Federico Aldrovandi: un ricordo a sedici anni dall’omicidio

È la mattina del 25 settembre 2005 a Ferrara. Sono da poco passate le sei quando il cuore di Federico Aldrovandi, diciottenne, smette di battere. Inizia qui una lunga odissea giudiziaria che si concluderà solo il 21 giugno 2012, con la condanna in cassazione a tre anni e sei mesi di reclusione per «eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi» degli agenti di polizia Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri. Ferrara è una città di provincia sospesa fra le nebbie della bassa emiliana: la storia di Aldrovandi sembra a propria volta svilupparsi in una nebbia fatta di omissioni, depistaggi, irregolarità

Quella mattina in via Ippodromo

Quella delle indagini su Aldrovandi è innanzitutto una storia fatta di parole, pronunciate in tribunale, dette per telefono, cancellate, ritrattate. Urlate, soprattutto. Sono proprio le grida di Aldrovandi in via Ippodromo a Ferrara ad allarmare una prima testimone, residente in zona, che chiama le forze competenti alle 5.45 di mattina. La donna segnala la presenza di un giovane in stato alterato, intento a urlare e strepitare. Una prima volante della Polizia, con a bordo Enzo Pontani e Luca Pollastri, si reca sul posto. Segue quella che in seguito sarà descritta come una colluttazione con un giovane indemoniato. I rinforzi, composti da Paolo Forlani e Monica Segatto, sopraggiungono di lì a breve.

Lo scontro si fa violento e nella colluttazione vengono addirittura rotti due manganelli. Gli agenti riescono infine a immobilizzare il giovane Aldrovandi. Quanto succede nei minuti successivi, stando alle prime ricostruzioni, non è chiaro. Gli stessi nastri contenenti le comunicazioni fra 113 e pattuglia, come emergerà in seguito, vengono interrotti e manomessi. È certo che alle 6.10 viene effettuata una chiamata al pronto soccorso. Ambulanza e automedica arrivano nel giro di otto minuti e non possono fare altro che costatare il decesso del giovane per arresto cardio-circolatorio e trauma cranico-facciale.

Targa dedicata a Federico Aldrovandi in via Ippodromo. Foto: Wikimedia Commons.

Gli amici di Federico Aldrovandi

Federico, adolescente stimato e aduso a una vita tutt’altro che dissoluta, aveva passato la sera del 24 settembre al Link, una discoteca di Bologna. Qui aveva assunto modeste quantità di droga e alcol, usanza a detta degli amici soltanto saltuaria per il giovane. Riaccompagnato in macchina a Ferrara nella notte, aveva scelto di percorrere a piedi gli ultimi due chilometri che lo separavano da casa. Si era quindi congedato dagli amici con un’apparenza di serenità. Proprio i suoi compagni sono i secondi protagonisti, in ordine cronologico, della vicenda.

I genitori, infatti, avrebbero fatto capolino solo in seguito. Solo all’alba, accortisi dell’assenza del figlio, lo chiamano ripetutamente al telefono. Dopo svariati tentativi, risponde al padre un agente di polizia. Per tragica ironia della sorte, Lino Aldrovandi esercita la stessa professione. Né questo, né il fatto di esserne il genitore, gli serve però ad avere informazioni sul figlio. Lui e la moglie Patrizia Moretti dovranno aspettare le 11 di mattina per ricevere notizie.

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«Morto perché drogato»

In quel lasso di cinque ore, la polizia comincia i primi interrogatori e si rivolge proprio agli amici di Federico. I metodi qui utilizzati sarebbero stati in seguito descritti come intimidatori. Fra gli interrogati, c’è chi racconta di sentirsi come in una scena di un film, con i classici poliziotti buono e cattivo. La linea degli agenti sembra essere quella di far passare Federico e i suoi come dei drogati, e l’abuso di stupefacenti come causa della morte del ragazzo. Gli amici, coetanei di Aldrovandi, sono apostrofati quali tossicodipendenti e addirittura accusati di essere responsabili di quanto accaduto. Particolare ultimo ma non da meno, il tutto avviene senza che il PM di turno si fosse recato sulla scena del ritrovamento. Quella che le era stata descritta come la morte di un giovane tossico senza documenti non doveva apparirle così urgente.

L’idea che Federico fosse drogato e violento, e che ciò fosse sufficiente a non indagare oltre, avrebbe innervato le argomentazioni degli avvocati difensori degli agenti lungo tutti i tre gradi di giudizio. A sostenerlo, vi sarebbe stato anche l’allora Ministro per i rapporti con il Parlamento Carlo Giovanardi, lo stesso che anni dopo avrebbe rilasciato dichiarazioni simili su Stefano Cucchi, morto perché «anoressico e drogato».

L’iniziativa dei genitori

I genitori Lino e Patrizia e il fratello Stefano, come già anticipato, vengono avvisati del decesso del figlio solo in tarda mattinata. A presentarsi alla loro porta, irretito dallo shock, è un poliziotto amico intimo del padre: quasi non riesce a dire loro quanto ha visto poco prima. Il riconoscimento dell’identità del cadavere spetta allo zio di Federico, Franco. Per un’ennesima tragica coincidenza, se Lino è poliziotto, nemmeno Franco è estraneo al mestiere: è infatti infermiere e le ecchimosi sul volto del giovane, l’evidente segno di una percossa da manganello e il forte odore di sangue destano in lui più di un sospetto.

È la madre a prendere un’iniziativa, allora, non comune. Il 2 gennaio 2006 apre un blog in cui chiede di diradare la nebbia attorno alla morte del figlio. Questo contribuisce a portare la vicenda all’attenzione dell’opinione pubblica e della stampa, che prima aveva teso a ignorare la morte di Federico. Nel febbraio dello stesso anno, i risultati di due diverse perizie medico-legali riportano risultati fra loro contraddittori. In una si sostiene che il decesso di Aldrovandi sia stato determinato da uno stress respiratorio causato dall’effetto di oppiacei, mentre nell’altra si individua il motivo nella compressione sul busto del giovane da parte dei poliziotti. Il quantitativo di alcol e droghe assunte da Federico risultano insufficienti per poterne attribuire la causa di morte.

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I processi

La mossa di Patrizia di rendere pubblica la vicenda, con tutti i suoi punti opachi, contribuisce ad accelerare le indagini. Nel marzo del 2006 i quattro agenti vengono iscritti nel registro degli indagati. Ad aprile perviene loro un avviso di garanzia. In giugno, con la celebrazione dell’incidente probatorio, emerge la testimonianza di una donna camerunese in aspettativa per il rinnovo del permesso di soggiorno. Annie Marie Tsagueu, residente in via Ippodromo, afferma di aver assistito da casa propria all’aggressione di Federico alla prima volante e ai successivi eccessi di violenza degli agenti, che lo immobilizzano a terra con violenza e lo malmenano, senza fermarsi nemmeno di fronte alle ripetute richieste di aiuto del giovane.

Bisogna aspettare il 10 gennaio 2007 perché i quattro agenti vengano rinviati a giudizio per omicidio colposo. Mentre emergono incongruenze nelle ricostruzioni dell’accaduto, si fanno vivi altri testimoni di via Ippodromo, fino ad allora soprannominata «zona del silenzio» per l’intima contraddizione fra la natura residenziale e popolata della via e l’apparente mancanza di testimonianze relative ai fatti del 25 settembre. I tre gradi di giudizio che ne seguono sono caratterizzati da accesi scontri fra avvocati in aula, da continue testimonianze discordanti e dall’eco mediatica suscitata dall’impressione, nella popolazione civile, di non sentirsi più protetta dai tutori della legge.

Elemento fondamentale per la risoluzione del caso, quasi simbolicamente, è il cuore dello stesso Federico. La foto del cardio, analizzata dal prof. Gaetano Thiene del Dipartimento di scienze medico-diagnostiche e terapie speciali dell’Università di Padova, contribuisce a stabilire l’effettiva forza violenta degli agenti quale causa del collasso di Aldrovandi.

Le sentenze

Si arriva così al 21 giugno 2012, con la summenzionata condanna definitiva dei quattro agenti a tre anni e sei mesi. Nel gennaio 2013, tuttavia, Paolo Forlani, Monica Segatto e Luca Pollastri ricevono la pena residua di sei mesi per effetto dell’indulto. Il marzo dello stesso anno, Segatto ottiene gli arresti domiciliari per effetto del decreto svuota-carceri Severino. Gli altri tre agenti scontano invece il resto della pena nel carcere di Ferrara. Nel gennaio 2014 tre di loro, fatta eccezione per Forlani, tornano in servizio.

Poco prima, si era celebrato un processo Aldovrandi bis avente per capo d’accusa per depistaggi nell’indagine. Paolo Marino, allora dell’Upg, ottiene la condanna a un anno di reclusione per omissione di atti d’ufficio e per aver indotto il Pm a non recarsi sulla scena del crimine. Il responsabile della centrale operativa Marcello Bulgarelli e l’ispettore di polizia giudiziaria Marco Pirani vengono invece condannati rispettivamente a dieci e otto mesi. Un quarto agente, Luca Casoni, è invece assolto dalle accuse di falsa testimonianza e omissione di atti d’ufficio.

Il cadavere di Federico Aldrovandi. Foto: Wikimedia Commons.

Federico Aldrovandi sedici anni dopo

La fotografia del copro martoriato di Federico, il volto cinto da un’aureola di sangue, sarebbe diventato col tempo uno dei simboli della lotta alle violenze perpetrate dalle forze dell’ordine. La sua immagine è idealmente legata a quella del corpo emaciato e offeso di Stefano Cucchi. La sua morte per insufficienza respiratoria sembra dialogare con il motto «I can’t breathe» relativo all’uccisione di George Floyd negli Stati Uniti d’America, il 25 maggio 2020.

A proposito di quell’immagine, il già citato Giovanardi, allora senatore, avrebbe dichiarato nel 2015 che la macchia rossa dietro il capo di Federico fosse un cuscino. Patrizia Moretti l’avrebbe querelato, salvo poi ritirare la querela con la richiesta di non offendere più la memoria di una vittima innocente.

Voci su Federico Aldrovandi

Fra le voci più autorevoli che hanno accompagnato la vicenda e le sue conseguenze, vi è quella di Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia nel 2014. Commentando l’avvenuto reinserimento di Segatto, Pontani, Pollastri nelle loro funzioni di polizia, con tanto di applauso da parte dei colleghi, Marchesi ha parlato di «cultura dell’impunità, che facilita il ripetersi di gravi violazioni dei diritti umani» e ha invocato l’introduzione in Italia di reato di tortura nel codice penale, avvenuta solo nel 2017 con la legge 110.

Fra i migliori documenti utili per ricostruire e approfondire la vicenda, infine, vi è un film di Filippo Vendemmiati del 2010 per Promo Music e Rai Trade, il cui titolo riassume tutti elementi ossimorici, paradossali e contrastanti della morte di Aldrovandi e del processo che ne è seguito: È stato morto un ragazzo.

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