Contro la gavetta

Con l’arrivo della stagione estiva si ripropone, al pari dei tormentoni sul restare idratati ed evitare le ore calde, la solita questione dei lavoratori stagionali introvabili. La colpa è imputata principalmente al reddito di cittadinanza, ma sappiamo tutti che la narrativa dei giovani che non vogliono fare la gavetta è tutt’altro che recente ed è parte di un fenomeno noto come Juvenoia. Nel 2019 Valigia blu aveva ampiamente decostruito la questione da un punto di vista giornalistico, ma questo non ha impedito alle principali testate di riproporre il solito atteggiamento di parte (forse per acchiappare più click). La novità è che quest’anno altri giornali, principalmente piccole testate locali, stanno pubblicando reportage in cui mostrano quanto le condizioni di lavoro effettive sono ben lontane da quelle millantate dagli imprenditori.

Rimanendo sul caso specifico si possono fare molte considerazioni, la maggior parte delle quali sarebbero del tutto ridondanti e poco originali: calcolando quanto la ristorazione e il settore turistico stiano diventando sempre più rilevanti nell’economia italiana, è comprensibile che il dibattito sia così acceso. Ciononostante, c’è ancora una riflessione importante che si può portare avanti a livello collettivo: partendo dal mondo dei risotoratori, i cui lavoratori sono tra quelli che se la passano notoriamente male, si possono fare delle generalizzazioni sull’intero mercato del lavoro, probabilmente limitarndosi a svelare qualche segreto di Pulcinella.

Gavetta ai fornelli di un ristorante

È risaputo che molti dei problemi dei Millennial e degli Zoomer sono dei trend legati a tutto il mondo occidentale, ma quello che accade in Italia è anche sintomo di problemi strutturali più profondi. Un filo conduttore che accomuna buona parte delle critiche che vengono rivolte ai giovani è quella di non voler fare la gavetta: il problema è che questo termine nel tempo ha assunto un significato relativamente diverso. In senso più stretto, la gavetta è un periodo di lavoro intenso che i giovani devono fare per imparare il mestiere partendo dal basso e quindi dai ruoli più umili, dove sgobbare è una condizione necessaria per acquisire ciò che serve per arrivare al successo.

Se questo concetto si prestava particolarmente bene per i lavori fisici o di artigianato dove i giovani hanno più energie dei loro colleghi anziani, questo diventa più difficile da immaginare in un’economia basata su servizi e lavoro cognitivo. Questo in realtà è il minore degli scogli, perché il più delle volte la gavetta è diventata sinonimo di sfruttamento. Il ragionamento alla base di molte persone di mezz’età è: io i diritti me li sono guadagnati, i giovani devono fare altrettanto. Questo ragionamento ha diversi problemi: primo tra tutti è la conseguenza secondo cui i diritti acquisiti da una generazione o da un gruppo vadano costantemente ridiscussi e ri-guadagnati, vanificando di fatto tutti gli sforzi ottenuti precedentemente. L’atteggiamento in questione sposta un enorme potere contrattuale verso i datori di lavoro, che possono ogni volta sfruttare l’ingenuità e l’inesperienza dei giovani lavoratori, ma con delle sostanziali differenze.

Primo tra tutti è che le condizioni economiche di fondo oggi sono molto più sfavorevoli rispetto a venti o trent’anni fa, e quindi è diverso contrattare lottare durante un lungo periodo di crescita economica, rispetto a un’Italia che non è mai tornata ai livelli pre-duemilaotto e a cavallo tra una pandemia e la recessione economica che ne consegue (condita da un po’ di guerra che costringe a manovre di de-globalizzazione, perché non vogliamo farci mancare proprio niente). E in Italia a fare le spese di queste situazioni sono i giovani e le donne.
Se un giovane fino a trent’anni fa poteva permettersi di avere dei figli prima dei trent’anni e comprare una casa di proprietà, oggi per un giovane senza un’eredità è pratcamente utopia, specialmente nelle maggiori città. Il tutto senza contare il fatto che con tutta probabilità non avrà una pensione o, se l’avrà, questa sarà insufficiente a vivere una vita dignitosa.

Un altro problema dell’idea di riguadagnare i diritti è che sottintende un approccio gerontocratico se non del tutto nonnista, incompatibile con l’idea di meritocrazia che tanto piace alla classe imprenditoriale. Attraverso una lente gerontocratica della gavetta vista come sfruttamento, dichiarazioni di imprenditori più o meno famosi che si lamentano dei giovani che pretendono gli straordinari o una vita sociale vengono vendute come delle legittime lamentele da parte di una generazione che invece la gavetta l’ha fatta, e non dei piagnistei di persone che cercano solo un pretesto per sfruttare i propri dipendenti col benestare della legge.

Finora si è rimasti nell’ipotesi di condizioni di lavoro più o meno legali, ma ben sappiamo che in molti settori la legalità è l’eccezione. Infatti, grazie a una serie di meccanismi, la “gavetta” si allunga a tempo indeterminato. Oltre al classico nero, ci sono trucchi come contratti part-time per lavori full-time o contratti regolari con enormi fette di stipendio che devono essere restituite in contanti. Per non farsi mancare nulla ci sono le aziende che assumono solo tirocinanti (magari con esperienza) che non passeranno mai a un contratto regolare in modo da poter sfruttare all’infinito degli incentivi fiscali che dovrebbero essere temporanei. Altri settori, come quello culturale, si reggono in piedi solo grazie al volontariato, con il beneplacito di istituzioni e popolazione. Poi ci sarebbe la questione del caporalato nel settore agricolo, un problema a parte altrettanto noto ma che, colpendo principalmente immigrati senza diritto di voto, è al di fuori dell’interesse di praticamente chiunque.

Ciclofattorino: un mestiere fatto di gavetta ma senza prospettive di carriera

A questi si aggiunge il fenomeno delle finte partite Iva: lavoratori di fatto dipendenti ma assunti come partite Iva o con altri contratti che forzano l’impiegato ad aprirsene una. In alcuni settori sono diventati uno standard de facto, e non parliamo solo di ciclofattorini. In questo modo anche categorie precedentemente relegate alla borghesia o solo apparentemente privilegiate devono affrontare un problema di declassamento: avvocati, architetti, giornalisti, medici specializzandi e anche alcuni tipi di ingegneri ormai faticano a trovare delle condizioni che secondo la teoria economica sarebbero tipiche dei lavoratori altamente specializzati.

Impossibile parlare di gavetta senza citare il precariato: infatti, questo non è più una prerogativa dei lavoratori stagionali. Insegnanti di scuola, ricercatori e operatori della logistica sono solo gli esempi più lampanti. La realtà è che ci siamo così abituati al precariato che questo ormai questo non desta più scandalo. Con fenomeni come il job hopping più o meno imposto, persino il contratto a tempo indeterminato può considerarsi una sicurezza.

In sostanza il problema non è solo di remunerazione ma in generale di condizioni di lavoro inadeguate a un Paese ricco e sviluppato come l’Italia. Nel frattempo, si cerca di mettere una pezza al problema dei salari con una proposta di legge sul salario minimo, già prontamente osteggiata da Confindustria, ma le questioni sono molto più profonde. Infatti, anche i lavoratori che hanno un minimo di diritti si trovano di fronte a ingiustizie salariali (e non solo) come per i contratti nazionali, rinnovati sistematicamente in ampio ritardo o sottoscritti per mansioni del tutto diverse da quelle per cui sono pensati. Poi ci sono i contratti pirata, ma anche questo è un capitolo a parte.

In Italia si è giovani fino ai quarant’anni e si sa, se sei giovane devi fare la gavetta, anche se sei eccellente, come se per fare un mestiere “da grande”, il più delle volte inaccessibile se non per chi proviene da famiglie abbienti, sia necessario rompersi la schiena in un lavoro del tutto scorrelato. I giovani, tuttavia, sono merce sempre più rara dato l’andamento demografico del Paese e sono proprio questi a doversi addossare tutto il peso che non vuole essere trasportato dagli adulti. I lavoratori sono dunque coloro che pagano il prezzo sempre crescente dell’inettitudine di una classe imprenditoriale incapace di aumentare la produttività e di un apparato statale disinteressato a fare investimenti mirati. Scuola, infastrutture e innovazione passano sempre in secondo piano di fronte a un budget limitato che, per contrastare le nuove forme di povertà, viene distribuito a pioggia con i vari bonus, perché elettoralmente più efficaci sul breve periodo.

Con un tasso di disoccupazione drammaticamente alto il lavoro viene visto come una gentile concessione e non come il fondamento di una società sana, e la retorica della dura gavetta, dei sacrifici a ogni costo, sono solo il simbolo di una mentalità che sta danneggiando tutti. Dunque è il momento di metterla radicalmente in discussione, perché è difficile accettare di fare la gavetta se questa non implica la possibilità di fare carriera o anche solo banalmente mantenersi dignitosamente.

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