Che fine ha fatto il razzismo: il mostro abissale dormiente

Non è morto ciò che può giacere in eterno

Che fine ha fatto il razzismo? Una prima risposta che ingenuamente può saltare alla mente è che, con il superamento della seconda guerra mondiale e l’avvento di movimenti il cui centro ideologico è stato l’uguaglianza, il razzismo sia in qualche modo sparito. Ma non è così che è andata. Il razzismo ha incontrato sulla sua strada, in realtà, una serie di movimenti e pensieri che hanno in qualche modo ostruito e ridotto il suo potere. Romanzescamente parlando, lo possiamo immaginare come un mostro lovecraftiano. Un immenso dio oscuro e onnipotente, venerato da molti, il cui culto negli anni perde forza ed energia, fino a quando il mostro non cade in un lungo sonno, in attesa di risvegliarsi. Rimane nascosto negli abissi del creato, latente come una malattia che lentamente cova nel corpo di un umano ignaro. Il suo ricordo si smembra in tante piccole leggende mormorate nelle notti più buie.

Al di là dell’atmosfera dark di questa metafora, è proprio questo il riassunto di ciò che è il razzismo oggi: un ricordo di quella che è la sua espressione più esplicita. Il resto, il nucleo, è rimasto nascosto nella cultura e nella credenza di ognuno di noi, assumendo diverse forme. Essendo il razzismo una forma di pregiudizio, tutte le sue forme sono confluite sotto il grande cappello del pregiudizio latente.

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Il razzismo è rimasto nascosto, mai veramente estirpato (credt: shunvmall.com)

Chi di nazismo ferisce, di nazismo perisce

Con la fine della seconda guerra mondiale, la società ha sentito la necessità di spostare l’attenzione sul valore umano della libertà e dell’uguaglianza. Da quel momento in poi, le lotte per i diritti civili hanno sancito una sorta di sanzione sociale all’espressione del pregiudizio. Se, durante il nazismo, era consentito discriminare apertamente gli ebrei, o qualsiasi altro gruppo sociale i cui membri non avessero le caratteristiche del prototipo ariano, segregandoli e uccidendoli in quanto sub-umani, da quel momento in poi tutto ciò divenne proibito. Chiunque esprimesse esplicitamente i vecchi fasti di quell’epoca oscura subiva in qualche modo la stessa sorte degli oppressi. Si veniva considerati razzisti, ma questa volta con una connotazione negativa. Esprimere giudizi e opinioni a favore di una razza superiore era definito, oltre che obsoleto, socialmente sanzionabile (anche con la galera) in quanto moralmente sbagliato.

Ciò non ha portato i razzisti a cambiare la propria visione del mondo. Al contrario, la vergogna e la paura di esporre le proprie opinioni e credenze li ha portati a censurarsi, a modulare il linguaggio, a tentare di non apparire razzisti. A scomparire è stata solo la forma più esplicita del razzismo, ossia la sua esistenza verbale. Questo silenzio dell’opinione non ha toccato solo i razzisti più incalliti, ma la società tutta. È diventato culturalmente immorale giudicare negativamente qualcuno per la sua appartenenza etnica. Perché è di questo che stiamo parlando: pregiudizio etnico.

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Il razzismo non è morto, ma è rimasto nell’ombra (credit: blackgate.com)

Razzismo: nient’altro che chiacchiere e pregiudizio

Gordon Allport, pioniere della psicologia sociale, nel suo libro The nature of prejudice definisce il pregiudizio come «un atteggiamento di rifiuto o di ostilità verso una persona appartenente a un gruppo, semplicemente in quanto appartenente a quel gruppo». Rodney Clark, ricercatore della Wayne State University, analogamente definisce il razzismo come «un insieme di credenze, atteggiamenti, disposizioni istituzionali e comportamenti che tendono a denigrare individui o gruppi in base a caratteristiche fenotipiche o appartenenza a un’etnia». Le due definizioni sono pressoché identiche. Il motivo è che il razzismo è contenuto all’interno del pregiudizio stesso. Allport continua nella sua definizione evidenziando come «il pregiudizio sia sentito internamente o espresso». Ed è qui che il razzismo ha subito il cambiamento. La sua parte espressa è stata censurata, mentre la parte “sentita internamente” è rimasta. Quindi, una volta compreso che il razzismo in realtà è una forma di pregiudizio etnico latente, possiamo chiederci, nello specifico, che forme esso abbia assunto ai giorni nostri.

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Immigrati, la minaccia più pericolosa dopo le interviste di Barbara D’Urso (credit: abcdeuropa.com)

Pregiudizi fantastici e dove trovarli

Prima di addentrarci nell’impervio mondo delle diverse forme di pregiudizio etnico, è necessario comprendere quali altre forme di pregiudizio esistono e quali sono le loro caratteristiche. Allport parlava di una forma esplicita e di una implicita. La forma esplicita è quella che si esprime comunemente attraverso la comunicazione verbale. Una volta che la sua espressione è diventata sanzionabile, il pregiudizio è diventato latente. Attenzione, però, a non confondere latente con implicito. ‘Latente’ significa nascosto, diverso dal manifesto; ‘implicito’, invece, mette in evidenza un’altra caratteristica del pregiudizio, ossia il suo essere automatico e inconsapevole.

Come abbiamo visto dalla sua definizione generale, il pregiudizio è un atteggiamento che viene diretto verso un individuo in quanto membro di un gruppo specifico. Quindi avremo tanti pregiudizi quante sono le categorie sociali usate come bersaglio. Se è diretto verso una persona avente la pelle nera o gli occhi a mandorla, allora sarà pregiudizio etnico; se è diretto verso una donna, sarà pregiudizio di genere (o sessismo); se è diretto verso un omosessuale, sarà pregiudizio sessuale (o eterosessismo). Semplificando, si può dire che quello etnico è verso chi non è bianco, quello di genere verso chi non è uomo, quello sessuale verso chi non è eterosessuale. Da questa analisi risulta in maniera molto evidente come nella società e nella cultura si sia elevato a fonte della discriminazione il maschio bianco eterosessuale.

Il pregiudizio latente porta con sé quattro caratteristiche: l’automaticità, ovvero la capacità di attivarsi automaticamente alla presenza di un membro di un gruppo; la natura indiretta, ovvero il fatto di discriminare senza apparire pregiudizievoli, l’ambivalenza, per esempio tra ciò che si dice e ciò che si pensa; e l’ambiguità, ovvero quando si cela dietro diverse interpretazioni. In base a due di queste caratteristiche avremo due diversi tipi di pregiudizio etnico: il razzismo moderno e il razzismo riluttante.

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Tra abbronzati la censura non serve (credit: pictures.zimbio.com)

Il razzismo all’ultimo grido

Il razzismo moderno (o simbolico), contrariamente a quanto possa far pensare il nome, non ha a che fare con un movimento di persone che inneggiano all’amore ariano fotografandosi i risvoltini con i filtri di Instagram. Il razzista moderno, invece, discrimina indirettamente – e senza dichiararlo apertamente – per non apparire pregiudizievole, e il tutto senza essere consapevole di farlo. In realtà, non identifica nemmeno i propri pregiudizi con i principi del razzismo manifesto. Esprime tuttavia il razzismo, per esempio, attraverso la negazione dell’esistenza della discriminazione razziale nei giorni nostri, tramite l’opinione che gli immigrati dovrebbero impegnarsi di più o che non si meritano ciò che hanno, o ancora attraverso una forte difesa dei valori della tradizione. Quindi, persone che ritengono che la presenza dei crocifissi nelle scuole sia non solo indispensabile, ma anche un legame diretto con la tradizione, rientrano in questa manifestazione di razzismo. Non sono esenti dalla definizione nemmeno i sindaci di certi paesini di montagna, i quali dichiarano candidamente che «loro sono come noi» ma che «però devono essere controllati e, diciamocelo, sono pure troppi».

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Il razzismo si nasconde nella difesa dei valori tradizionali (credit: milano.repubblica.it)

Non trovo affatto interessante la mia parte intollerante

Il razzismo riluttante, invece, è proprio ciò che sembra. Il razzista riluttante aderisce – e li condivide esplicitamente – a principi di uguaglianza, e pensa a se stesso come a una persona senza pregiudizi. Inconsapevolmente, però, prova sentimenti e credenze negative nei confronti del gruppo discriminato. Si trova così a combattere tra un sincero sistema di valori fondati sull’uguaglianza e un insieme di credenze, invece, fondate sulla discriminazione, arrivando anche a rifiutare quella parte di sé. Questo tipo di razzismo, in quanto pregiudizio latente, si manifesta, in particolar modo, in comportamenti che possono essere letti e giustificati come non pregiudizievoli. Immaginate un razzista riluttante, a bordo della sua macchina, mentre ascolta Imagine di John Lennon. Improvvisamente si accorge di una macchina sulla banchina. Nel caso in cui dalla macchina uscisse un uomo di pelle nera il razzista riluttante deciderebbe di fermarsi: l’ultima cosa che vuole è apparire razzista a se stesso. Cosa succederebbe, invece, se uscisse dalla macchina un gruppo di uomini di pelle nera? Il razzista riluttante spingerebbe il piede sull’acceleratore, e si giustificherebbe con se stesso affermando che il suo aiuto non servirebbe, in quanto gli uomini in questione sono già in tanti.

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La candudatura di Cthulhu alle presidenziali americane (credit: brian.carnell.com)

Abbiamo tutti dei pregiudizi, ma se sei nero comincia a correre

Il punto focale da tenere presente è che il pregiudizio riguarda qualsiasi membro di qualsiasi gruppo sociale. In altre parole, nessuno è esente dal provarlo o esprimerlo. Joshua Correll, insieme ai colleghi della University of Colorado, ha ideato un videogame in grado di far emergere il carattere automatico e inconsapevole del pregiudizio etnico. Ai partecipanti all’esperimento venivano mostrate delle immagini di uomini armati o non armati; di questi, metà erano di pelle bianca e metà di pelle nera. Nelle istruzioni era richiesto di sparare, premendo un pulsante, soltanto ai target armati. Si potrebbe facilmente pensare che il pregiudizio si sia concretizzato in maggiori spari quando i partecipanti vedevano un nero armato, rispetto agli spari diretti a un bianco armato, ma non è del tutto così: il vero pregiudizio è nel numero di errori. Infatti, i risultati mostrarono un maggior numero di spari verso i neri disarmati rispetto a quelli diretti ai bianchi disarmati. L’associazione tra nero e pericolosità è così radicato nella mente e nella cultura, soprattutto in quella americana, che diventa banale capire la facilità con cui le forze dell’ordine (di nuovo, soprattutto americane) estraggono la pistola e fanno fuoco verso persone che, prima di avere la pelle nera, sono innocenti.

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Immigini del videogioco usato nel paradigma sperimentale di Correll e colleghi (credit: awesomejelly.com)

A spasso con la deumanizzazione

Per concludere, abbiamo visto come il razzismo non sia mai veramente scomparso e come, in realtà, sia una forma di pregiudizio etnico che si nasconde in ciò che si dice e si fa. Il razzismo ha però una peculiarità: considera la componente genetica. È proprio questa caratteristica che lo rende una forma estrema di pregiudizio. Il considerare la propria razza come superiore si fonda sulla genetica e sull’ereditarietà di alcune caratteristiche specifiche. Di conseguenza, chi non le ha è considerato al limite dell’umanità. Ma la sua forma più grave è la deumanizzazione, ovvero la negazione dell’umanità. Chi ne è privato viene considerato al pari di un oggetto o di un animale. Ogni comportamento violento nei confronti di un individuo deumanizzato viene giustificato in quanto quest’ultimo non è considerato come un essere dotato di emozioni complesse o di intenzionalità. Un esempio su tutti è il trattamento degli ebrei durante il nazismo. Ecco perché razzismo e deumanizzazione vanno spesso a braccetto.

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Un esempio classico di deumanizzazione nella storia (credit: cheesespin.net)

Il passo in avanti

La metafora del razzismo come mostro abissale pronto a risvegliarsi non è casuale. Per quanto sia considerato latente perché censurato, lo si può anche pensare come dormiente. Basti pensare alle manifestazioni di razzismo esplicito durante le partite di calcio, o alle molte affermazioni colorite dei simpatizzanti di Salvini. Il razzismo non è morto, ed è pronto a riaffiorare qualora il contesto lo permetta. Se nel tempo il pregiudizio si è solo trasformato, quindi, come si fa a sradicarlo del tutto? Le risposte, purtroppo, variano da situazione a situazione. Una risposta univoca però c’è; se sono molte le cose che si possono fare, una sicuramente è la cosa da non fare: reprimere il pregiudizio. Portare le persone ad autocensurarsi e a farle vergognare di ciò che dicono e pensano ha portato a quello che è il razzismo oggi, e il risultato non è certo definibile una soluzione al problema. Un aiuto è sicuramente l’essere motivati a conoscere. Comprendere i meccanismi sottostanti alla formazione delle impressioni porta a percepirli come naturali e imprescindibili; ma è solo con la motivazione a farsi un’idea più complessa e ricca della realtà che si può sperare di ridurre il pregiudizio e i suoi effetti più deleteri. E, in questo caso il lettore di questo articolo avrà sicuramente fatto un passo in avanti.

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