Libero arbitrio e neuroscienze: siamo burattini o falegnami?

In una società ossessionata dalle neuroscienze appare logico rivolgersi ad esse per svelare gli aspetti più reconditi dell’agire umano. Insomma: nel momento in cui l’imputato ha premuto il grilletto o stuprato qualcuno era davvero intenzionato a farlo? Riconosce di essere l’autore di quella determinata azione? Tuttavia, bisognerebbe innanzitutto fare un passo indietro e chiedersi se le neuroscienze sono effettivamente in grado di rispondere alle nostre domande sul libero arbitrio.

Quale definizione di libero arbitrio?

Avventurandosi nel selvaggio mondo delle neuroscienze, uno dei primi elementi a dare nell’occhio è la riluttanza a fornire delle definizioni formali dei costrutti teorici in analisi, e chiaramente il libero arbitrio non è un’eccezione. Un altro elemento chiave è la semplicità: per condurre un esperimento bisogna ridurre l’analisi ai meccanismi che si pensano essere responsabili delle variabili misurate e allo stesso tempo cercare di tenere sotto controllo le variabili in grado di influenzarne l’esito. Nel caso del libero arbitrio, praticamente, tutto si riduce al decidere se e quando premere un tasto (con relative mille varianti del caso). Chiaramente entrambi gli aspetti sono problematici.

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Per quanto riguarda il primo dei due problemi, recentemente una definizione formale e operazionalizzabile di libero arbitrio è stata proposta da Andrea Lavazza. Tre condizioni definiscono l’oggetto della nostra analisi:

  1. La possibilità di fare altrimenti, ossia avere almeno due opzioni tra cui scegliere.
  2. Riconosce di essere l’autore delle proprie azioni.
  3. Raziocinio. Lasciare l’esito di una scelta al caso è incompatibile con il libero arbitrio.

Il secondo dei due problemi non è invece destinato a trovare una soluzione in tempo breve, in quanto si tratta di un elemento intrinseco delle neuroscienze (e probabilmente di tutte le scienze sperimentali in generale).

Come tutto ebbe inizio

Il connubio tra neuroscienze e libero arbitrio ha origine nel 1983 con l’esperimento di Libet. Il ricercatore statunitense era interessato al cosiddetto potenziale di prontezza motoria (dal tedesco “Bereitschaftspotenzial”, BP), ossia il correlato neurofisiologico di pianificazione, preparazione e inizio di un movimento volontario. Ai tempi si speculava sul fatto che prima di osservare il BP, il soggetto in analisi dovesse divenire consapevole della propria intenzione di agire. Libet voleva testare questa ipotesi ma i suoi risultati mostrarono l’esatto contrario.

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Il potenziale di prontezza motoria è visibile 550 ms prima dell’inizio del movimento (in questo caso muovere un dito) e precede la consapevolezza dell’intenzione del movimento di circa 350 ms, un’eternità in termini neuronali. L’interpretazione è un chiaro schiaffo al libero arbitrio: se il BP rappresenta veramente un correlato neurofisiologico della preparazione di un movimento “volontario”, di volontario non rimane più nulla, in quanto la decisione viene presa dal cervello in modo inconscio. Libet rimase scioccato dai suoi stessi risultati e cercò di salvare il libero arbitrio chiamando in causa la libertà di veto, ossia la possibilità di opporsi consciamente all’impulso generato dal cervello. L’esperimento di Libet è stato aspramente criticato sia dal punto di vista prettamente filosofico, sia da quello neurologico / sperimentale. Come già accennato in precedenza, trarre delle conclusioni universalmente valide partendo da una situazione di laboratorio artificiale come questa è perlomeno problematico. Inoltre, l’esatta interpretazione del potenziale di prontezza motoria rimane ancora una domanda aperta. Nonostante le critiche, l’eco dei risultati di Libet è ancora oggi ben presente.

La corteccia motoria supplementare (SMA), dove il potenziale di prontezza motoria ha origine. [Fonte]

Libero arbitrio come illusione

L’esperimento di Libet è stato replicato svariate volte, ma la ricerca si è spinta ancora più in là. Grazie ad algoritmi di machine learning (se ne parla qui, link), i ricercatori del Max Plank Institute sono addirittura riusciti ad ampliare la finestra temporale di Libet, riuscendo a prevedere l’esito di una decisione dieci secondi prima che quest’ultima fosse conscia ai partecipanti. Lo studio in questione però potrebbe rappresentare un artefatto statistico. Un altro gruppo di ricerca è invece riuscito a manipolare il momento in cui diveniamo consci dell’intenzione di agire, suggerendo che quest’ultima non venga realmente percepita, bensì dedotta in base al momento in cui l’azione viene effettuata. Uno studio ha infine messo in discussione la libertà di veto. L’esperimento prevedeva una condizione nella quale i partecipanti, dopo aver ricevuto un segnale visivo, potevano decidere se premere un tasto oppure non premerlo. I ricercatori hanno dimostrato che è possibile distinguere l’esito della scelta in base all’attività neuronale precedente il segnale visivo, quindi prima della formazione di un’intenzione. Gli studi empirici considerati fino ad ora sembrerebbero relegare la coscienza nel ruolo di sparring partner (o epifenomeno) quando si discute la genesi di un movimento volontario. Siamo veramente solo i burattini del nostro cervello?

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Il buono, il brutto e il cattivo: cosa rappresenta il potenziale di prontezza motoria?

Due studi pubblicati recentemente potrebbero (se replicati) riportare in auge il ruolo del libero arbitrio. Il primo studio in questione ha dimostrato che il BP è visibile anche in assenza di movimento, quindi rendendo improbabile l’ipotesi secondo cui il potenziale di prontezza motoria rappresenti la preparazione di un movimento. Secondo gli autori, il BP potrebbe rappresentare un aspetto più cognitivo nella preparazione di un atto volontario o ancora più semplicemente, riflettere le fluttuazioni spontanee dell’attività cerebrale. Quest’ultima ipotesi è particolarmente affascinante e svariati modelli matematici sono stati già formulati anche riguardo al libero arbitrio. Secondo questi modelli, le fluttuazioni spontanee dell’attività cerebrale (rappresentate dal BP) possono essere paragonate ai flussi di marea; quando il livello di attività supera una determinata soglia verrebbero innescati il “se e quando” di un’azione, ma non il “cosa”. I primi dati sperimentali sembrano concordare con questi modelli. Rimane tuttavia da chiarire il modo in cui determinare la soglia critica in questione, sia concettualmente che empiricamente.

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Il secondo dei due studi invece ha ripristinato il ruolo della libertà di veto. In un esperimento dal design futuristico, i partecipanti hanno gareggiato con un’interfaccia neurale (dall’inglese “brain computer interface”) progettata per prevedere in base al BP quando avrebbero compiuto un movimento. Scopo del gioco era premere un tasto prima che l’interfaccia neurale emettesse un segnale di stop. Lo studio ha dimostrato come sia possibile inibire l’atto motorio “in divenire” (riconosciuto come tale dall’interfaccia neurale in base al BP), a patto che quest’ultimo venga soppresso entro 200 ms dall’inizio del movimento. Il superamento di questa finestra temporale viene definito “punto di non ritorno” e corrisponde probabilmente al tempo impiegato dai partecipanti per decodificare il segnale di stop e sopprimere l’impulso motorio.

libero arbitrio
Esempio di interfaccia neurale non invasiva. [Fonte]

Conclusione

Allo stato attuale delle cose non è chiaro se e come le neuroscienze possano contribuire nella discussione sul libero arbitrio. La prima ondata di ricerche (incentrata perlopiù sui risultati di Libet) lo ha dipinto come mera illusione. Ricerche più recenti hanno però messo in discussione i paradigmi (sia sperimentali, sia filosofici) del passato, ripristinandone, almeno apparentemente, il ruolo.

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