Gli anni di piombo raccontati da un ex agente della Digos

Qualcuno tra voi lettori avrà certamente vissuto gli anni di piombo. Forse era appena nato o forse era un giovane di nemmeno vent’anni, esattamente come lo era Francesco Marchi, un ex agente della Digos di Milano, oggi nostro ospite.

Questo fu un periodo di grande tensione per il nostro Paese, che ha lasciato un segno indelebile nella memoria collettiva. Tra gli episodi più tristemente noti e significativi, la strage di piazza Fontana, la bomba in piazza della Loggia, il rapimento di Aldo Moro e la strage di Bologna.

L’autore ha scritto per Scatole Parlanti E il Rosso intonò una canzone. Una storia, la sua storia, raccontata attraverso gli occhi di Marco, un giovane agente di polizia entusiasta del suo lavoro, che nell’autunno del 1979 viene assegnato alla Digos della Questura di Milano. Qui si scontra con la dura e sanguinosa realtà di quegli anni, riflettendo sulla propria vita da giovane uomo, giovane poliziotto e giovane cittadino di uno Stato in cui nulla sembra certo.

Oggi theWise Magazine ha incontrato l’ex agente della Digos di Milano Francesco Marchi, in occasione della presentazione del suo libro a Carpi (MO).

Cos’è la DIGOS? Cosa voleva dire farne parte sul finire degli anni Settanta?

«Digos significa Divisione Investigazioni Generali e Operazioni Speciali. È stata creata agli inizi del 1978, poco prima del rapimento Moro, in sostituzione dell’Ufficio Politico delle Questure italiane. Fa capo alla Ucigos, l’Unità Centrale che ha sede a Roma e che coordina tutta l’attività della Divisione.

L’idea di creare una Divisione specifica nella lotta al terrorismo fu di Francesco Cossiga, uno fra i primi politici ad accorgersi che il terrorismo e la lotta politica armata in Italia erano ben più che un’estemporaneità di pochi individui. Si deve considerare che la Polizia italiana, o, ancora meglio, le forze dell’ordine, fino alla metà degli anni Settanta avevano, fondamentalmente, una cultura organizzativa e gestionale interessata al controllo dell’ordine pubblico. È anche per questo che Polizia e Carabinieri troveranno notevoli difficoltà a contrastare il fenomeno ampio e variegato del terrorismo e della lotta armata.

A questo si aggiunga che proprio nello stesso periodo nella Polizia di Stato era in atto il processo di sindacalizzazione che porterà nel 1981 alla sua riforma, passando da un’organizzazione di tipo militare a una civile. Un processo voluto dai partiti di sinistra e da una componente della Democrazia Cristiana, molto contrastato dall’ala più conservatrice della stessa Dc e dai partiti centristi e di destra, oltre che dall’alta dirigenza dell’amministrazione che fa riferimento al ministero degli Interni.

Cioè, anche nella stessa Polizia prende piede, in quel periodo, un’idea riformatrice che si scontra con la parte più reazionaria del Paese. Significava riconoscere un ruolo a quegli uomini che andava oltre la semplice rapporto comando/ubbidienza; significava riconoscere diritti fino a quel momento negati, dare la possibilità di rivendicare condizioni migliori sul piano economico, normativo e di relazione con la cittadinanza. Uscire dalla logica del questurino e del celerino, come erano etichettati i poliziotti, e interagire con gli altri lavoratori e i cittadini, con i quali, spesso, c’erano diffidenza e distacco.

Ricordiamo che in quegli anni, la quasi totalità di chi s’arruolava nelle Forze dell’Ordine veniva dal Sud, aveva trovato nella divisa l’alternativa all’emigrazione, al lavoro nero; non era semplice relazionarsi con i milanesi o i torinesi, per fare un esempio. La formazione degli agenti era pressoché assente, la strumentistica datata, e così la scarsità di mezzi. Essere un agente della Digos in quegli anni voleva dire vivere intensamente tutto ciò, avere tutti i due piedi calati nell’aspro scontro sociale presente nel Paese e nel conflitto “politico” all’interno del Corpo di Polizia».

anni di piombo

Quale motivazione l’ha spinta ad arruolarsi in un momento storico come quello degli Anni di Piombo? Lo ha voluto o glielo hanno chiesto?

«Io vengo da Trento, una provincia che ha vissuto poco il conflitto sociale in atto nel Paese. Frequentavo il liceo e fino al rapimento Moro non avevo speso molto tempo a riflettere su quanto stava avvenendo. Fu l’omicidio di due ragazzi a Milano, Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, noti come Fausto e Iaio, che mi scatenò qualcosa dentro.

Vidi le loro foto sui giornali, e da quel momento decisi di schierarmi: scelsi lo Stato. Finito il corso allievi e dopo qualche mese a Torino, fui inviato al corso di Polizia Giudiziaria e Investigativa e alla fine mi trovai a scegliere fra Squadra Mobile e Digos».

Da dove nasce la vogli di raccontare e di raccontarsi?

«È stato scritto molto sugli anni di piombo, e, talvolta, anche malamente; penso soprattutto alla vicenda Moro, spesso abusata in dietrologie e teorie complottiste che offendono la nostra stessa Storia e quella delle vittime. Eppure, in questo “tanto” c’è molto poco che riguardi chi ha combattuto in prima linea il terrorismo e la lotta armata.

Tutti ci ricordiamo Aldo Moro, per l’appunto, ma sfido a ricordarsi i nomi degli uomini della sua scorta uccisi in via Fani. Voglio dire, in questi quarant’anni che ci separano da allora, si è sintetizzata la storia degli anni di piombo nell’affaire Moro, obliando il fatto che vi sono stati quattrocento morti, duemila feriti, seimila condanne, solo per citare qualche dato.

Ecco, io ho voluto dare voce a chi non l’ha avuta, raccontare chi non viene mai raccontato: giovani uomini, silenziosi, semplici servitori dello Stato, alcuni dei quali hanno sacrificato il bene più prezioso che avevano. Un debito di riconoscenza che mi sentivo di assolvere».

Alcuni terroristi di quegli anni, come Sergio Segio, prospero gallinari o Anna Laura braghetti, hanno scritto la loro biografia e hanno raccontato le loro storie. Molto meno viene raccontato su chi ha invece difeso lo stato, colori i quali contarono il numero più alto di vittime.

«Credo che raccontare di sé con obiettività sia un esercizio davvero difficile, o perlomeno, lo è per me. Non si agisce quasi mai da soli, non viviamo isolati gli uni dagli altri. Le nostre azioni sono mediate, condizionate dall’agire altrui, dalle situazioni, dagli eventi estemporanei o inaspettati: come puoi pensare che sia tutto frutto delle tue scelte?

Qualcuno di loro ha agito dentro un idealismo esasperato, una sorta di purezza assoluta nel reclamare giustizia sociale e diritti. Altri hanno semplicemente seguito il flusso, il fascino della ribellione, il sentirsi qualcuno o il semplice nichilismo verso tutto e tutti. Come lo riporti dentro un’autobiografia che, se la scrivi, poi la diffondi? Personalmente ho preferito distanziarmene, uscire dalla logica dell’io ho fatto, io ho detto, e proporre un racconto che aiuti a comprendere senza offrire scusanti, giustificazioni o, peggio, incolpare altri.

Credo, invero, sia più importante offrire spunti di riflessione e di pensiero critico su un periodo così drammatico della nostra recente storia ma fuori dalla freddezza del rigore saggistico e dall’autobiografia, spesso tendente all’autocompiacimento e all’autoassoluzione. A questo si aggiunge un tema che mi sta molto a cuore: la fascinazione del male, o ancora meglio, del male abbinato a una motivazione sociale, riconoscibile. Sopravvive ancora molto forte l’idea romantica del criminale, descritto spesso come detentore di una sensibilità particolare alle ingiustizie del mondo. E non riguarda solo il terrorista, genericamente detto, lo è anche per il criminale, il ladro, gentiluomo o abile, il bel rapinatore, i balordi di quartiere che si trasformano nei nuovi re di Roma e via dicendo. E come sono belli, prestanti, anche simpatici quando li vediamo nei film.

Chi non ricorda gli interpreti di Romanzo criminale, Scamarcio nei panni del leader di Prima Linea, Kim Rossi Stuart in quelli di Vallanzasca. Le vittime, invece, vengono relegate ai margini delle storie, perché noiose, tristi, pieni di problemi personali, di impegni famigliari, ci ricordano troppo la nostra quotidianità: vuoi mettere con un brigatista clandestino, bello, single, con qualche macchia ma senza paura?».

A proposito di brigatisti, Nelle sue presentazioni l’accompagna Marco Ognissanti, un ex brigatista. Curiosa come cosa!

«Sono le contraddizioni della Storia. Due nemici che diventano amici, come in un vecchio film con Alberto Sordi e David Niven. Scherzi a parte, ho conosciuto Marco quando tutti e due eravamo fuori dai nostri ruoli di allora. Eravamo due “ex” che si sono incontrati per caso, un’amicizia in comune all’insaputa uno dell’altro, e che una volta trovati hanno iniziato a raccontarsi trovando in ciascuno differenze e somiglianze.

Ci fossimo davvero incrociati allora probabilmente ci saremo sparati addosso, fortuna vuole che questo non sia avvenuto e ora, invece che spararci, parliamo, ci confrontiamo. La differenza fra noi è ovvia, io ero dalla parte dello Stato, lui da quella che ha provato ad abbatterlo, ma sono davvero tanti gli aspetti che ci mettono in relazione: abbiamo la stessa età, abbiamo vissuto quel periodo nella stessa città, Milano, entrambi abbiamo scelto secondo ciò che ci pareva giusto, abbiamo confidato di poter cambiare in meglio il nostro Paese. Infine, e non è poco, abbiamo ereditato da quella storia un medesimo senso di sconfitta: non è questa l’Italia che volevamo.

Ora presentiamo assieme il mio libro: siamo stati a Bologna, Trento, Milano, Torino, abbiamo altre presentazioni in calendario, Pavia, Milano di nuovo, Venezia e altre ancora, eppure in ognuna interagiamo come fosse la prima, perché scopriamo ogni volta cose diverse di noi, della nostra storia personale, di ciò che, appunto, ci divide e ci accomuna. È indubbio che Marco richiama curiosità, è un ex cattivo, e come si sa, il cattivo attira, nella letteratura come nel cinema, ma ciò che riceviamo da chi assiste al nostro confronto è la consapevolezza che le nostre storie personali, ben poca cosa di fronte alla tragedia degli anni di piombo, sono uno scampolo di quella che chiamiamo memoria storica.

Non tanto in quanto “conoscenza” della storia, la verità storica è un’altra cosa rispetto al ricordo individuale di ciascuno di noi, ma in quanto vissuto, una condizione che sul piano dell’esperienza, anche emotiva, può essere stimolo di una riflessione più ampia. Ecco perché preferiamo, e il libro ne è testimonianza, raccontare di giovani che hanno scelto percorsi diversi, particolari, comunicare i nostri sentimenti di allora, la paura, la rabbia, la violenza provata e data, il bisogno di amore, piuttosto che entrare nel merito di singoli fatti specifici. Non vogliamo essere portatori di verità, semmai di emozioni».

Francesco Marchi (a destra) e Marco Ognissanti (a sinistra). Foto per gentile concessione dell’intervistato.

Emozioni che a distanza di decenni riemergono ancora vive e nitide. Il tempo aiuta a raccontare la propria esperienza, a prescindere dallo “schieramento” che si scelse?

«Ciascuno di noi porta con sé i fardelli della propria vita, della propria esperienza, e alcuni di questi sono pieni di dolore. Marco Ognissanti ha perso due compagni con i quali ha condiviso la scelta di entrare in una organizzazione armata clandestina, Walter Alasia e Maurizio Biscaro.

Io ho pianto quattro miei colleghi con i quali ho condiviso, per intenderci, notti insonni e sigarette. Il libro è dedicato a loro, sono Carlo Buonantuono e Vincenzo Tumminello, uccisi dai Nuclei Armati Rivoluzionari, Eleno Viscardi, ucciso da esponenti di Prima Linea, e Giuseppe Baccaro, ucciso da dei rapinatori».

Come era possibile mantenere il proprio lato umano in uno scenario di violenza politica come quella degli anni Settanta?

«Un giorno ho assistito, via rete, a un incontro fra due scrittori piuttosto noti. Ciascuno di loro ha scritto, negli ultimi mesi, un libro sugli anni di piombo: un periodo che, per via della loro età, non hanno vissuto. Una delle domande che si sono posti è stata: “Com’è possibile andare a letto la sera e la mattina dopo alzarsi e ammazzare qualcuno?” Ecco, loro non hanno saputo dare una risposta. Per loro è incomprensibile, come lo è a tutti gli effetti. Ma per chi stava con tutti e due i piedi in quel clima e lo respirava giorno e notte, la questione è mal posta.

In quella stagione la violenza era una forma di confronto e, spesso, di “dialettica” politica e sociale. Lo era sul piano istintivo e collettivo, stava dentro l’idea di cambiamento radicale di un modello di società come stava dentro il modello di società capitalista che ci governava. Ogni singolo diritto, ogni singola esigenza era richiamata ed evidenziata con atti visibili, espliciti e quindi, anche con lo strumento della violenza. Capire quegli anni significa spogliarsi dell’oggi, di come oggi si parla, di come ci si veste e di come si mangia, di come ci si relaziona a scuola, nel mondo del lavoro, nella famiglia. Le ragioni dell’odio risiedevano nell’idea che un altro modo di vivere fosse possibile, che davvero, per alcuni, si fosse a un passo dalla rivoluzione, e la risposta del Sistema e dello Stato fu altrettanto violenta.

Alle richieste di riforma si rispose con i morti nelle strade, nelle piazze. Come sparava il manifestante, così sparava la Polizia: il brigadiere Antonio Custra e Francesco Lorusso, per fare solo due esempi, ce lo dimostrano. Eppure respirare violenza non significa abbandonarsi alla violenza: c’è chi ha torturato degli arrestati e c’è chi non ha torto un capello al peggior brigatista, c’è chi ha calpestato il giuramento sulla Costituzione e chi ha cercato, magari con fatica, di averla come faro nel suo cammino. Eravamo sbirri, facevamo un lavoro particolare, se vogliamo, ma eravamo anche giovani uomini, accomunati dagli stessi desideri, speranze e inquietudini che vivevano i giovani di allora.

Voglio anche aggiungere che è pur vero che parliamo di un mondo lontano, anni luce verrebbe da dire, ma se ci pensiamo un attimo, quel mondo pieno di violenza ci ha dato le migliori riforme sociali e civili che abbiamo ancora oggi. Non voglio con questo dire che le riforme arrivano se c’è violenza: intendo dire che gli anni Settanta sono stati davvero tutto e il contrario di tutto. Chiuderli dentro uno spazio di sola violenza è una falsità.

Ad ogni modo, credo che anche l’attuale società sia profondamente violenta, quasi brutale. Se la violenza di allora si manifestava in modo evidente, tangibile, oggi è più subdola, vive nell’omologazione del linguaggio, nell’appiattimento culturale, nella ricerca spasmodica di nemici per nascondere l’incapacità di dare risposte concrete ai problemi, nella precarietà lavorativa e sociale, nelle relazioni e nelle forme di connessione che impongono determinati contenuti e meccanismi e che non solo invadono la nostra vita, ma la mettono a confronto con modelli spesso inesistenti, finti, creati dagli interessi del mercato.

Così si manipolano intere generazioni, si uniformano le loro vite in un unico slogan: esisti se sei connesso, se appari. Poi, quando ci voltiamo indietro scopriamo di essere soli. Credo che queste siano forme altrettanto terribili di violenza».

Riprendendo una domanda retorica che lo stesso protagonista del libro si pone: cosa c’è di politico ad ammazzare un uomo solo perché la pensa diversamente?

«Non c’è nulla di politico, c’è solo follia: quella che confonde l’essere umano con il ruolo che esercita. Una delle cose più drammatiche e spaventose di quegli anni è il non aver considerato che dietro quel “simbolo” da colpire, da eliminare, c’erano affetti, figli, mogli, vite da vivere.

Cos’è cambiato dopo l’uccisione di Moro? La Democrazia Cristiana ha governato per altri quattordici anni. Non è caduta per le azioni delle Brigate Rosse: anzi, grazie a loro si rafforzò la sua ala più reazionaria».

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Voi difendevate lo stato, eravate lo Stato, mentre qualcuno asseriva che le stragi fossero “di Stato”.

«Che significa “strage di Stato”? Il termine venne usato per la prima volta come titolo di un libro scritto da alcuni esponenti della cosiddetta sinistra extraparlamentare sulla vicenda di piazza Fontana. Una sorta di risposta all’inchiesta ufficiale che cercava i colpevoli della strage fra gli anarchici invece che tra i fascisti. Poi si divulgò, proprio perché la strage era fascista, e perché cadeva dentro quel groviglio di relazioni, contraddizioni e meccanismi che mettevano in relazione gli ambienti neofascisti e apparati dello Stato creati in funzione anticomunista.

Da qui il gioco di incolpare genericamente lo Stato diventa cosa facile in un Paese che, fin dalla sua nascita, non ha mai avuto un rapporto sereno fra istituzioni e cittadini. Basti pensare al rapporto con il pubblico impiegato, con chi lavora a nome dello Stato: che idea abbiamo di lui? Uno slogan di quel genere non poteva che fare presa e i danni che ha prodotto quel modo di semplificare le cose li possiamo vedere ancora oggi. Non si è pensato al fatto che esisteva uno Stato che invece combatteva le stragi, che tentava faticosamente di resistere a una vera e propria tempesta politica e sociale.

Sull’onda di quello slogan se ne generò a breve un altro, “Né con le Br, né con lo Stato”, condiviso anche questo da moltitudini di intellettuali, alcuni oggi molto noti e che vediamo spesso in televisione a dirci come dobbiamo essere e cosa dobbiamo pensare. Io, come altri, avevo fatto una scelta: ero con lo Stato, e non perché amato o ritenuto del tutto innocente, ma perché figlio di una Costituzione sulla quale avevo giurato».

E voi vi sentivate difesi dallo stato?

«Ammetto che in talune occasioni ci siamo sentiti abbandonati, e non solo dallo Stato, dalla stessa amministrazione: accadde in occasione della morte di colleghi, in occasione delle stragi, a Bologna in particolare, e nella scarsità di strumenti e mezzi per combattere con efficacia i nostri avversari.

Ma la mia, la nostra, era un’accusa generica, un linguaggio che non richiamava un’entità astratta come lo Stato, per l’appunto, ma aveva nome e cognome preciso: si chiamava governo, Democrazia Cristiana, Capo della Polizia o ministro».

Un giovanissimo Francesco Marchi. Foto per gentile concessione dell’intervistato.

Oggi lei vede un pericolo, un clima sociale, in qualche modo simile a quello che ha vissuto da poliziotto a Milano?

«No, non c’è quel pericolo. Non per lo meno in quelle forme e dinamiche. Manca un elemento di base, l’ideologia, l’appiglio che aggregava, che dava un senso all’impegno politico, che andava oltre al sogno, dava modo d’intravvedere un mondo diverso, quanto poi valido non era dato saperlo.

Oggi non esiste nulla di tutto ciò: ha vinto il capitalismo e non ha fatto prigionieri. Siamo dentro un sistema iperindividualista, non lascia spazi di riflessione, non accetta mediazioni: la vicenda Covid-19 e il crollo della partecipazione al voto lo dimostrano, stiamo diventando una società più che liquida, anarcoide. E ciò fa molto piacere a chi detiene il potere».

Chi ha vinto davvero la guerra?

«Questa mi è facile, drammaticamente ha vinto la “Milano da bere“, quella che ci ha portato dritti prima a Tangentopoli e poi all’Italia di oggi che mette a rischio i diritti sociali e civili conquistati con dolore e fatica in quegli anni drammatici e, contemporaneamente, straordinari».

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