Avatar: The Way Of Water, capolavoro o copia-incolla? – theWise@theCinema

Le aspettative erano altissime: Avatar: The Way Of Water ha ricevuto recensioni sbalorditive da chi ha assistito alle proiezioni in anteprima, pompando a mille l’hype del pubblico. La travagliata genesi del secondo capitolo della saga fantascientifica di James Cameron sembra quindi aver dato i suoi frutti.

È davvero così?

Disclaimer: la prima parte di questa recensione è senza spoiler (che sono segnalati).

Analisi

La sua realizzazione non è stata per nulla semplice, tanto che Edie Falco, una delle interpreti, ha detto durante un’intervista che le sue parti erano state girate talmente tanto tempo fa che credeva che il film fosse già stato pubblicato e fosse stato un flop.

Ben tredici anni sono infatti passati dal primo, dirompente Avatar. L’impatto che ebbe sul pubblico e soprattutto sull’industria cinematografica fu epocale. James Cameron portò la tecnologia applicata alla produzione cinematografica a un nuovo livello: Cgi e motion capture non erano mai state così efficaci e tutta la produzione filmica successiva ne ha risentito.

Mai come nell’ultimo decennio, infatti, abbiamo visto così tanti film in live action con un uso pervasivo di queste tecnologie, tanto che alcune assomigliano sempre più a delle pellicole d’animazione. Pensiamo ai cinecomic ad esempio, ormai quasi interamente girati in green screen. Il problema è che di solito si vede, in Avatar no. O quasi.

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Uno spettacolo per gli occhi

È indubbio che Avatar: The Way Of Water abbia un impatto visivo sbalorditivo. Il livello tecnico e tecnologico raggiunto da questa pellicola rappresenta il miglior risultato ottenibile al giorno d’oggi e fissa un nuovo standard da seguire da qui in avanti. Né più né meno di quanto fatto dal suo predecessore.

In tal senso il consiglio spassionato è di vederlo in 3d. La regia di Cameron (meravigliosa) è pensata per questo mezzo, con il quale regala un’esperienza che il 2d non potrà mai raggiungere.

A confronto di Avatar: The Way Of Water, gli effetti speciali di qualsiasi altro film risultano infatti imbarazzanti (sì Marvel, proprio così).

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Si tratta di una pellicola dove l’uso della Cgi è totale, con pochissime scene con attori in carne e ossa, e tutte comunque in green screen. Detto così verrebbe da pensare male. Invece sotto questo aspetto Cameron porta a casa il risultato. Il livello di dettaglio è pazzesco, comprese le imperfezioni della pelle, le piccole cicatrici, le rughe, luci e ombre.

Tutto è perfetto. Eppure nei primissimi minuti la percezione di finto, per quanto infinitesimale, c’è. Ma se ne va subito, non appena l’occhio si abitua: non siamo ancora arrivati a una tecnologia capace di replicare un mondo che sia indistinguibile dalla realtà, ma ci siamo vicinissimi.

Immaginazione, ma non troppo

Passati i primi minuti l’immersività è comunque totale. Lo spettatore viene proiettato in un altro mondo non solo per la qualità degli effetti, ma anche dal punto di vista ideale.

Avatar, che ormai è un franchise vero e proprio, si caratterizza per l’attenzione maniacale nel world building. Una buona metà del film – nel bene e nel male – è dedicata a mostrare Pandora con uno stile registico paragonabile a un documentario naturalistico. Bellissimo da vedere, ma rischia di annoiare chi è più attento alla trama.

Come nel primo episodio, il design delle specie aliene rimane un aspetto cruciale nella costruzione della pellicola. Dagli insetti che volano grazie a viti senza fine come nei progetti di Leonardo da Vinci a una sorta di meduse-farfalla capaci di far respirare sott’acqua, ogni più piccolo dettaglio è pensato per essere funzionale. Nulla è lasciato al caso.

Da una parte il risultato sullo spettatore è il candido stupore di un bimbo che vede degli animali esotici per la prima volta, dall’altra sembra di essere a un safari ma con una bella dose di funghetti magici in corpo: Pandora non è un mondo davvero alieno, quanto piuttosto una versione new age della Terra.

Sale alla mente una canzone dei Bluvertigo, Altre F.D.V:

«Se non ci fossero i funghi, riusciresti a immaginari? Se non esistessero le alghe, riusciresti a immaginarle?».

Il problema è tutto qui. Il design delle creature da sì spazio alla fervida immaginazione dei disegnatori ma si rifà agli animali terrestri, limitandosi a modificarne alcuni parametri e i colori, per rendere il risultato più lisergico. È tutto bellissimo, ma anche famigliare: ci sono pseudopiante, pseudomolluschi, pseudoinsetti, pseudorettili, pseudomammiferi e pseudoumani.

Per capirci, un esempio di creature aliene davvero originali sono gli eptapodi di quel capolavoro che è Arrival di Denis Villeneuve, dal punto di vista sia del design, che di come sono scritti e di come comunicano (sistema molto più elegante della porta usb biologica di Avatar). O, paragone ardito, le molte specie aliene assurde ideate per prodotti come Futurama o Rick e Morty.

La gestione dei tempi

Prima di tutto, mettiamo le mani avanti: Avatar: The Way Of Water è un film che scorre con grande piacere e, sebbene sia lungo più di tre ore, non si sente l’impulso di guardare l’orologio.

Tuttavia Cameron si concentra molto di più su mostrare Pandora che sulla storia, che procede a rilento per dare un’accellerata solo sul finale. Se non fosse per lo spettacolo visivo che ci si trova davanti sarebbe un film molto lento, forse troppo.

ATTENZIONE, SPOILER DA QUI IN AVANTI

Un reboot mascherato da sequel

La storia ricalca pari pari quella del primo film. Il prologo introduce la situazione di partenza e arrivano gli umani metamorfizzati in avatar/recomb, con lo scopo di ottenere una materia prima indispensabile (unobtanium prima, amrita – il liquido dell’immortalità estratto dal cervello dei tulkun – poi); c’è il primo scontro col villain, che è sempre lo stesso; si accompagna il protagonista nella sua scoperta del nuovo “mondo”, di cui deve imparare le usanze locali per guadagnarsi la fiducia del capo; il protagonista è riluttante a combattere e propende per la fuga, mentre i nav’i vorrebbero reagire; il protagonista finisce per portare la guerra a casa degli indigeni e capisce che deve reagire; battaglia finale con megaveicolo meccanico contro gli indigeni a cavallo di qualcosa e vittoria dell’eroe.

Nel mezzo, tantissime note in comune: lo scienziato che è l’unico ad avere un briciolo di etica; la rivalità con l’erede del capo indigeno, che poi diventa amico del protagonista; la presenza di un personaggio in grado di comprendere appieno la rete neurale di Pandora.

Tante, troppe similitudini. Sembra di assistere all’operazione di J.J. Abrams con Star Wars: The Force Awakens: un reboot mascherato da sequel, per recuperare i più giovani dopo il lungo tempo trascorso. In tal senso, questa pellicola risulta comprensibile anche a chi non ha mai visto il primo capitolo.

Le differenze

La grande differenza rispetto al primo film è senza ombra di dubbio il cambio di protagonista nel corso di questo Avatar: The Way Of Water.

Nei primi atti della pellicola infatti il fulcro (e narratore) è sempre lui, Jake Sully, ma poco alla volta la storia acquisisce un nuovo protagonista, suo figlio minore Lo’ak. Jake infatti perde poco alla volta importanza e screen time, per tornare cruciale nel finale, più come strumento narrativo che come reale centro della storia.

È interessante che in apertura venga raccontato che la Terra stia morendo e che l’obiettivo non sia più reperire l’unobtanium come nel primo film, bensì creare la nuova Terra.

Altra differenza è che, questa volta, il cattivo si salva.

L’ambientalismo totale

Tante le tematiche toccate in questo film, a partire dall’onnipresente critica ambientalista. Giusta, ma sviluppata attraverso gli ormai stantii luoghi comuni del buon selvaggio e degli umani irrecuperabili, soprattutto in quanto occidentali. Poteva andare bene nel 2009, ma oggi sa di vecchio.

I nav’i sono l’incarnazione del popolo indigeno invaso, dalla parte del giusto per definizione. E lo sono, è oggettivo, ma il ritratto che ne esce è idealizzato. Non hanno lati negativi, non compiono nefandezze, sono esseri utopici, ciò a cui dovrebbe tendere l’uomo. Banale anche la caratterizzazione dei clan: i nav’i della foresta ricalcano gli indigeni americani, quelli del mare i maori (con tanto di linguaccia da combattimento).

Gli umani, invece, sono una razza ormai dannata, che non sa imparare dai propri errori e cerca in un nuovo pianeta quello che ha distrutto nel proprio.

I soliti, banali cliché.

Il tema della diversità

La diversità è incarnata in misure diverse da Jake e dalla sua famiglia, e da Spider.

I Sully sono infatti considerati dei meticci, imparentati con i demoni del cielo per via della ricombinazione del Dna umano di Jake attraverso il suo avatar. Dna che ha passato ai suoi figli, riconoscibile in un volto lievemente meno alieno e nell’avere cinque dita invece di quattro.

I Sully, integrati nel loro clan originario nella foresta, diventano degli estranei quando si uniscono alla comunità dei nav’i del mare.

Se i Sully possono contare sulla famiglia, Spider no. Questo novello Mowgli, invece che dai lupi, è stato cresciuto dai nav’i. Si muove come loro, si comporta come loro, ma a differenza dei Sully non sarà mai tale.

La versione recomb (e rebootata) del colonnello Quaritch, che da umano era suo padre, percepisce queste dinamiche a colpo d’occhio e, forse a livello inconscio, comincia a stringere un legame con il ragazzo pur continuando a tenerlo prigioniero, tanto che poi nel finale sarà lui a salvarlo.

Il seme piantato da Cameron potrà sbocciare in due modi: potrebbe essere l’inizio dell’arco di redenzione del colonnello, ma anche quello di dannazione di Spider.

I Sully

In questo senso le dinamiche famigliari tra genitori e figli, naturali e adottivi, sono il principale strumento narrativo che porta avanti la trama, in particolare per quanto riguarda i Sully.

Neteyam è il primogenito, il figlio prediletto. Sente su di sé il peso della responsabilità, tanto da prendersi sempre la colpa per i fratelli. È anche il personaggio meno sviluppato, cosa che – purtroppo – fa capire con molto anticipo che durerà poco.

Il vero fulcro della storia, colui che da ora in poi assumerà il ruolo del protagonista, è Lo’ak, il figlio minore di Jake. Lo’ak soffre il confronto costante con il fratello maggiore Neteyam e ne combina una dietro l’altra. Non senza che Jake glielo faccia notare a ogni piè sospinto, distruggendo pezzo per pezzo la sua autostima, schiacciata dal paragone con il fratello perfetto e inarrivabile.

Il senso di colpa che Jake pone su Lo’ak è un esempio da manuale di genitorialità tossica, nella quale molti genitori e molti figli minori potranno (o dovrebbero) rivedersi.

Meno sviluppato il rapporto con le due figlie. La piccolina, Tuk, con ogni probabilità verrà approfondita nei prossimi film, mentre la figlia adottiva Kiri merita un discorso a parte.

Kiri di Nazareth

Kiri è senza dubbio uno dei personaggi meglio scritti e sviluppati insieme al fratello Lo’ak. È la figlia nata dall’avatar della dottoressa Grace Augustin attraverso quella che sembra un’immacolata concezione. Forse è stata generata da quella sorta di mente alveare che pare essere Eywa, la dea dei nav’i che incarna l’interconnessione neurale di tutte le forme di vita di Pandora. La spiegazione è plausibile, dato che l’ultimo essere a essere stato connesso all’avatar della dottoressa è stato l’albero della anime, cioè una della tante “porte usb” di Eywa.

Come Gesù comunicava con il Padre, così Kiri sembra poter comunicare in maniera privilegiata con la divinità. Non solo: ha una connessione preferenziale con tutte le creature, tanto da poterle “telecomandare” con la mente. O, quantomeno, così sembra.

A livello narrativo è la versione reboot di sua madre, tanto da essere interpretata dalla stessa (bravissima) Sigourney Weaver. A quanto pare, nessuno muore davvero su Pandora.

I reietti

Altro tema importante è quello che ruota intorno al ruolo dei reietti della società, siano essi i Sully che devono adattarsi ai nav’i del mare, o più nello specifico Lo’ak con i coetanei, o ancora il tulkun Payakan.

A essere più approfonditi sono in particolare questi ultimi due, compreso il legame che instaurano. Ma mentre l’arco narrativo di Lo’ak segue il banale cliché della rivalità col bulletto della “scuola” che poi diventa amicizia – già vista e rivista in migliaia di film per ragazzi –, più interessante è il ruolo di Payakan.

Questa sorta di cetaceo senziente infatti porta con sé una storia struggente e accattivante, tanto da renderlo uno dei personaggi più interessanti di tutto il film. E non è nemmeno interpretato da un umano.

Cosa ci aspetta?

Sono previsti molti altri film di Avatar e visto il successo che sta avendo è probabile che vedranno la luce, considerando anche che Cameron ha già girato moltissime scene di Avatar 3 e varie del 4 durante le riprese di questo Avatar: The Way Of Water.

È probabile che Jake o Neytiri o entrambi periranno, in modo da passare il testimone in via definitiva a Lo’ak. Altrettanto presumibile che Kiri assumerà un ruolo più importante.

Nel frattempo la guerra tra umani e nav’i prosegue, ed è da vedere dove andrà a parare Cameron. Dal ripescaggio del fratello defunto di Jake in versione recomb (come il colonnello), magari in versione villain, a qualcosa di più inquietante. Come già accennato in precedenza, all’inizio del film si fa un riferimento buttato lì e poi mai più ripreso, ma che probabilmente diventerà il fulcro dei prossimi film: la Terra sta morendo e gli umani vogliono trasferirsi su Pandora.

Questo può avere varie conseguenze: una di queste potrebbe essere un tentativo di terraformazione di Pandora per renderla abitabile dagli esseri umani. Questo significherebbe in maniera implicita il genocidio di ogni forma di vita adattata all’atmosfera di Pandora, tossica per gli umani.

Speriamo che dal prossimo film, quantomeno, si eviti di fare copia-incolla della trama.

Pagelle

Regia

C’è poco da dire, magnifica. Cameron è un nerdone che pretende il top della tecnologia e lo usa con grande perizia. Ogni inquadratura è studiatissima, ogni movimento di macchina efficace. Tutto ruota intorno a un concetto: fare innamorare il pubblico di Pandora.

Lo stile si alterna dal documentario naturalistico alle scene d’azione e la qualità è sempre elevatissima.

Voto: 9,5

Fotografia

Viene difficile dare un giudizio, trattandosi di luce “finta”, che può quindi essere collocata a piacimento senza alcun impedimento tecnico. È comunque fatta molto bene, soprattutto nelle scene sott’acqua (da mozzare il fiato) e nei primi piani.

Voto: 9

Sceneggiatura

È il punto debole di questo film. La storia è un palese reboot del precedente capitolo e le tematiche principali vengono spesso trattate attraverso luoghi comuni stantii (mito del buon selvaggio su tutti). In linea generale ogni svolta della trama è telefonatissima, senza particolari colpi di scena.

È evidente come Cameron abbia voluto andare sul sicuro con una struttura collaudata preferendo concentrarsi sulla parte visuale, di altissimo livello.

Il finale, della serie “Rambo sposa Nikita e insieme vendicano il figlio”, e il ripescaggio di personaggi defunti nel primo film sono scelte piuttosto banalotte.

Poteva essere L’impero colpisce ancora, ne è uscito Il risveglio della forza.

Voto: 4,5

Colonna sonora

Simon Franglen fa il compitino. La colonna sonora è funzionale, accompagna bene e non è mai invasiva. Ma non si distingue per nulla e lascia ben poco.

Se ci si chiede: «Come fa il tema di Avatar?» rotolano cespugli secchi davanti agli occhi, vero?

Voto: 6

Effetti speciali

Senza ombra di dubbio i migliori effetti speciali mai visti finora. Pazzeschi, inarrivabili, quasi indistinguibili dalla realtà.

La Cgi è perfetta, la motion capture impeccabile e i pochi green screen impercettibili. La resa dell’acqua è qualcosa di sbalorditivo.

Ci vorranno anni prima che venga superato, e con ogni probabilità per mano di Avatar 3.

Voto: 10 e lode

Cast

Di norma nelle pagelle di theWise@theCinema si analizzano le prestazioni dei singoli attori, ma essendo un film girato in motion capture la cosa diventa difficile. Un po’ per l’ingombro dato dalle maschere digitali, che inevitabilmente alterano la prestazione degli attori soprattutto per quanto riguarda la mimica facciale. Un po’ perché è difficile scindere la prestazione dell’attore dalla postproduzione applicata ai suoi lineamenti, per enfatizzare determinate espressioni (pensiamo ai ringhi di Neytiri, ad esempio).

È comunque degna di nota l’interpretazione di Sigourney Weaver, che riesce a dare a Kiri innocenza e profondità davvero convincenti, complice anche un design con lineamenti più umani a partire dal naso e dagli occhi; anche Zoe Saldana si conferma un’attrice validissima di per sé, e ancora di più nel motion capture, tecnologia che maneggia con grande bravura; rispetto al primo capitolo è nettamente migliorato Sam Worthington.

Deludono invece Stephen Lang e Kate Winslet, due bravissimi attori ma che in questo caso non riescono a esprimersi bene.

Voto al cast: 8-

Pro

  • un impatto visivo pazzesco
  • i migliori effetti speciali mai visti al cinema
  • una regia davvero efficace

Contro

  • trama molto debole
  • ritmo lento
  • colonna sonora migliorabile

Voto globale: 8

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