proclamarsi paladini dei bambini e poi opporsi a campagne di informazione e sensibilizzazione mirate a combattere il bullismo nelle scuole e a educare i giovani al rispetto e all’inclusività, nella speranza di non crescere altre generazioni di trogloditi capaci di spingere un ragazzino al suicidio solo perché voleva indossare dei pantaloni rosa o di aggredire due persone in mezzo alla strada perché si tengono per mano. Dimenticate ignoranza e pregiudizio, i bambini vanno protetti da una cosa sola: l’ideologia gender.

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Lo spauracchio del gender

La fantomatica teoria del gender (da non confondersi con i gender studies) è in sostanza l’idea che il non riconoscersi nel modello binario di genere, sia una sorta di moda frivola o di bizzarro capriccio, nonché la base di un malvagio complotto gay per “gayzzare” l’umanità, attraverso la diffusione di “false ideologie” come la possibilità di non essere eterosessuale, volte a minare le fondamenta della nostra società e a distruggere l’idilliaco paradiso terrestre nel quale viviamo.
Insomma se una volta i comunisti mangiavano i bambini, oggi i gay vogliono renderli favolosi.


Nel frattempo, fuori dalla tana del Bianconiglio, l’identità di genere esiste eccome e, insieme ad altri fattori quali il sesso attribuito alla nascita, l’orientamento sessuale e affettivo e l’identità di orientamento sessuale, è semplicemente una parte di ciò che compone la nostra identità sessuale.
Già un decennio fa l’American Psychological Association spiegava che il gender, ossia il genere, «si riferisce agli atteggiamenti, ai sentimenti, ai comportamenti che una determinata cultura associa al sesso biologico di una persona» mentre l’identità di genere «è una componente del genere che descrive la percezione psicologica del proprio genere».


Approfondendo ulteriormente il concetto attraverso le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Salute, scopriamo che il gender «si riferisce alle caratteristiche di donne, uomini, ragazze e ragazzi che sono socialmente costruite. […] In quanto costrutto sociale, il genere varia da società a società e può cambiare nel tempo» mentre «l’identità di genere si riferisce all’esperienza di genere profondamente sentita, interna e individuale di una persona, che può o meno corrispondere alla fisiologia della persona o al sesso designato alla nascita». Sempre l’Oms aggiunge: «È importante riconoscere identità che non rientrano nelle categorie binarie di sesso maschile o femminile».


A mettere definitivamente una pietra sopra il concetto stesso di ideologia gender e di indottrinamento nelle scuole, ci pensa poi l’AIP, Associazione Italiana di Psicologia: «Favorire l’educazione sessuale nelle scuole e inserire nelle progettualità didattico-formative contenuti riguardanti il genere e l’orientamento sessuale non significa promuovere un’inesistente “ideologia del gender”, ma fare chiarezza sulle dimensioni costitutive della sessualità e dell’affettività, favorendo una cultura delle differenze e del rispetto della persona umana in tutte le sue dimensioni».


Tuttavia fornire queste semplici informazioni per qualcuno significa “istigare all’omosessualità”, logica alla base di altre note prese di posizione come quella contro le adozioni gay e le famiglie omogenitoriali in generale.

L’omosessualità è omosessualità e basta

Certo, se un’educazione sessuale onnicomprensiva, un ambiente solidale e inclusivo e genitori gay rappresentano un’ istigazione all’omosessualità se non un vero e proprio lavaggio del cervello, resta da capire come sia possibile che in Italia, un Paese da sempre agli ultimi posti delle classifiche in tema di diritti LGBT+ ma sempre ai primi quando si tratta di discriminazioni, esista anche solo una persona non-binary.


«Se esistesse questo tipo di condizionamento, visto lo stigma profondo nei confronti degli omosessuali questi sarebbero già scomparsi da secoli» fa notare Fiorenzo Gimelli, presidente dell’Agedo, un’associazione che riunisce a livello nazionale genitori, parenti, amiche e amici di persone lesbiche, gay, bisessuali, trans*, +. «I genitori Agedo ad esempio, rispecchiano la media della società, coppie sposate, conviventi, single, eccetera. Se le persone omosessuali e transgender sono tra il 5 e il 10% del totale, questa è la probabilità relativa ad un figlio a prescindere dall’identità del genitore».


Come ben riassume Sei sempre tu, ispirata opera informativa su omosessualità e varianza di genere a cura dell’Agedo: «L’omosessualità è omosessualità e basta. Esiste da sempre, in tutti i luoghi del mondo. Troviamo persone gay, lesbiche e bisessuali in tutti i tipi di famiglie e l’omosessualità è presente anche nel regno animale».

Foto di Siggy Nowak da Pixabay.

In effetti, l’omosessualità è stata riscontrata in almeno millecinquecento specie animali sia come atto sessuale che come modello relazionalegenitoriale, e sebbene sia difficile indagare a fondo su possibili problematiche inconsce causate da padri-pinguino assenti e madri-pinguino iper-protettive (i pinguini, si sa, prediligono l’approccio comportamentale a quello psicoanalitico), pensare che l’omosessualità possa essere “suscitata” tramite condizionamento esterno resta un’idea ridicola quanto pensare che sia una scelta personale o una malattia invece che una «una variante naturale del comportamento» (Oms).

L’ignoranza e il pregiudizio, però, spesso ancora prevalgono. Ne sanno qualcosa le persone transgender ad esempio, che hanno dovuto attendere il 2019 solo perché la disforia di genere venisse derubricata da malattia mentale a disturbo della salute sessuale. Definizione ancora inadeguata ma burocraticamente necessaria, pare, per consentire loro l’accesso ai percorsi medici come la terapia ormonale.

L’importanza di riconoscimenti e tutele

Se il fior fiore delle categorie professionali (Organizzazione Mondiale della Salute, Associazione Italiana di Psicologia, American Psychological Association, American Psychoanalytic Association, American Association of Child and Adolescent Psychiatry, American Academy of Pediatrics, Ordine Nazionale degli Psicologi Italiani) è concorde nel riconoscere sia la pluralità dell’identità sessuale sia che crescere in una famiglia omogenitoriale non pregiudica in alcun modo lo sviluppo psicofisico di un bambino (figuriamoci quindi entrare in contatto con questa realtà in via astratta, in un contesto educativo), chi come l’Unicef, Save the Children o Amnesty International i bambini li difende davvero, non solo supporta leggi come il ddl Zan, ma ne riconosce il carattere prioritario, auspicando «l’emanazione di leggi che forniscono alle coppie LGBT e ai loro figli il riconoscimento legale dei loro legami familiari». E non sono i soli.


Una dichiarazione congiunta del 2015 di dodici enti delle Nazioni Unite (ILO, OHCHR, UNAIDS Secretariat, UNDP, UNESCO, UNFPA, UNHCR, UNICEF, UNODC, UN Women, WFP and WHO) stabilisce senza mezzi termini che: «La mancata difesa dei diritti umani delle persone LGBTI e della loro protezione da abusi come la violenza e leggi e pratiche discriminatorie, costituiscono gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e hanno un impatto di vasta portata sulla società. […] Gli Stati hanno il principale dovere, in base al diritto internazionale, di proteggere tutti dalla discriminazione e dalla violenza. Queste violazioni richiedono quindi una risposta urgente da parte di governi, parlamenti, organi giudiziari e istituzioni nazionali per i diritti umani. Anche i leader comunitari, religiosi e politici, le organizzazioni dei lavoratori, il settore privato, i fornitori di servizi sanitari, le organizzazioni della società civile e i media hanno un ruolo importante da svolgere. I diritti umani sono universali – le pratiche e le credenze e gli atteggiamenti socio-culturali, religiosi e morali non possono essere invocati per giustificare violazioni dei diritti umani contro alcun gruppo, comprese le persone LGBTI».

Un modello intoccabile?

Se contare sull’empatia dell’essere umano verso il suo prossimo o sul fatto che impari qualcosa dagli errori del passato è evidentemente utopia pura, sembra troppo anche sperare in un po’ di buonsenso. Dunque, nonostante i dati e la letteratura sull’argomento si sprechino, la discussione riparte ogni volta da zero, anzi, da meno di zero.


Così nel 2021 ci ritroviamo a parlare di famiglia naturale, un’assurdità antropologica resa ancora più assurda dal fatto che i suoi più aggressivi sostenitori siano di frequente persone pluridivorziate, scapoli impenitenti, genitori single, personalità religiose mai coniugate. E mentre la maggior parte delle violenze su minori avviene proprio in famiglia (come d’altra parte, la maggioranza dei femminicidi) e proprio da parte di uno dei due genitori (i classicissimi, naturalissimi, papà e mamma), istituzioni e gruppi associati a violenza e disparità di genere, violazione dei diritti umani, pedofilia, accusano una minoranza che ha da poco e a malapena conquistato il diritto di esistere, di minacciare l’esistenza del loro stile di vita, da loro giudicato superiore e intoccabile.


Cosa sia esattamente rimasto da “toccare” nel modello di famiglia etero-normativo che non sia già stato “toccato” all’interno del modello stesso, resta tutto da scoprire. Come giustamente si chiede Claudio Rossi Marcelli, scrittore, giornalista e padre di tre splendidi bambini avuti con un altro uomo: «Se la natura è così generosa da permettere che quasi chiunque, a prescindere dalle sue motivazioni e dalle sue capacità genitoriali, possa avere un bambino, perché la società deve accanirsi contro quelli che aspirano davvero a diventare genitori ma hanno bisogno di aiuto per riuscirci?» (Lo zoo delle Famiglie, Vallardi, 2015).

Foto di Sharon McCutcheon da Pixabay

Una famiglia fondata sull’amore

Lo studio pubblicato dal Ministero della Giustizia tedesco a opera della dottoressa Martina Rupp, vicedirettrice dell’Istituto Statale per la Ricerca sulla Famiglia di Bamberga, viene sottolineato che «il fattore decisivo per lo sviluppo dei figli non è la struttura della famiglia ma la qualità delle relazioni all’interno della famiglia», in accordo con altri studi come quello nato dalla collaborazione dell’EFZA (centro di studio e ricerca in materia di adozioni dell’Istituto per la Gioventù) e del Ministero della Famiglia tedesco, stabilisce che i bambini cresciuti in famiglie arcobaleno non riportano alcun danno o problema nello sviluppo rispetto a quelli cresciuti con genitori eterosessuali, semmai il contrario, riscontrando nei primi una maggiore autostima, una maggiore empatia e una maggiore propensione ad avere un dialogo aperto e sincero con i propri genitori.

Già nel 2014 uno studio dell’università di Melbourne aveva ottenuto simili risultati, mostrando come i figli di coppie dello stesso sesso, nonostante i pregiudizi legati all’omotransfobia affrontati, risultassero generalmente più felici e in salute rispetto ai loro coetanei e che il livello di coesione delle loro famiglie fosse più elevato. Studi successivi del 2018 e 2021 sui figli delle famiglie arcobaleno olandesi hanno poi rilevato da parte loro anche l’ottenimento di risultati scolastici mediamente migliori.


Tali risultati sono generalmente attribuiti al fatto che per le coppie non-eterosessuali la possibilità di avere figli spesso si realizza solo dopo un lungo percorso di riflessione, volontà e organizzazione. Gli ostacoli e le difficoltà da superare li rendono genitori estremamente motivati e preparati al loro compito, mentre l’assenza di stereotipi di genere garantisce una rappresentazione dei ruoli paritaria ed equilibrata che influenza positivamente lo sviluppo dei figli e consente un approccio alla genitorialità più sereno e consapevole.


Morale della favola: fondare una famiglia su io Tarzan, tu Jane non incoraggia l’affetto e la fiducia tra familiari, né aiuta la salute psico-fisica di nessuno; l’unico vero problema affrontato dai bambini legati alla comunità LGBTQIA+ sono i pregiudizi verso di essa e l’unica soluzione valida a questo si ottiene con l’educazione e con adeguate tutele, esattamente ciò che si prefigge il ddl Zan. E allora, cosa stiamo aspettando ancora?

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