Lo scorso 4 dicembre ha portato con sé un notevole cambiamento nello scenario italiano. O forse è meglio dire un non-cambiamento. Con la vittoria del No al referendum, gli italiani hanno decretato che non ci fosse la necessità di modificare la Costituzione. Ma è andata davvero così? Facciamo qualche passo indietro.
Se mia nonna facesse la media ponderata sarebbe il Commodore 64
Quando si parla di voto si intende il processo finale, la ‘X’ sul foglietto. Ma c’è molto altro prima: a cominciare dalla scelta di voto. Ognuno di noi potrebbe affermare, anche con sincera sicurezza, che la scelta di voto è il frutto di un’attenta e precisa somma – o sottrazione – di elementi ben soppesati all’interno di entrambi gli schieramenti. Perciò ogni italiano si sarebbe recato alle urne con in testa un risultato, ben motivato da un processo del tutto logico. La scelta di voto sarebbe quindi una sorta di media ponderata.
Questa ipotesi porta con sé un problema. Se questo fosse vero, allora tutti noi saremmo in grado di percepire la realtà oggettivamente, di carpire, sempre oggettivamente, tutti gli elementi delle argomentazioni pro e contro, e di giudicare in maniera razionale e matematica la scelta di voto più giusta. Questo porterebbe anche a votare tutti la stessa cosa. Ma, evidentemente, non è così che è andata. «Certo» inveirà il lettore, «perché la scelta di voto è ciò che è importante per me». Sacrosanta verità, mio caro lettore, ma se è giusta per te allora non è più oggettiva: è qualcosa di più complesso.
Ho visto sondaggisti da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione
Una volta compreso che il processo non è oggettivo e matematico, diventa possibile analizzarlo su due livelli. Il primo è il livello individuale. Ogni italiano ha le proprie credenze di base, e si farà più o meno influenzare da questa o quella corrente politica, o – più facilmente – dagli amici e dai parenti, o ancora in base al proprio gruppo di appartenenza. Lo stesso italiano andrà poi a cercare le informazioni più in linea con le proprie credenze di base e si formerà le proprie impressioni. Ma non è ancora abbastanza. Vi è un secondo livello che non bisogna mai dimenticare. Esso è presente in ogni scelta che facciamo: da quella del partner a quella dello shampoo antiforfora. È il livello sociale, e in questo livello ci siamo dentro tutti, che lo si voglia o meno. Ed è anche qui che la scelta di voto può essere influenzata, o in certi casi addirittura nascere.
Prima di entrare nel dettaglio è utile fare una precisazione. Un passo prima della scelta di voto c’è l’intenzione di voto. L’intenzione di voto è quella cosa magica e inconsistente che i sondaggisti cercano di catturare per sfornare una proiezione futuristica del voto finale. È importante sapere che, tra l’intenzione di voto e il voto effettivo, può esserci materialmente lo spazio di una cruna di un ago come pure la distanza tra la Terra e la fine dell’Universo. Questo perché, se la propria intenzione di voto non è ben radicata e solida, le persone possono svegliarsi la mattina del giorno del referendum e decidere di votare in base al colore della scheda, al proprio umore, al commento sentito al bar o per qualsiasi altro motivo.
Una volta entrati nel livello sociale, diventa possibile ipotizzare cosa può aver contribuito alla scelta di voto degli italiani. Quella che seguirà sarà un’analisi del fenomeno attraverso le teorie della letteratura socio-psicologica: un’analisi condotta senza alcun riferimento politico, ma solo e unicamente facendo riferimento alla possibile percezione sociale del cambiamento.
Chi di élite ferisce, di élite perisce
Una prima spiegazione al perché il popolo italiano abbia scelto di votare No potrebbe derivare dalla percezione di una classe elitaria in cima alla piramide sociale. La teoria in questione è la Teoria dell’elitismo, che considera la gerarchia sociale costituita al suo vertice da un gruppo ristretto di individui particolarmente competenti. Gli autori della teoria, Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca, scindono la società in due: una parte composta da persone capaci e di successo, che scalano la piramide sociale e la governano, e una parte che invece quelle competenze non le ha e dunque sta a guardare. In questo senso si crea una dicotomia superiore/inferiore. La teoria prevede che l’élite confermi se stessa. In altre parole, essa ha il potere di scegliere altri membri a sua immagine e somiglianza. Ciò permette al gruppo elitario di rimanere stabile nel tempo. In questo modo chi è giudicato competente scala la piramide sociale, mentre chi è “idiota” (definizione di Pareto) rimane tra gli idioti. Ma ovviamente, agli idioti, questo sistema non sta bene. Così, quando si comprende che non si può essere parte dell’élite, si crea una contro-élite (o non-élite). Questo nuovo conglomerato, a differenza di quanto si potrebbe pensare, non ha lo scopo di distruggere il sistema gerarchico, ma unicamente quello di spodestare l’élite corrente. Secondo gli autori, quindi, si andrebbe direttamente al conflitto sociale, il cui scopo non è l’annullamento, ma la semplice sostituzione.
Questa visione si ritrova molto nell’opinione pubblica, e la distinzione netta di potere potrebbe essere stata applicata e tradotta nel voto del referendum. Perciò, in questo senso, il No sarebbe il voto di protesta. Per l’italiano che ha percepito la netta divisione, e che sa di non poter appartenere alla classe elitaria, appoggiarsi al No e a tutti i partiti di contro-élite è stato fondamentale. Quello che a un primo sguardo può sembrare ingenuo e “da idiota” può essere visto, invece, come un tentativo di migliorare la posizione del proprio gruppo sociale. Se si percepisce molto la distanza tra chi ha il potere e chi no, tra chi è superiore e chi è inferiore (e i mass media non aiutano), l’identificazione con la propria categoria di appartenenza risulta ancora più forte. E se a questo si aggiunge la percezione che il proprio gruppo ha anche poche chance di rivalsa, l’unico modo di far arrivare all’élite la propria protesta diventa proprio quello di votare No.
Non è bello il sistema che è bello, ma è bello il sistema che piace
Un altro approccio vede la scelta del No in funzione di preservazione del sistema. Questa prospettiva deriva dalla Teoria della giustificazione del sistema (o System justification theory) di John Jost, Mahzarin Banaji e Brian Nosek, rispettivamente ricercatori alla New York University, alla Harvard University e alla University of Virginia. In breve, questa teoria postula l’esistenza di processi sociali attraverso cui l’organizzazione sociale esistente viene legittimata anche a spese di interessi personali e di gruppo. In altre parole, gli individui sarebbero disposti a difendere lo status quo anche se si trovano in situazioni svantaggiate. Perciò, secondo gli autori, non sarebbe solo il gruppo dominante a difendere lo status quo (da cui trae ogni beneficio) ma anche tutti i gruppi svantaggiati che il sistema, in qualche modo, lo subiscono. Nel contesto italiano, dunque, si sarebbe scelto di votare No per mantenere il sistema così com’è. Ma perché difendere un sistema che mette in difficoltà?
Secondo gli autori, un motivo è che difendere il sistema rende il mondo sociale prevedibile. Mantenendo lo status quo, gli individui mantengono la loro visione del mondo e il modo con cui si danno una spiegazione delle cose. Se il sistema cambiasse bisognerebbe rivalutare ciò che si pensa e come ci si comporta, e questo sarebbe troppo dispendioso. Di conseguenza si preferisce mantenere il livello gerarchico stabile: è il prezzo da pagare pur di sapere come comportarsi e con chi prendersela. Un altro motivo è la gestione della minaccia e della relativa incertezza. Abbandonando il percorso conosciuto si andrebbe verso un futuro sconosciuto, percepito come molto minaccioso. Paradossalmente, un futuro sconosciuto dovuto a un cambiamento del sistema risulterebbe molto più negativo rispetto al futuro del vecchio sistema già negativo.
A questo punto sorge una questione: allora anche i referendum precedenti avrebbero dovuto essere direzionati verso la giustificazione del sistema. La risposta è: dipende. Secondo gli autori, il livello di giustificazione del sistema dipende da alcuni fattori contestuali. Questi fattori, che non hanno nulla a che fare con la politica, possono, in qualche modo, comparire nel linguaggio della campagna referendaria. Nel dettaglio, il sostegno al sistema è facilitato in quattro casi: quando il sistema è percepito sotto minaccia (sia simbolica, come il valore religioso, sia fisica, come un attentato), quando gli individui sono dipendenti dal sistema (come per esempio i pensionati), quando lo status quo è percepito come immodificabile e inevitabile e quando il sistema culturale è di ideologia dominante e conservativa. Se pensate alla campagna politica, questi sono tutti fattori che sono stati usati a vantaggio di un ambiente ostile al cambiamento e favorevole a giustificare lo status quo.
Quand’ero piccolo tutti mi scherzavano per le dimensioni della mia incertezza
Un’ultima possibile spiegazione al perché gli italiani abbiano preferito il No è da ricercare nella percezione dell’incertezza. Secondo Tory Higgins, ricercatore alla Columbia University, si può percepire l’incertezza in maniera positiva o negativa. In entrambi i casi l’incertezza provoca una spinta motivazionale, direzionata in base alla percezione delle proprie risorse personali. Secondo la Teoria del focus regolatorio, chi percepirà le risorse personali come adeguate avrà un focus orientato verso la promozione, e quindi volto a percepire l’incertezza come qualcosa di positivo e controllabile, mentre chi percepirà le proprie risorse come inadeguate avrà un focus orientato alla prevenzione, e quindi volto a percepire l’incertezza come spiacevole. Incertezza che, in entrambi i casi, si riduce aumentando la conoscenza. Nel nostro caso, chi avrà la sensazione di avere le capacità di comprendere sarà motivato a esporsi per cercare informazioni, in quanto l’incertezza che percepisce è in qualche modo stimolante; chi sente di non avere la capacità di comprendere, invece, sarà motivato a difendere ciò che già sa, proprio perché l’incertezza che prova gli causa ansia e stress.
Lo scopo finale è quello di comprendere per ridurre l’incertezza, ma comprendere è molto dispendioso. Per fare un esempio più pratico, attivarsi ai fini della comprensione delle modifiche alla Costituzione risulta molto più semplice per chi si percepisce come capace di comprendere (si pensi a un laureato in giurisprudenza o a un appassionato di politica) rispetto a chi ha questa percezione al negativo (come il pensionato di turno o chi ha sempre pensato di non capire niente di politica). Agli occhi di questa teoria, quindi, il voto finale sarebbe l’espressione di una chiusura, sviluppata in risposta a un’incertezza negativa, frutto del convincimento di non poter comprendere attivamente il quesito totale o parti di esso. Questa visione non ha tanto lo scopo di dimostrare che la gente è fondamentalmente scema, quanto semmai, in maniera molto più semplice e diretta, che ci sono modi e maniere per adeguarsi alle conoscenze di tutti.
La risposta è: quarantadue
Il fine ultimo dell’utilizzo di queste teorie per interpretare il risultato del 4 dicembre è di suggerire uno spunto di riflessione su come sia riduttivo pensare di proporre un cambiamento sociale, qualsiasi esso sia, se prima non si è tenuto conto di come si percepiscono le differenze sociali e di che percezione si ha del sistema che guida le nostre vite e delle differenze di conoscenza. Senza tener conto di queste sfaccettature non si può definire con assoluta certezza se il No sia stato espressione del potere del popolo sovrano, se sia stato frutto di incomprensione o di partito preso, se sia stato per “mandare Renzi a casa”, o perché effettivamente il cambiamento sia stato valutato negativamente per ragioni oggettive. Come può il popolo votante percepire, o per lo meno provare a farlo in maniera più corretta possibile, se il cambiamento è positivo o negativo, quando a livello comunicativo non si hanno – o non si sanno riconoscere – strategie? La risposta è una: non può.