Io, anestesista, vi racconto la terapia intensiva

«Ho scelto la specializzazione in Anestesia, Rianimazione, Terapia Intensiva e del Dolore per diversi motivi. Si tratta del campo in cui la gestione delle funzioni vitali del corpo umano raggiunge i massimi livelli immaginabili, con la possibilità di supportare con vari gradi di intensità e invasività l’organismo. Arriviamo anche a sostituire completamente l’attività di alcuni degli organi più importanti – come cuore, polmone, rene – con delle macchine, per brevi periodi di tempo». Così ci risponde il dottor Manuel Moneti, specializzando in Anestesia, Rianimazione, Terapia Intensiva e del Dolore presso l’ospedale Careggi di Firenze, quando gli chiediamo cosa lo abbia portato a intraprendere questo percorso professionale.

Di terapie intensive, intubazione, tasso di occupazione si è parlato fino allo sfinimento nell’anno appena trascorso. theWise Magazine ha chiesto al dottor Moneti di spiegarci cosa significhino questi termini per chi ci lavora ogni giorno.

Come è stato vivere l’arrivo del virus nel marzo 2020?

«Nel marzo 2020 mi trovavo nel padiglione di Careggi che era stato designato come Covid free , quindi non ho vissuto direttamente l’arrivo dello tsunami. Vedere come il progredire della pandemia cambiava la geografia dell’ospedale è stato però drammatico, senza avere un’idea di quando e se i numeri si sarebbero fermati.

Il nostro settore era stato scelto come “ultimo baluardo” delle attività regolari. Per quanto possa sembrare un’esagerazione, credo che la sensazione generale fosse davvero questa. Vedevamo i reparti e le terapie intensive di Careggi riempirsi, le sale operatorie che riducevano le attività fino a chiudere tutto quello che non era urgenza o emergenza, interi reparti spostati per aprire posti letto per pazienti positivi, letti normalmente utilizzati per il monitoraggio breve postoperatorio che venivano usati per garantire gli interventi cardiochirurgici urgenti. La subintensiva dove stavo lavorando incrementò il numero di posti letto da dieci a quindici, per accogliere i pazienti con traumi maggiori, perché il reparto che normalmente se ne occupava era stata totalmente convertito per ottenere altri letti di terapia intensiva Covid. Eravamo pronti a riaprire otto letti di un vecchio ambiente di terapia intensiva dismesso, nell’estrema evenienza che fossimo rimasti l’unica terapia intensiva dedicata ai pazienti non-Covid dell’intero ospedale.

Inoltre inizialmente c’era molta incertezza sulle dinamiche del contagio. I controlli sul personale e sui pazienti non erano ancora regolarizzati e codificati come sono ora, la paura che un paziente entrato da poco o un collega potessero essere positivi creava tensione sul posto di lavoro, aleggiava il senso di un pericolo e di non poter essere completamente sicuri, rafforzati dalle occasionali notizie di focolai intraospedalieri o di colleghi ammalati.

Ricorda dei momenti particolarmente duri?

«Come ho detto, non ho vissuto direttamente l’arrivo dell’ondata, che per fortuna a Firenze è arrivata in maniera graduale rispetto alle situazioni drammatiche e disperate vissute nelle regioni del Nord. Nella mia esperienza, i momenti più duri sono stati quelli in cui ho avvertito la sconfitta come medico e come rianimatore, in cui pazienti giovani sono morti, anche dopo diverse settimane di lotta, nonostante le nostre cure estreme e massimali, nonostante il massimo supporto fornito, le procedure invasive, i controlli. Come anestesisti e rianimatori, siamo abituati a essere chiamati sulle situazioni estreme, sui casi in cui le conoscenze e le competenze altrui si fermano ed è necessario un supporto invasivo e un trattamento aggressivo. Eppure contro questa malattia non basta. Da un lato la mole di pazienti da trattare e dall’altro l’impegno che ogni singolo paziente richiede, spesso per raggiungere livelli di ossigenazione al confine del necessario per la vita, è soverchiante».

terapia intensiva
Il dottor Moneti in tenuta anti-Covid.
Quali sono stati i cambiamenti per il personale sanitario, specializzandi compresi, anche dal punto di vista contrattuale?

«Innanzitutto, abbiamo dovuto prendere confidenza con i dispositivi di protezione individuale, con le procedure, sono stati implementati protocolli per creare percorsi dedicati a pazienti positivi, negativi e, aspetto ancora più complesso, dubbi. Se è ormai diventato routine prelevare un tampone a tutti i pazienti che entrano in ospedale e aspettarne il risultato prima di farli procedere al reparto di destinazione, pensiamo a tutte le situazioni in cui non si ha tempo a disposizione: emergenze ostetriche, cesareo di urgenza, interventi chirurgici in emergenza.

Come ho detto anche sopra, abbiamo visto cambiare la geografia dei nostri ospedali nell’arco di settimane o addirittura giorni. Sono stati aperti nuovi reparti, ed essendo stato fatto senza risorse aggiuntive, questo ha comportato la netta riduzione delle nostre attività ordinarie e un maggior impegno lavorativo in generale. I professionisti dell’area critica (medici, infermieri, OSS di sala operatoria e terapia intensiva) hanno periodicamente svolto attività presso i reparti e le strutture dedicate ai pazienti positivi gravi.

Dal punto di vista contrattuale, sono stati fatti immani sforzi (non sempre da tutte le aziende, purtroppo) per assumere nuovo personale e coprire le carenze ormai croniche del nostro sistema. Soprattutto agli specializzandi è stata offerta la possibilità di intraprende contratti di vario tipo con le aziende sanitarie per svolgere ruoli più responsabilizzati all’interno delle stesse, consentendo di dare una mano e contemporaneamente svolgere un’importante esperienza, soprattutto per medici all’inizio della propria vita lavorativa».

Può spiegarci tecnicamente cosa significa “essere intubato”?

«L’intubazione tracheale consiste nel far passare, tramite la cavità orale o (più raramente) le cavità nasali, un tubo di materiale plastico attraverso le corde vocali, in modo che la sua estremità si trovi nella trachea, all’inizio di quelle che sono chiamate basse vie aeree. Questo tubo, quindi, mantiene un collegamento aperto tra le basse vie aeree (trachea e bronchi) e l’esterno, con la possibilità di essere collegato a sistemi per fornire ossigeno a concentrazioni precise, e se necessario molto alte, e per dare un “aiuto” parziale o completo agli atti respiratori del paziente. Il tubo è solitamente dotato di una cuffia, ovvero un palloncino che si gonfia con una certa quantità di aria. Questo serve a stabilizzare la posizione del tubo all’interno della trachea, evitare perdite dell’area spinta dal ventilatore e proteggere le via aeree da vomito, sangue o muco.

Quando qualcuno diceva che il virus era “clinicamente morto”, com’era la situazione a Firenze?

«Se non erro l’espressione “clinicamente morto” è stata utilizzata a luglio 2020. In quel periodo, i numeri erano effettivamente in calo anche a Firenze, la maggior parte delle terapie intensive e dei reparti Covid aperti per far fronte alla prima ondata di marzo-aprile 2020 erano stati chiusi e rimanevano pochi posti letto occupati a Careggi, l’ospedale principale e più grande di Firenze.

Credo però ci siano due precisazioni da fare. Già ad aprile 2020 era stato ipotizzato, in base alle conoscenze acquisite dai precedenti coronavirus noti, che la pandemia avrebbe avuto un andamento stagionale, con un calo della circolazione virale, e conseguentemente della probabilità di incontrare persone infette e infettarsi a propria volta. Tenendo però a mente quanto succede con altri virus stagionali, era ipotizzabile che il calo estivo sarebbe stato solo una pausa temporanea, una tregua, con alta probabilità di ripresa virale in autunno, al peggioramento delle condizioni atmosferiche e all’abbassamento della temperatura.

La locuzione “clinicamente morto” utilizza termini non corretti. Il virus era “epidemiologicamente in ritirata”, in recessione, il clima estivo ne aveva appunto ridotto la circolazione, ed è chiaro, dal punto di vista statistico, che se cala il numero totale di infetti, cala la probabilità di ammalarsi e in definitiva calerà anche l’incidenza di casi gravi. Questi casi però non sono mai spariti. Il virus era ancora in grado di causare danni clinicamente e di portare a infezioni gravi, soprattutto in pazienti particolarmente predisposti o fragili, e ha continuato a farlo durante l’estate. Il numero di pazienti infetti nelle terapie intensive d’Italia non è mai andato a zero».

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Come avete visto cambiare le età dei pazienti della terapia intensiva?

«Io ho avuto un’esperienza personale limitata, sviluppata in un singolo centro, con caratteristiche peculiari anche dal punto di vista logistico e organizzativo e parlerò di quello a cui ho assistito direttamente. Credo ci siano state diverse fasi di cambiamento, tra la primavera e l’autunno 2020, sono stati sviluppati dei protocolli di gestione, abbiamo avuto i primi risultati da alcuni trial sull’efficacia o inefficacia di alcune delle tantissime terapie farmacologiche che erano state testate, per cui, pur non essendo riusciti a sviluppare una cura definitiva, esistono diversi farmaci adiuvanti, che aiutano a mitigare e controllare i sintomi e i meccanismi della malattia.

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Il dottor Moneti in tenuta anti-Covid.

Quindi tra la prima e la seconda ondata l’età media dei pazienti è incrementata, in quanto pazienti più anziani o fragili avevano bisogno della terapia intensiva, mentre molto più spesso i giovani venivano gestiti adeguatamente nei reparti medici ordinari e non arrivavano ad aver bisogno della terapia intensiva, pur avendo spesso bisogno della ventilazione non invasiva a pressione positiva, che mantenevano nei reparti. La situazione è invece drammaticamente peggiorata nuovamente con la terza ondata.

A Firenze, Prato e Pistoia, ma in generale in tutta la Toscana, questa è stata particolarmente violenta, con numeri che hanno raggiunto o addirittura superato quelli di aprile 2020. Sicuramente anche grazie alle maggiori capacità diagnostiche e al maggior spazio disponibile negli ospedali, con ambienti in precedenza in disuso recuperati e riadattati per i pazienti positivi. A questo punto abbiamo visto un nuovo calo dell’età media, forse dovuto alla diffusione di varianti più aggressive e forse dovuto all’instaurarsi dell’effetto protettivo del vaccino sugli anziani e sui più fragili, man mano che prendeva forza la campagna vaccinale».

Come è la situazione adesso nel vostro ospedale?

«Finalmente i casi sono in riduzione. Il numero di pazienti ricoverati sia nei reparti di degenza ordinaria che nelle subintensive e intensive è in calo. Progressivamente tornano a essere disponibili posti letto per le attività abituali, questo vuol dire sia riduzione dello stress legato alla gestione di un alto numero di pazienti positivi al coronavirus, sia possibilità di aiutare persone che hanno dovuto ritardare o rimandare trattamenti e accertamenti a causa dell’impegno del personale sanitario».

Cosa pensa succederà dopo l’estate 2021?

«Credo che il clima estivo ci concederà quel margine di respiro per portare l’impegno vaccinale alla massima intensità, arrivando con una buona copertura alla prova dell’autunno. Non possiamo illuderci che il virus sparisca, perché non verrà mai raggiunta la copertura ideale con il cento per cento della popolazione vaccinata, per la presenza di persone che non vogliono o non possono vaccinarsi.

Seppure stiano venendo testati vaccini su pazienti di età sempre inferiori, è probabile che si mantenga un minimo “serbatoio” nella popolazione pediatrica. Quindi in autunno vedremo salire nuovamente il numero dei casi, ma con valori completamente diversi dalle ondate precedenti, soprattutto per quanto riguarda le ospedalizzazioni e l’occupazione delle terapie intensive. Probabilmente si instaurerà una convivenza col virus, simile per caratteristiche a quello che succede con l’influenza H1N1, che circola nella popolazione e purtroppo occasionalmente causa infezioni delle vie aeree molto severe, quasi sempre in soggetti indeboliti o predisposti, ma a volte anche in pazienti apparentemente altrimenti sani. Uso il caso H1N1 perché è un quadro familiare nelle terapie intensive, ma ovviamente le dinamiche delle due pandemie sono state completamente diverse, e fortunatamente per H1N1 abbiamo una terapia efficace».

Un padiglione del Carreggi.
Quale pensa sarà il futuro per il SSN?

«Il futuro del Sistema Sanitario è in questo momento in bilico. La pandemia è stata una grande prova, che ha messo in luce da un lato le enormi debolezze del nostro sistema, la carenza di personale e mezzi, le difficoltà di risposta a un’emergenza su scala nazionale da parte di una sanità che ormai da decenni ha subito un lento processo di impoverimento, prosciugata anche da scelte politiche che ne hanno drasticamente ridotto le risorse e campagne mediatiche che ne hanno screditato i componenti.

D’altro canto, ne ha mostrato il punto di forza, il valore dell’elemento più importante e fondante, quello umano, con professionisti che hanno rischiato e purtroppo perso la propria vita, che hanno rinunciato alla propria vita privata per coprire gli orari di lavoro necessari a supportare le nuove necessità, spesso tenendosi lontani mesi dai propri cari per non metterne a rischio la salute. Abbiamo avuto la più terribile, brutale conferma di essere impreparati nel corpo, ma vivi e appassionati nell’animo. Carichi di questa consapevolezza, abbiamo la possibilità di cambiare passo per intraprendere un processo di miglioramento e di ripresa, cercando di recuperare almeno in parte quello che è stato perso o è rimasto fermo negli ultimi decenni.

Sicuramente in questo momento qualcosa si muove, sono stati indetti tanti concorsi per l’assunzione di personale medico e infermieristico per coprire i posti rimasti vuoti negli ultimi anni. Spero che questa volontà di rafforzare il nostro sistema sanitario si mantenga nel tempo e non sia solo una fase temporanea correlata alle difficoltà della pandemia. Spero che questa dura lezione trasmetta maggiore saggezza in chi ci governa e chi fa scelte organizzative, amministrative e di gestione delle risorse».

Lorenzo Tecleme e Marco Capriglio

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