Gentiluomo in mare: recensione di una perla ritrovata

Se Gentiluomo in mare fosse una canzone, sarebbe senza dubbio Onda su onda di Paolo Conte, brano pop uscito nel 1974, ben trentasette anni dopo la prima pubblicazione del romanzo. Malinconica ma al tempo stessa beffarda.
Se fosse un sentimento sarebbe la fragilità umana, la disillusione, la disperazione e finanche la tenacia, la speranza, l’imbarazzo, il pudore.

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Nella postfazione di Marco Rossari, che ne ha curato l’edizione di Adelphi pubblicata il 31 gennaio scorso, vengono narrati interessanti aneddoti e parallelismi tra la vita dell’autore, lo statunitense di origine russa Herbert Clyde Lewis, e quella del nostro gentiluomo, Henry Preston Standish.

Come Lewis soccombe al fascino della scrittura, che non gli consentirà mai di farne un mestiere fruttuoso, allo stesso modo Standish scivolerà su una macchia d’unto sul ponte di una nave da crociera, evento che ne segnerà rovinosamente il destino.

Il tempo trascorso nelle placide acque del Pacifico in attesa del ritorno della nave Arabella, su cui soggiornava, darà modo al protagonista di sviluppare una riflessione sugli abissi dell’esistenza umana, insegnando al lettore a resistere, ad aprirsi, a essere, a sperare e ad ancorarsi alla vita, per poi arrendersi, chiudersi, lasciarsi andare, cedere, spegnersi.
Il romanzo mantiene, durante le poco più di 150 pagine, un clima di tensione mista a scherno e ironia, per la concomitante presenza di un beffardo principio e una tragica fine; una banale macchia d’unto (crudele fonte di misfatta) e un impervio destino (armonioso epilogo fatto di «parole insolitamente melodiose» che riportano Standish «tra le braccia della madre»).
Standish è un gentiluomo – composto, educato, cosciente e moderato, «scialbo come una tela grigia» – e il fatto stesso di essere un tale gentiluomo lo ha portato dapprima ad avere successo nel lavoro e nella famiglia, poi a impedirgli di proferire parola e di gridare: «Uomo in mare!» per chiedere aiuto. Una mente paralizzata dalla paura del giudizio; una errata convinzione che qualcuno noterà la sua assenza.

Nel corso del romanzo emergono sentimenti di speranza e successo, seguiti da immediata frustrazione e sfiducia, in un pendolo di emozioni che portano il lettore a stringere i denti insieme a Standish e a essere con lui «un granello di vita in un mondo immenso», in un infinito di leopardiana memoria ad assaporare il dolce e l’amaro di una solitudine inesorabile, la più impetuosa tra i vividi colori del cielo.

L’idea del romanzo sembra sia balenata nella mente dello sventurato autore a partire da un pensiero opposto: come ci si potrebbe sentire cadendo in mezzo a una grande folla di passanti su strada? Dopotutto, «si è soli anche con gli uomini», disse il serpente nel deserto di Antoine de Saint-Exupéry.

Lo stile di Lewis è dato da frasi brevi ma efficaci, una scrittura ricca di flashback (che ci consentono di conoscere meglio la storia del protagonista) e monologhi interiori (con cui Standish immagina il suo ritorno a casa e mantiene salda la sua sanità mentale).

Questo piccolo libro, inizialmente dimenticato e lasciato naufragare nell’oceano dell’editoria, è ora tornato negli scaffali delle librerie, per nostra grande fortuna, ed è pronto ad essere letto tutto d’un fiato, per lasciarci vorticare in un tripudio di emozioni e risalire, con sofferenza, alla consapevolezza del dono della vita.

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