A metà dicembre il gigante russo Rosneft ha formalizzato l’acquisto del 30% della concessione Shoroukh da Eni, nella quale si trova anche il megagiacimento di Zohr, scoperto nell’estate 2015 dalla stessa società di San Donato e collocato di fronte alle coste egiziane. L’ammontare della transazione è pari a 1.125 miliardi di dollari, a cui si aggiungono 450 milioni di rimborso per gli investimenti già sostenuti. Questa acquisizione si aggiunge a quella di fine novembre operata da British Petroleum, che ha preso il 10% della concessione. In entrambi i casi si sommano anche le opzioni aggiuntive sul 5%, quindi lo scenario che si delinea è una presenza di Eni come operatore al 50% accompagnata da inglesi e russi rispettivamente al 15% e al 35%.
L’amministratore delegato del gruppo, Claudio Descalzi, ha presentato l’operazione come un successo e l’ha posta in un contesto strategico più ampio di dual exploration model, ovvero la cessione di quote in giacimenti con una quantità di riserve sicure per anticipare i guadagni sul giacimento stesso che vengono reinvestiti nell’esplorazione di altri giacimenti. Eni sta seguendo il medesimo modus operandi anche in Mozambico, nel contesto del bacino di estrazione di Rovuma, posto di fronte alla foce del fiume Zambesi e alle coste del Mozambico, dove Eni sta estraendo in un giacimento con quote cinesi. Eni sta perseguendo questa strategia da oltre quattro anni, con incassi complessivi pari a 6,3 miliardi di dollari.
Tornando all’operazione Eni, tale mossa apre nuovi orizzonti all’impegno russo nel Mediterraneo, non solo a livello militare – con le due basi siriane di Tartus e Laodicea e la forte presenza navale come mezzo di pressione – ma anche a livello economico. L’acquisizione implica anche un ulteriore riavvicinamento diplomatico tra Mosca e il Cairo, favorito anche dal fatto di trovarsi dallo stesso lato nel conflitto libico: sebbene la partecipazione russa al momento sia alquanto limitata, non è completamente da scartare l’idea che con un eventuale alleggerimento della situazione siriana i russi possano cominciare a pensare a un impegno sul fronte libico in cooperazione con le forze egiziane a supporto del governo di Tobruk, guidato dal generale Haftar e contrapposto al governo di Tripoli guidato da Al Sarraj che ha ricevuto l’investitura della comunità internazionale. A novembre Haftar ha incontrato i ministri russi Lavrov e Shoigu (rispettivamente titolari dei dicasteri di esteri e difesa) per poter ottenere un aiuto in quello che ormai è diventato un conflitto aperto contro il governo di Al Sarraj. Il tutto grazie ad una manovra dell’Ente Nazionale Idrocarburi.
Nella storia dell’Italia repubblicana l’Eni, più di altri colossi dell’industria italiana (basti pensare a Finmeccanica), è stata in grado di condizionarsi reciprocamente con la Farnesina conducendo la politica estera del paese a scelte talvolta azzardate come quella del sostegno alla causa palestinese dei governi di Craxi o Andreotti. Dal dopoguerra in poi la politica estera europea si è articolata su un duplice asse: quello europeo – con il ruolo fondamentale del nostro paese nel processo di integrazione europea – e quello mediterraneo, fatto di cooperazione allo sviluppo verso i paesi della sponda sud ma anche di interferenze nella politica estera degli altri paesi, come avvenne nei rapporti con Gheddafi. Essendo l’Italia un paese che importa buona parte dell’energia che consuma, tuttavia, non poteva essere altrimenti, realizzando una struttura in cui il governo era la mente e l’Eni era il braccio.
Tale impostazione politica ha spesso portato il paese in rotta di collisione con gli Stati Uniti, basti pensare alla recente posizione diplomatica italiana nei confronti della Russia nel caso ucraino: dal lato europeo costretto a condannare l’azione russa di espansione nella regione del Donbass, dall’altro lato forzata a mantenere rapporti distesi proprio a causa della dipendenza energetica. Altro versante in cui Stati Uniti e Italia hanno avuto scontri è stato quello del Golfo Persico: un cablo del 2008 rivelato da Wikileaks mostra come Scaroni, allora amministratore delegato del cane a sei zampe, si sia rifiutato di dismettere gli oltre tre miliardi di dollari investiti in Iran, provocando le ire dell’allora sottosegretario di stato statunitense per gli affari economici, Reuben Jeffery, il quale criticava il comportamento di Eni in quanto rendeva più ardue le pressioni della comunità internazionale su Teheran affinché cessasse il proprio programma nucleare.
Sul tema relativo all’energia e alla politica estera è impossibile non parlare anche di gasdotti: Gazprom ed Eni si erano accordate nel 2008 per la costituzione di un consorzio del quale più tardi entrarono a far parte anche EDF (Electricité De France) e Wintershall (attore tedesco di grande importanza nel campo energetico) e che era rivolto alla costruzione di un gasdotto che connettesse direttamente Russia ed Unione Europea. Il progetto prese il nome di “South Stream” e rimase un progetto concreto fino all’invasione del Donbass da parte russa nel 2014, al quale seguirono le sanzioni economiche verso Mosca e la rottura delle relazioni costituenti il consorzio. Nel 2008, tuttavia, l’ambasciatore statunitense a Roma Spogli parlava di Eni come della punta di lancia di Gazprom per l’ingresso in Europa e ne invocava un cambio di leadership.
Il progetto South Stream rivaleggiava infatti con Nabucco, il gasdotto il cui progetto fu supportato da Washington e Bruxelles: quest’ultima, in particolare, lo appoggiava in quanto avrebbe diversificato notevolmente i fornitori di gas del continente, andando a pescare dal giacimento azero di Shah Deniz. La diversificazione avrebbe consentito una maggiore sicurezza dell’energia (volgarmente, se i russi chiudono i rubinetti l’Europa non rischia di rimanere senza energia) e anche una maggior competizione sul mercato con un conseguente abbassamento dei prezzi. Anche qui l’Italia (e solo parzialmente attraverso Eni) è riuscita a mettere il proverbiale “piede nella porta”: se parte del futuro del Nabucco si reggeva sulla possibilità di trovare un giacimento disposto ad immettervi il proprio gas per trasportarlo verso i mercati europei, dopo l’assegnazione nel giugno 2013 del gas di Shah Deniz al consorzio TAP (Trans Adriatic Pipeline), il futuro di Nabucco è in pericolo dato che il gasdotto rischia di non vedere mai la luce.
TAP è un progetto appoggiato principalmente dall’Unione Europea e che riguarda la parte conclusiva del cosiddetto “corridoio meridionale” che, insieme alla parte iniziale, ovvero il TANAP (Trans-Anatolic Pipeline, il gasdotto che taglierà in due la Turchia dall’Azerbaigian ai Balcani), dovrebbe creare una linea di approvvigionamento sicura dal Caucaso meridionale fino ai mercati di consumo. Nel consorzio che appoggia il TAP è presente Snam (società ex controllata di Eni) che ne è entrata a far parte dopo l’acquisizione nel 2012 di alcune quote della norvegese Statoil.
Altra porzione dell’asse meridionale sul quale si è poggiata la politica estera italiana del dopoguerra è l’Africa subsahariana, contesto nel quale più di ogni altro l’attività dell’Eni ha mostrato luci ed ombre. Attraverso tale società l’Italia ha svolto attività di cooperazione allo sviluppo, seguendo l’approccio del “padre” dell’azienda Enrico Mattei, il quale agli investimenti sul petrolio riteneva importante accompagnare un investimento sulle comunità locali. È il caso della Nigeria, dove il cane a sei zampe ha creato un programma di sostegno agli agricoltori accompagnato dalla loro formazione professionale, in Mozambico ha creato programmi a sostegno della purificazione delle acque mentre in Congo sta sostenendo progetti di miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti del distretto di Hinda tra cui compaiono la costruzione di scuole e il sostegno agli agricoltori.
Oltre alle luci, tuttavia, esistono ombre piuttosto consistenti: nel recente passato gli impianti Eni sono stati nel mirino della guerriglia in Nigeria con l’accusa di portare solo corruzione, inquinamento e degrado, mentre ancor più recentemente l’ex amministratore delegato Scaroni è stato prosciolto dall’accusa di corruzione in Algeria, sebbene sia ancora sotto processo in Italia dopo l’annullamento della sentenza da parte della Cassazione a febbraio del 2016. Sembrano invece confermate accuse dello stesso tipo ed entità in Nigeria, dove la Tullow (società inglese rivale di Eni) ha additato il colosso italiano nello scandalo relativo alle tangenti per l’assegnazione di alcune concessioni nel delta del Niger e in Uganda. Forse in questi contesti sociali e geografici più che in altri emerge prepotentemente come l’attività dell’Eni sia in grado di condizionare, nel bene e nel male, la diplomazia e il soft power che l’Italia esercita all’estero.
Tali circostanze ci riconducono quindi all’attività svolta da Eni in Nord Africa e alla vendita di alcune quote del giacimento di Zohr a Rosneft: l’ipotesi che il governo Renzi (in carica mentre avvenivano le trattative) non sapesse nulla è da derubricare a mera ingenuità. Il fatto che uno scambio di questo tipo non abbia subito reprimende o interferenze a livello governativo è anche segno della volontà del governo dell’epoca (che, presumibilmente, troverà continuità in quello di adesso) di riallacciare i rapporti con la Russia dopo le sanzioni del 2014 e gli attriti dovuti all’intervento in Siria. A testimonianza della continuità d’intenti tra governo Renzi e Gentiloni in tal senso ci sono le dichiarazioni del neoministro degli Esteri Angelino Alfano che ha dichiarato di voler coinvolgere Mosca nelle attività antiterrorismo insieme ai restanti paesi europei.
Tali legami, tuttavia, hanno provocato una serie di preoccupazioni in ambito NATO e nell’Unione Europea per il riavvicinamento alla zona mediterranea e al Nord Africa di Mosca che, come detto, potrebbe presto portare le forze russe in Libia al fianco di quelle egiziane a sostegno di Haftar. Se Eni e l’Italia abbiano fatto bene a concedere tale apertura lo dirà il tempo e la misura in cui la Russia si muova secondo mere logiche di interesse nazionale o di vera e propria espansione della propria influenza.