Alpinismo e fascismo: le montagne in camicia nera

Può un’attività così particolare come l’alpinismo avere un passato legato a doppio filo al periodo e all’ideologia del fascismo? Come è possibile, inoltre, che uno sport di per sé pacifico sia debitore della pratica militare? La storia degli uomini è anche storia dei territori. Esempio di quanto la morfologia influisca sugli esiti dei grandi eventi potrebbero essere le due battaglie delle Termopili svoltesi in Grecia presso l’eponimo passo.

La prima, immortalata da fumetti e film, vide contrapposti nel 480 a. C. i trecento spartani di Leonida I e i persiani di Serse. La seconda ebbe luogo invece nell’aprile del 1941, fra gli Alleati e l’esercito del Terzo Reich. A distanza di quasi due millenni e mezzo l’elemento di continuità, soprattutto dal punto di vista strategico, rimase quello territoriale.

La non neutralità della geografia

La geografia, tuttavia, non si limita solo a essere una muta plancia di gioco dei movimenti umani. Qualsiasi rapporto si instauri fra la civiltà e il territorio reca sempre in sé determinate ideologie. Il concetto di ecologia, oggi perlopiù sovrapposto alle istanze ambientaliste, implica infatti che qualsiasi modalità di antropizzazione, sfruttamento o frequentazione dello spazio naturale da parte dell’uomo sia dotata di significato. Galileo Galilei affermava che la Natura fosse un libro scritto da Dio con l’alfabeto della matematica. Sarebbe più corretto definirla un libro scritto dall’uomo con i codici dell’ideologia vigente.

Singolare, a tal proposito, è proprio la storia dell’alpinismo inteso come sport. Le sue modalità e i suoi protagonisti sono legati a doppio filo con eroi, demoni e vicende degli ultimi due secoli d’Europa. Quanto all’Italia, il rapporto più indicativo è sicuramente quello instauratosi fra pratica alpinistica e fascismo, dagli anni Venti del Novecento fino alla Liberazione.

I nobili natali dell’alpinismo

Quando si parla di alpinismo, innanzitutto, si intende un approccio alla montagna ben diverso da quello di chi vi abita. Gli ambienti montuosi sono stati frequentati dall’uomo fin dalla comparsa di quest’ultimo sulla Terra. Solo nell’Ottocento l’idea dell’alpinismo come sport, avulso quindi da qualsiasi finalità di sopravvivenza, prende piede in Europa. L’ideologia dominante allora, specie in Gran Bretagna, è quella del positivismo. Proprio a Londra, già sede della Royal Society, nasce nel 1857 l’Alpine Club, associazione di gentlemen devoti all’esplorazione e allo studio scientifico dell’ambiente alpino.

I notabili inglesi, memori dell’attrazione romantica, tipicamente europea, che ai tempi del Grand Tour i paesaggi alpini esercitavano sui viaggiatori, invadono l’arco montuoso che separa l’Italia dal resto del continente. Il pensiero comune legato al concetto di sublime kantiano, per cui la bellezza naturale è tale solo standone a debita distanza di sicurezza, decade in favore dell’avventura. La maggior parte delle cime, impervie o dolci che siano, delle Alpi recano nomi di sir britannici come primi salitori sportivi.

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Xilografia di Quintino Sella. Foto: Wikimedia Commons.

La nascita del Club Alpino Italiano

L’Italia, nel 1863, è da poco uno Stato unitario. Fra i nobili, specialmente piemontesi, che guardano ai lord britannici come esempio di classe trainante di un regno, vi è Quintino Sella. È lui a fondare a Torino, sulla scorta dell’Alpine Club, un’associazione sovrapponibile per valori e intenti: il Club Alpino Italiano ancora oggi esistente. Vi converge l’élite politica, scientifica e industriale dell’Italia di allora, dall’ingegnere Giovanni Battista Pirelli al naturalista Antonio Stoppani, fino al fondatore del neonato Politecnico di Milano, Francesco Brioschi.

CAI e Politecnico di Milano, a voler ribadire la pervasività dell’ideologia positivista, nascono effettivamente nello stesso anno, il 1863. Il medesimo dell’inaugurazione della Metropolitana di Londra, della legge Pica contro il brigantaggio in sud Italia e dell’allestimento, a Parigi, del Salon des Refusés, primo vagito di quel movimento impressionista che avrebbe dipinto, di lì a poco, lo spirito di un’Europa tecnologica, fremente, cittadina e benestante.

Con il popolo, per il popolo

L’alpinismo, si è detto, è l’incarnazione sportiva di questo nuovo spirito europeo. Ne sono esclusi quanti sono esclusi dalle accademie, dai palazzi governativi, dai salotti. Quanto lo scalare le montagne sia ancora nel 1888 un segno distintivo, lo testimonia lo scrittore della Scapigliatura Achille Giovanni Cagna nel suo Alpinisti ciabattoni, racconto tragicomico in cui l’arrivismo borghese di una coppia di commercianti trova corrispettivo nei loro tentativi, fallimentari, di darsi all’alpinismo.

Dalla fine del XIX secolo, tuttavia, sorgono varie associazioni di montagna pronte a sfidare il CAI sul piano dell’elitarismo. Dall’Unione Operaia Escursionisti Italiani (UOEI) alla Società Escursionisti Milanesi, il cui motto è «Col popolo, per il popolo», il tentativo è proletarizzare la pratica dello sport di montagna, strappandola alle sue origini altolocate e accademiche.

A rendere l’alpinismo un’attività di massa è però l’acceleratore storico più tragico ed efficace che esista: la guerra. Con il primo conflitto mondiale migliaia di giovani, di tutti i gradi e di tutte le estrazioni, vengono spediti sulla linea bellica che corre, costantemente oltre i tremila metri di quota, dal calcare delle Dolomiti ai ghiacciai delle Alpi Retiche.

Soldati sui ghiacciai del gruppo Ortles-Cevedale, 1917. Foto: Wikimedia Commons.

Ghiacciai tinti di rosso

La cosiddetta Guerra bianca è una delle componenti meno studiate e più paradossali della storia della Grande guerra. Bisognerebbe immaginarsi il fronte, con tanto di capanne, munizioni e armi da fuoco, trasferito sui crinali delle Alpi. Chi pratica ancora oggi escursionismo nelle zone dello Stelvio inciampa spesso e volentieri in granate inesplose, brandelli di vestiti e filo spinato. Chi si avventura più in quota, scopre reperti ancora paradossali, quali una coppia di cannoni sul ghiacciaio del Cevedale a 3000 metri, o il Nido d’aquila, una baracca militare scavata nella roccia e nel ghiaccio del Gran Zebrù, a 3800 metri di quota.

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Dei numerosi corpi che la guerra ha consegnato alle vette, i ghiacciai custodiscono ancora oggi quello del capitano degli Alpini Arnaldo Berni. Questi morì durante la battaglia del San Matteo, svoltasi nell’estate del 1918 sulla cima dell’eponimo monte, a 3678 metri (si calcola che, prima di venire bombardata con veemenza dagli austriaci durante la controffensiva, la montagna fosse più alta di sei metri). La battaglia del San Matteo, peraltro, avrebbe mantenuto il triste primato di scontro militare più in quota della Storia fino alla guerra del Shiachen fra India e Pakistan, nel 1984, a 5600 metri d’altezza.

Militarizzare le montagne

La Guerra bianca non rappresenta solo un formidabile assalto di massa all’ambiente alpino, avendo educato un’intera generazione di arruolati, loro malgrado, alle tecniche di scalata. È anche un caso particolare ed estremo di militarizzazione di uno spazio geografico, con i valichi trasformati in veri e propri avamposti strategici e le cime in obiettivi simbolici.

Soprattutto, viene decretato l’abbraccio controverso fra sport alpinistico, nella sua accezione paramilitare, e pratica guerresca. Il fascismo sarebbe diventato l’ideale prosecutore di tutte queste tendenze.

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Artiglieria fra i ghiacci dell’Ortels-Cevedale durante la Guerra bianca. Foto: Wikimedia Commons.

Dalla marcia su Roma alla marcia sui monti

L’ideologia fascista si pone in realtà con ambivalenza di fronte al tema della montagna. Da un lato essa viene vista come luogo di degrado e selvatichezza domabile. La bellezza della natura per il fascista è tale solo in un’ottica di civilizzazione e bonifica, concretizzata dalla Milizia Forestale dell’agronomo Arrigo Serpieri ed enfatizzata dal Comitato Nazionale Forestale di Arnaldo Mussolini, responsabile con il periodico Il Bosco di una sorta di coscienza ecologica di regime.

Dall’altro lato la figura del montanaro, uso alla sopportazione fisica e al sacrificio, è lodata in opposizione alla mollezza cittadina da Benito Mussolini stesso: «Siate fieri delle vostre montagne, amate la vita delle vostre montagne e non vi seduca il soggiorno nelle cosiddette grandi città dove l’uomo vive stipato nelle sue scatolette di pietra e di cemento senz’aria, con poca luce».

Le montagne del Duce

Se è vero che la suddetta dichiarazione di Mussolini suona poco più che retorica, ben più carico di implicazioni appare lo scritto del professor Eduardo Zavattari in Ambiente naturale e caratteri biopsichici della razza italiana (dalla rivista La difesa della razza). Vi è delineato il modello di superuomo di razza italica, «saldo e ferrigno come le sue montagne, volitivo e ardito come le cime che svettano verso il cielo». A essere significativa è, nuovamente una data. Il 1938, l’anno in cui Zavattari fonda la suddetta rivista, è lo stesso della promulgazione delle leggi razziali in Italia.

La montagna non tempra solo l’individuo perfetto, ma attraversa l’Italia in senso longitudinale e latitudinale. Mussolini non tarda a concepire come l’Appennino sia effettivamente la spina dorsale del Paese. Se l’ideologia fascista deve essere impressa nelle architetture delle città, anche il grande libro della natura di galileiana memoria può essere riscritto. La pineta del Monte Giano (1820 metri s.l.m.), Appennino Abruzzese, viene modellata in modo da formare, con le chiome degli alberi, una monumentale scritta «Dux» visibile anche da Roma.

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Il monte Giano con la pineta dedicata a Mussolini. Foto: Wikimedia Commons.

Alpinisti in camicia nera

La pratica dell’alpinismo interessa al Regime nella triplice misura di propaganda, allenamento paramilitare e promozione di solidi valori di forza, salute, virilità. Il regime cambia, selezionandoli fra i propri membri, quadri dirigenti del CAI, mentre la sede viene trasferita a Roma. Il carattere militaresco dell’associazione viene accentuato nel 1930 con la nomina a presidente di Angelo Maranesi, ex ufficiale degli Alpini e sottosegretario al Ministero della Guerra.

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L’alpinismo diviene effettivamente attività di massa per il popolo, ma nella logica dello Stato etico e del corporativismo fascista. Lo sport di montagna, vero e proprio dovere coordinato dal partito, non è solo occasione di propaganda della bonifica fisica e morale cui un buon camicia nera deve attenersi (lo stesso Mussolini non esita a mostrarsi, petto scoperto, praticare sci sul Terminillo) ma anche vero esercizio paramilitare in linea con la componente guerresca sempre presente nell’ideologia fascista. La Milizia Forestale avrebbe giocato effettivamente un ruolo fondamentale nelle operazioni coloniali e nella stessa battaglia dell’Ogaden in Etiopia (1936).

Eroi di guerra e di montagna

Ancora prima, nel 1929, viene istituito il GAFNI, Gruppo Arrampicatori Fascisti Nuova Italia. Fra i suoi membri vi è il lecchese Riccardo Cassin, che in seguito sarebbe passato alla storia come uno dei più grandi alpinisti di sempre. Ugo Tizzoni e Francesco Esposito, appartenenti allo stesso gruppo e conterranei di Cassin, partecipano alla Seconda battaglia del Tembien in Etiopia, di pochi mesi precedente a quella dell’Ogaden. Nello scontro si ritrovano molti dei caratteri dell’alpinismo militarizzato già incontrati in precedenza. L’Amba Uork, letteralmente Montagna d’oro, è il teatro di una guerra dove la morfologia è compartecipe delle manovre belliche.

Questo accade nelle colonie. Nel frattempo in patria Emilio Comici, probabilmente il più celebre rocciatore dolomitico del Novecento, viene trattato come una celebrità e nominato podestà di Selva di Val Gardena. Quando Comici muore, trentanovenne, nel 1940 per un incidente in una palestra d’arrampicata in Vallelunga, il quotidiano Alpenzeitung ne arricchisce la cronaca di toni eroici. «Alpinismo eroico», d’altra parte, è l’espressione con cui si suole indicare la stagione alpinistica sotto il Ventennio fascista, caratterizzata da imprese sportive tecnicamente avanguardistiche e tuttavia svoltesi sotto l’egida del regime.

Emilio Comici in arrampicata. Foto: Wikimedia Commons.

I ribelli della montagna

Il territorio è un campo di scelte e direzioni ideologiche. Mussolini, nei confronti della montagna e dell’alpinismo, l’aveva compreso. Non con altrettanta esattezza avrebbe però previsto come la montagna gli si sarebbe ritorta contro dall’8 settembre 1943 fino alla Liberazione. Il biennio della Resistenza ha contribuito a modificare, nuovamente, l’aspetto delle montagne italiane dalle Alpi all’Appennino, riportando in massa una generazione a combattere fra le cime e i valichi: ne hanno fatto parte, fra gli altri, svariati alpinisti esponenti del GAFNI, Cassin compreso.

Le canzoni e le poesie partigiane fanno continuo riferimento al territorio montuoso come vero e proprio quartier generale e rifugio degli oppositori: Dalle belle città (1944) parla di «ribelli della montagna» e l’iconica Bella ciao invita l’ascoltatore a «seppellire sulla montagna/ sotto l’ombra di un bel fior» il caduto per la libertà. In una sorta di cerchio che si chiude, il brano della Prima guerra mondiale Bersagliere ha cento penne, cantato dagli Alpini stanziati sui ghiacciai, viene rielaborato dai partigiani. A distanza di quasi trent’anni, i primi e gli ultimi combattenti italiani ad avere interpretato le Alpi come campo di battaglia si sono trovati «sui monti a guerreggiar».

Territorio, sport, ideologia

Fra i due eventi, il fascismo ha reso più popolari le discipline alpinistiche, vestendole della camicia nera e rinforzandone gli aspetti militarizzanti. La Resistenza è stato l’ultimo atto, in territorio italiano, di un’interpretazione radicalmente bellica del territorio montuoso. Gli scontri di cui sono teatro le Alpi, oggi, sono legati a questioni più contemporanee quali lo sfruttamento ambientale, la costruzione di grandi opere, i dissesti dovuti al cambiamento climatico. Sottendono posizioni politiche e ideologiche tanto le manifestazioni No TAV quanto la decisione di aprire o meno un nuovo impianto di risalita per lo sci da pista.

Il monumento ai partigiani di Sabbiuno, nell’Appennino bolognese. Foto: Wikimedia Commons.

Nuovi mattini

A propria volta la storia dell’alpinismo, spesso visto come lo sport in assoluto più distante dal rumore di fondo della società e dei tempi in corso, non ha mai cessato di avere connotazioni ideologiche proprio in virtù della sua connessione naturale con la morfologia territoriale, e di questa con l’uomo che la abita. Fra i momenti più felici dell’alpinismo post-bellico, per esempio, si ricorda la cosiddetta corrente dei Nuovi mattini, nata per rinnovare pratiche e filosofia dello sport di montagna sulla scorta del Sessantotto e del movimento hippy.

Fulcro della proposta di questa nuova generazione di arrampicatori era, soprattutto, sovvertire in senso ecologico il rapporto fra scalatore e montagna in modo che quest’ultima non fosse più un semplice oggetto di conquista. Non sta a noi decretare quanto l’alpinismo a venire abbia recepito questo tentativo di rivoluzione. È certo però che, se abbiamo esordito affermando che la storia degli uomini è anche storia di territori, possiamo concludere anche che la storia dei territori sia storia di uomini.

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