Il violino e il “Sole Oscuro”: Fabio Zuffanti ci racconta Branduardi

Canta di Dio e della sua assenza. Della morte e della vita. Il Medioevo e il Rinascimento. Canta in italiano, in francese, in tedesco, in inglese. Canta i grandi poeti: Esenin, Hikmet e Yeats; canta San Francesco e Santa Idelbranda. E ora anche sè stesso: per la prima (e unica) volta Angelo Branduardi, si racconta senza remore nella sorprendente autobiografia Confessioni di un malandrino (Baldini+Castoldi, 2022, pp. 189) . Fabio Zuffanti, scrittore e musicista, è il giornalista e co-autore del libro che è riuscito a convincerlo.

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Come hai fatto a far scrivere un’autobiografia a uno che non l’aveva mai voluta fare?

«È stata una cosa inaspettata. Mi avevano descritto Branduardi come un personaggio schivo, ritroso, dal carattere difficile. Però io che lo stimo da anni avevo in mente questo libro da tempo, e – a margine di un’intervista su Battiato- gli ho fatto una proposta semplice: un libro-intervista, tutto domande e risposte. Coincidenza volle che lui stesso stava pensando che allo scoccare dei settant’anni fosse venuto il momento di raccontarsi. Poi la casa editrice ha spinto perchè io prendessi le nostre chiacchierate e le facessi diventare un’autobiografia».

Quindi è stato un incrocio inaspettato di uno stesso desiderio.

«In qualche modo sì, ma ho scoperto una persona gentile e disponibile, del tutto diversa da come me l’avevano presentata. Si è lasciato andare in libertà a tanti ricordi della sua vita».

Alcuni dei quali privatissimi. E (forse) inaspettati.

«Per questioni ereditarie ha sofferto di depressione, che lui chiama “il Sole Oscuro”. Soprattutto quando c’è stato il primo lockdown, questa si è acuita. Nel libro parliamo di come ha affrontato questo periodo, con grande coraggio e forza di volontà. A dirla tutta, mi aveva confidato questa cosa ma non sapeva se era il caso di parlarne. Sono stato io a convincerlo perché in un libro in cui racconti tutto di te sarebbe stato un peccato omettere una cosa di tale importanza. Ci sono, poi, anche altre persone che si potrebbero rispecchiare nel suo vissuto: il racconto è molto delicato, quindi non vedo perché non avrebbe dovuto esserci».

Confessioni di un malandrino -canzone che titola il libro- eseguita in concerto ad Antwerpen (Anversa) nel 1999.

Prima abbiamo citato Franco Battiato. In questo libro Branduardi sottolinea come la sua musica sia una creazione collettiva. A partire dalla moglie Luisa Zappa, musa e co-autrice di tanti testi, passando per Roberto Vecchioni, Maurizio Fabrizio, Tony Pagliuca, Eugenio Finardi e il celebre arrangiatore Paul BackMaster. Arrivando a Battiato, con cui incise il Sultano di Babilonia e la prostituta, contenuta nel concept album “francescano” L’infinitamente piccolo.

«Tra Battiato e Branduardi ci sono molte similitudini: Branduardi è il musicista più simile che abbiamo a Battiato, ma hanno spiritualità diverse. Branduardi è più terreno, si definisce un “peccatore”, ama il buon cibo. Ama circondarsi di persone. Per Battiato le collaborazioni sono state altrettanto importanti, ma per Branduardi forse più decisive, perchè il suo è un suono-Mondo. Ci si trovano influenze di culture diversissime.

Basti pensare poi che negli anni Sessanta il cantuatore tipo si esibiva soprattutto con chitarra e voce. Poi è stato De André con la PFM che ha creato nell’immaginario collettivo l’alchimia cantautore-band rock. Branduardi, a onor del vero, l’ha fatto un paio di anni prima. Si è circondato di un super gruppo con dentro strumenti di ogni genere, un’orchestra che ha dato colori incredibili alla sua musica. Battiato era più solitario, Branduardi ha sempre avuto questa apertura molto forte verso persone e culture diverse».

Per di più rivendica tra le pagine la continua voglia di cambiare. Di sorprendere discografici, critica e pubblico: quando la critica lo etichetta negli anni Ottanta come un fenomeno rock, lui scrive per il cinema o si mette a musicare le poesie di Yeats. Nel 2000, dopo un periodo più etnico-minimalista, arriva L’infinitamente piccolo. É questa la sua grandezza? Sperimentare continuamente per soddisfare sé stesso, prima che il pubblico e il mercato?

«É vero. Per scrivere il libro ci siamo subito detti: sfatiamo il mito che sei solo quello di Alla fiera dell’Est. Molti pensano che Branduardi sia solo quello. Invece non si è mai accontentato, anzi, raggiunto il grande successo in qualche modo ha fatto di tutto per evitarlo, si è buttato a fare dischi acustici, elettronici, collaborazioni, colonne sonore. Nella discografia di Branduardi convivono album diversissimi. Insieme alla moglie ha sempre avuto questa grande capacità di scavare in culture e influenze tra loro molto distanti».

Anche Battiato ha fatto un percorso simile…

«Certo, Battiato ha avuto delle hit. Centro di gravità permanente, Cuccurucucù, solo per citarne alcune, ma nessuna caratterizzante quanto Alla fiera dell’Est, che ha appiccicato addosso a Branduardi l’etichetta di menestrello. Etichetta che, come lui dice, da una parte può essere simpatica, dall’altra si può rivelare una condanna. Se vieni definito menestrello sei associato a tutto un mondo da stornelli medioevali, anche fantasy, che, però, è molto limitante. Perché lui è molto di più. Perciò nel libro ho fatto di tutto perché quella immagine pesasse il meno possibile».

Una continua vibrazione simbolica, misterica, allusiva sia nello stile che nei contenuti, percorre queste pagine. La stessa che anima le sue canzoni.

«Sì, eccome. Torniamo sempre al discorso del menestrello e di Alla fiera dell’est. Questo personaggio che sembra quasi aggraziante, che fa sognare e porta verso altre dimensioni. Tutto vero, ma c’è anche tanta oscurità, tanto mistero, tanto buio nell’animo umano. E poi queste leggende, miti e storie antiche nascondono sempre un lato solare e un lato oscuro. Nella stesssa Fiera dell’Est, infatti, a un certo punto arrivano l’Angelo della morte e il Signore con un susseguirsi di omicidi, l’uno dopo l’altro.

L’ho scritto anche nell’introduzione, è ciò che mi ha sempre affascinato di Branduardi: in lui vedo sempre quest’oscurità che comunque è anche tipica delle “belle leggende antiche”, ma ha anche sempre, come nelle fiabe dei fratelli Grimm, un lato oscuro».

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Nella prima parte del libro, infatti, si descrive come un bambino di umile famiglia che dalla periferia di Milano si trasferisce nei vicoli (poi) deandreiani di Genova. Non sa ancora cosa fare della sua vita, fin quando incontra un oggetto magico: il violino. Con cui stringe «un rapporto fisico, è l’anima e la corda. Perchè è un modo di essere posseduti e di possedere».

«Certo, non serve che dica qui che rivelazione per lui sia stata quello strumento. Quando da bambino il padre lo portò da un’insegnante, capì subito che sarebbe stato lo strumento della sua vita. Uno strumento che riserva sì continua gioia, ma impararlo non è stato affatto semplice: per questo è l’anima e la corda. Quando lo suona esce fuori la sua vera anima. Un’anima anche molto tormentata. Il suo Sole Oscuro, se vogliamo».

Lui stesso afferma che l’artista è condannato a una ipersensibilità che gli dà tormento in ogni cosa che fa.

«L’ispirazione è bellissima se sgorga in maniera fluida, in quello che Branduardi chiama “il giardino incantato dell’ispirazione”. Però poi se non puoi più accedervi porta dolore, rende ipersensibili. E questa ipersensibilità lo travolge anche nelle piccole cose, che fa con difficoltà, perché è in un altro tipo di realtà, né migliore né peggiore».

Branduardi, però, non è solo tormento.

«C’è anche tanta leggerezza, tanto gioco nella sua musica. Nel libro mi ha regalato una descrizione di Genova piena di bellezza e, per me che ci abito, anche molto poetica; è stato bello ritrovare questa Genova degli anni Cinquanta con le sue vie, i suoi profumi, i suoi abitanti, i personaggi, con lui, bambino, che diventa il principino delle prostitute e dei vecchietti».

Un altro rapporto “luminoso” su cui si dilunga per la prima volta è quello con la famiglia.

«Branduardi non si può certo considerare una rockstar in cerca di groupies: ha un’idea molto forte della famiglia, è sposato da quasi cinquant’anni, ha due figlie. E alla sua dimensione familiare tiene molto, ne racconta a lungo in queste pagine. Delle figlie è molto fiero e si rende conto anche che il rapporto artistico con la moglie a volte avrebbe potuto scatenare grosse discussioni – e le ha scatenate – però alla fine il lavoro si è sempre svolto in armonia».

Non è così fiducioso, però, verso il futuro. Musicale, giornalistico, culturale. Nel libro rivela quanto e perché oggi sia diventato difficile, complici anche i social, fare critica musicale in senso proprio.

«Branduardi viene da una scuola di critica piuttosto feroce. Negli anni Settanta uscivano i suoi dischi a volte venivano elogiati, altre ferocemente criticati da chi, però, sapeva fare il suo mestiere. Ora vede un generale appiattimento in cui nessuno parla più male di nessuno, ci sono giornalisti di una certa età che comunque vogliono compiacere un pubblico giovane lodando personaggi che andrebbero criticati. Però, se continuasse a esserci più spirito critico, ci sarebbe più crescita culturale. Detto questo, io scrivo su Rolling Stone Italia e su La Stampa e ha accettato che uno come me facesse la biografia della sua vita. Quindi, in qualche modo, dei giornalisti si fida».

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Perché il Futuro antico di Branduardi ci parla ancora? Ma, soprattutto, perché un adolescente, che ha a che fare con valanghe di musica diversissima, dovrebbe ascoltarlo oggi?

«Non è facile rispondere. Per un ragazzo, va detto, ascoltare Branduardi è come per noi vedere i marziani. Tutta musica sideralmente distante da ciò che ascolta su Spotify tutti i giorni per linguaggio, accordi, melodie, temi e suoni. Ecco perché non lo sceglie.

Dovrebbe, forse, levare i paraocchi verso il passato. Mi sembra che oggi, molto più che in passato, ci sia un’attenzione smodata per il presente, sembra che il passato non interessi a nessuno. Superato questo scoglio, allora, si aprirebbe un mondo musicale, culturale, formidabile. Sarebbe un arricchimento fortissimo».

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