Trauma porn e Ucraina: istruzioni per l’uso

Dopo la liberazione di Bucha e la diffusione delle immagini della breve occupazione russa, il conflitto in Ucraina sembra aver assunto tinte, se possibile, ancora più brutali. L’opinione pubblica è stata toccata dalla violenza in forme possibili solo nell’epoca dei social media. Riflettendo sulla crudezza delle immagini di Bucha, è affiorata una formula nota già per altre vicende: trauma porn.

Ѐ un concetto applicabile a questa situazione?  Ѐ pertinente, ragionevole, insomma, ha un qualche senso utilizzarlo come strumento di riflessione? Cercheremo di discuterne e approfondirne le contraddizioni interne, non sempre sondate nella discussione pubblica.

La pornografia del dolore

Il concetto di trauma porn non è affatto nuovo; già nel 2000 il sociologo Luc Boltanski in Lo spettacolo del dolore (Milano, Raffaello Cortina, 2000) parlava di «politica della pietà», ma agli schermi pop la definizione è arrivata con la morte di George Floyd (2020), il cui video rimbalzava tra le piattaforme come un gioioso ping pong di performance attiviste. In un Paese come l’Italia è difficile avere gli strumenti culturali per comprendere il problema; ma uno sforzo di riflessione è necessario, e nemmeno grave da sopportare, se pensiamo alla portata del razzismo strutturale che ci pervade.

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A giugno 2020 Ashlee Marie Preston, su Marie Claire, comparava i linciaggi pubblici del passato con la diffusione spasmodica della violenza contro la persona nera del presente, con un comune fine sotteso: «Sharing trauma porn». A chi si chiedeva quale fosse il problema nella diffusione di questi materiali, dato che contribuivano ad accendere pubblica indignazione e aumentare la consapevolezza comune, la giornalista statunitense rispondeva che sarà inutile arrestare Chauvin se il sistema che l’ha partorito è ancora lì, immutato (come in effetti è, ad oggi). «Come arrestare la pistola e non chi la usa». E ancora, un grande adagio della critica: invece di eradicare questi omicidi, li stiamo normalizzando.

Fare attivismo e sentirsi bene

Uno dei più grandi temi che si legano alla condivisione di contenuti del genere è la definizione di attivismo performativo; quello declinato nella rappresentazione di una performance che alimenti l’immagine virtuosa di chi ne è soggetto. Da questo punto generano molti dei problemi legati al trauma porn: chi diffonde i contenuti violenti o crudi viene accusato di prendere la strada più semplice per mostrare sostegno, ma di non riflettere sulle motivazioni profonde di ciò che vuole diffondere, né di muoversi, attivarsi, per aiutare concretamente

Un’azione di questo tipo, quando sia inconsapevole, può legarsi a una forma di rivendicazione del dolore e del trauma in oggetto come propri; quasi un allargamento universale della sofferenza che un gruppo di persone sta subendo. Il «processo di rappresentazione collettiva» del trauma, come lo definisce Jeffrey Alexander (Trauma. La rappresentazione sociale del dolore, Milano, Meltemi, 2018) si lega alla natura del dolore, alla natura delle vittime, e soprattutto alla relazione delle vittime del trauma con l’«audience» più ampia.

Di Bucha e dell’Ucraina

La riflessione si sposta allora agli eventi dell’immediato presente: è lecito pensare e parlare di trauma porn riguardo al conflitto ucraino e alla sua diffusione mediatica? Siamo in presenza dei caratteri che permettono un riferimento simile (l’esistenza di una virtuale minoranza sulla quale proiettare pretesa di protezione e morbosità di “diffusione della consapevolezza”)?

I media televisivi

Indubbio è che, com’è usuale in questi tipi di dinamica comunicativa, i media cerchino di toccare la “pancia” del pubblico, mettendo in luce ciò che più stimola empatia naturale: bambini, animali, madri, anziani, dipinti nella loro umiliazione e nel loro abuso. Maggiore è la gravità, più sale l’indignazione.

Subentra poi l’elemento socio-culturalmente classista: si sottolineano i caratteri di vicinanza con il pubblico (l’essere europei, l’essere ‘civilizzati’, istruiti, ‘persone come noi’) per creare partecipazione, stimolare solidarietà, aumentare l’audience; ma in fin dei conti l’indignazione pubblica si accompagna a poco altro. I sistemi di valutazione della guerra in Ucraina vengono applicati solo a essa; difficile è, all’interno dei media ufficiali, riconoscere una riflessione su altre aggressioni violente, e forse ancor meno giustificate. 

Trauma porn Ucraina
Manifestazione contro l’invasione dell’Ucraina (Parigi, marzo 2021). Foto: Hubert de Thé, Pixabay.

i social media

D’altra parte, il discorso è applicabile solo in parte anche ai social media: qui, perlomeno in Italia, la circolazione delle immagini nasce spesso da persone ucraine, o di origine ucraina, che condividono fonti in lingua difficilmente raggiungibili da un madrelingua italiano; o da account dedicati alla fotografia di guerra; o da reporter sul campo che condividono la loro esperienza diretta.

Cosa rende qui inapplicabile il concetto di trauma porn? Forse l’origine e lo scopo della diffusione: queste persone e questi enti virtuali pongono come primo loro obiettivo la testimonianza di un conflitto che dall’antagonista viene ripetutamente alterato e sminuito; un conflitto che è oggetto forte di propaganda, e a operare quest’opera di demistificazione sono i soggetti dei contenuti stessi

Non sembra ci sia, insomma, una oggettificazione dei corpi abusati e uccisi. Piuttosto è evidente la volontà di diffusione visiva della violenza da parte di chi ne è oggetto, per tutte le motivazioni di cui sopra; e questo chiaramente non escluderà la presenza di solidali personalità social che condividano contenuti traumatici per ‘mostrarsi’, ma ne neutralizza il dato morboso.

In fin dei conti, se la volontà della popolazione ucraina è colpire e stimolare reazioni, che siano ben accette anche le diffusioni poco consapevoli.

[Si ringrazia sentitamente il prof. Michele Sorice, direttore del CCPS (Centre for Conflict and Participation Studies) e docente presso la LUISS di Roma, per i suoi preziosi consigli].

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