Infotainment di guerra, o come discutere senza capire nulla

L’infotainment applicato alla guerra è il risultato di un ibrido che, mentre ci racconta cosa sta succedendo sul campo di battaglia, mette in scena uno spettacolo. Non è necessario che lo spettacolo sia divertente, condito di musica e spazi goliardici: anche la tragedia intrattiene, così come il conflitto.

Qualunque format si scelga, le dinamiche sottostanti alla costruzione di trasmissioni di infotainment non funzionano senza due elementi di base: qualcuno che parli e qualcosa di cui parlare. Chi segue la televisione generalista, in particolare Rete 4 e La7, accetta di farsi sottoporre alle opinioni dell’ospite di turno sul tema controverso del giorno – ieri l’opinione dello storico d’arte sui vaccini, oggi quella di un sociologo del terrorismo sulla geopolitica. E il nostro è un Paese che ha poco interesse per la politica internazionale; ma, come è ovvio che sia, i palinsesti televisivi hanno subito il violento scossone del ritorno della guerra nel continente. Tutti i canali si sono arricchiti di edizioni speciali del telegiornale e continue finestre nei programmi di infotainment dedicate alla guerra in Ucraina. Ma è il talk show lo spazio televisivo di discussione per eccellenza. Il telegiornale ha perso una parte del suo potere di controllare l’informazione e ha ceduto la parola ai protagonisti delle storie o agli opinionisti, permettendogli di “dire la loro”, di raccontare un’esperienza autentica, un’impressione o un sentimento. A causa dell’abuso dei codici dell’emozionalità nell’informazione, questi contributi finiscono per avere più forza di quante ne abbia un resoconto asettico.  

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In televisione ogni giorno si scontrano, per fortuna, opinioni divergenti. Va di pari passo con la consapevolezza che in democrazia non si possiede una sola verità, e che l’unico modo per avere una buona conoscenza dei fatti è mettere insieme i diversi punti di vista come i tasselli di un mosaico. Quello che sembra, però, è che le trasmissioni di infotainment costruiscano dibattiti basati sul conflitto delle idee non tanto per aiutare il pubblico a comprendere, ma per il solo gusto di contrapporsi. Non sarebbe altrimenti necessario invitare a parlare ospiti legati all’Ucraina solo dalla comune assenza di competenza in merito. Perché se è vero che per comprendere la pandemia sono serviti gli esperti – virologi, medici e ricercatori – è altrettanto vero che per comprendere la guerra in Ucraina sono necessari esperti di relazioni internazionali, di difesa, di energia, di economia, che vengano con le loro diverse opinioni dall’università, dai media o dal settore privato, ma che dicano tutti qualcosa di rilevante per aiutare a formare una posizione informata sulla questione.

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A che scopo i vari Alessandro Orsini e Marco Travaglio occupano posto nel salotto? Per fornire un’informazione completa e per non farli gridare alla lista di proscrizione e alla caccia alle streghe, direbbero quelli che si lamentano di un nuovo maccartismo, tra cui proprio il direttore del Fatto Quotidiano. «Adesso chiunque cerchi le cause di questa guerra viene indicato come un servo di Putin, ma in Italia non c’è nessun filoputinismo», ha detto Travaglio.

Per porre fine a queste «sciocchezze» sui sostenitori italiani di Putin, ha quindi appena scelto come nuovo editorialista del suo giornale Alessandro Orsini, già in polemica con la Rai, il professore di sociologia del terrorismo che ha così presentato la sua personale soluzione al conflitto: «Se porremo Putin in una condizione disperata, certamente userà la bomba atomica. Se si pone il discorso in quest’ottica, dico facciamo vincere la guerra a Putin». Ora, l’argomento di conversazione (una guerra) dovrebbe trovarci tutti d’accordo su almeno un paio di punti (uno, ha iniziato Vladimir Putin e due, non si chiede la resa dell’aggredito ma il dietro front dell’aggressore), però chi vuole sentirsi vittima di una caccia all’uomo che colpirebbe implacabile chiunque voglia solo esprimere un dubbio può sempre lamentarsi in un altro salotto, o su un altro giornale. Dirà che è censura, ma non è censura. Non si prende mai l’esempio peggiore per fare paragoni, ma lo sanno che la cosa in Russia si sarebbe risolta con un avvelenamento o un arresto?

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Alessandro Orsini ospite da Corrado Formigli a Piazza Pulita il 24 marzo.

È infatti un paradosso ma è in nome della libertà di opinione che si dà spazio all’opinione slegata dalla competenza, infliggendo un colpo letale alla democrazia stessa. Questa è una guerra che si combatte su terra tanto quanto negli spazi mediatici. È una guerra fatta di storie e narrazioni, di notizie false e confuse, e non è un caso che la Russia investa tanto sulla disinformazione. Dibattiti costruiti per esaltare il gusto del contrapporsi, alzare gli ascolti e spettacolarizzare il conflitto generano ancora più confusione su un oggetto di conversazione, la guerra, che vista la sua enormità ingigantisce tutto e non ci consente di vedere bene le cose.

Quello che vediamo nelle trasmissioni di infotainment è una messa in scena il cui fine ultimo non è informare, come suggerisce il prefisso, ma dare spettacolo. E infatti nel talk show contano di più l’autenticità e la credibilità, piuttosto che l’argomentazione intellettuale o l’esperienza certificata. Il ruolo dell’esperto è ridotto a quello del mero portavoce – parla in nome di altri esperti, della comunità scientifica – ed è dunque difficile per questi costruire sullo schermo un personaggio autentico. L’opinionista, invece, che non sempre è competente nella materia su cui è stato chiamato a pronunciarsi, parla in nome di sé stesso, della sua esperienza, della sua pancia. E funziona, è convincente, perché il talk show è il trionfo del senso comune. Ma il senso comune non è conoscenza, e non rende le cose più chiare, ma le mischia in mezzo a tante fumosità. E questa è una guerra che si perde con la confusione.

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