Valigette roventi: gli Emirati Arabi Uniti in Somalia

L’8 aprile scorso tre valigette contenenti quasi dieci milioni di dollari sono state sequestrate all’aeroporto Aden Abdulle di Mogadiscio. Il portatore era disceso da un volo charter proveniente da Abu Dhabi ed era l’ambasciatore degli Emirati Arabi in Somalia, Mohammed Ahmed Othman al Hammadi, il quale ha ingaggiato una discussione piuttosto accesa con le forze di sicurezza dell’aeroporto: la spiegazione fornita era che i soldi servivano per coprire la retribuzione delle truppe somale addestrate dagli Emirati Arabi Uniti in chiave anti-Al Shabaab, il gruppo terrorista affiliato ad Al Qaeda e operante in Somalia e nel nord del Kenya.

Le varie agenzie di sicurezza somale restano dubbiose sulle giustificazioni addotte da al Hammadi, sostenendo che lo stipendio complessivo delle forze addestrate da Abu Dhabi non supera il milione. Le tensioni derivanti da questo sequestro sono andate ad approfondire quelle già presenti dal giugno scorso, quando Arabia Saudita, Emirati e Bahrein avevamo cercato di influenzare la Somalia chiedendo di tagliare tutti i ponti (economici e di assistenza militare) con il Qatar, all’epoca oggetto di un embargo da parte della maggior parte dei vicini.

Mohammed Ahmed Othman al Hammadi, ambasciatore emiratino in Somalia. Foto: Reuters.

Altra benzina sul fuoco era stata sparsa nel momento in cui Abu Dhabi aveva deciso di addestrare anche le forze della repubblica semi-indipendente del Somaliland, una regione che occupa larga parte della costa nord del paese e che si è dichiarata indipendente da Mogadiscio nel 1991 a seguito della guerra civile che ha sconvolto il paese. Nel novero delle altre forze sovvenzionate dal denaro emiratino in Somalia troviamo anche la Guardia Costiera del Puntland (altra regione con istanze separatiste), utilizzata in chiave antipirateria. Gli interessi emiratini nell’ex Somalia britannica vanno oltre alla semplice influenza su un’area strategica come quella dello stretto di Bab-al-Mandab: Abu Dhabi ha in progetto di costruire una base presso Berbera, città portuale del Somaliland situata solo 300 chilometri a sud dello Yemen in piena guerra civile e dove gli Emirati Arabi Uniti sono presenti con truppe a supporto del governo ora riparato ad Aden in lotta contro i ribelli sciiti Houthi. A fronte della costruzione di tale base, il governo del Somaliland, ora guidato dal vincitore delle elezioni dell’anno scorso Muse Bihi Abdi, ha chiesto l’addestramento di una forza di sicurezza di terra del Somaliland che si distacchi e si dstingua dall’esercito somalo.

Gli Emirati Arabi, nonostante la dimensione relativamente ridotta rispetto ad altri giganti dell’area come Arabia Saudita e Iran, sono ad oggi considerati una notevole potenza militare tanto, tanto da essersi meritati l’appellativo di “Sparta del Golfo”. All’interno dei loro confini ospitano industrie militari come la Caracal; possono inoltre contare su un esercito operativo complessivamente composto da 64.000 uomini e una forza aerea che nel 2007 ha subito una completa ristrutturazione, ora composta prevalentemente da mezzi all’avanguardia, con piloti che hanno avuto l’occasione di acquisire esperienza di combattimento in Yemen e in altri contesti dove l’aviazione di Abu Dhabi è intervenuta. Gli armamenti utilizzati sono stati acquistati sia da fonti statunitensi che europee e russe, fino ad arrivare alla Corea del Nord dove gli Emirati si sono procurati i progetti e la licenza di produzione dei missili Hwasong 5 e della versione offerta da Pyongyang dei missili SCUD. Per l’expertise militare molto spesso l’esercito si avvale della presenza di veterani provenienti dall’estero e chiamati ad addestrare le truppe emiratine.

Emirati Arabi
Siad Barre, dittatore somalo dall’indipendenza fino alla caduta nel 1991. Foto: AP.

Nel corso degli anni la forza degli Emirati si è espansa al di fuori dei confini nazionali, partecipando a diverse azioni in Kuwait durante la prima Guerra del Golfo, nel già citato contesto somalo nel 1993 con la missione UNOSOM II, in Kosovo con un battaglione di fanteria meccanizzata, con il proprio genio militare nel sud del Libano che Abu Dhabi ha contribuito a ripulire dalle mine e dalle bombe a grappolo, nonché come forza umanitaria e di pace in Afghanistan e Iraq.

Nel contesto regionale Abu Dhabi recita il ruolo di una potenza di primissimo piano sia sotto il piano economico che militare, con un focus sull’espansione della propria influenza sfruttando sia le armi che il denaro. Per quanto concerne i rapporti con gli altri paesi condivide un’identità di vedute con l’Arabia Saudita che l’ha portata a costituire un asse importante con Riyad e che si contrappone all’Iran in una guerra sotterranea volta ad acquisire l’egemonia sulla regione. Svolge un’attività di influenza anche sul piano sociale in tutto il Medio Oriente e il Nordafrica attraverso il finanziamento di fondazioni religiose, giocando un ruolo di stabilizzatore degli equilibri arabo-sunniti.

La Somalia, al contrario, è classificata dalla maggior parte della scienza politica internazionale come un failed state, dato che ad oggi non è assolutamente in grado di estendere la propria sovranità sull’intero territorio nazionale: nel nord la repubblica del Somaliland de facto è indipendente (ma non de jure, mancando il riconoscimento da parte di tutta la comunità internazionale). Nel 1991, con la caduta della dittatura di Siad Barre, il paese precipitò in uno stato di guerra civile dove diversi clan si combattevano per il dominio sul paese, mentre l’esercito governativo faticava a far rispettare le leggi del governo di transizione oltre i confini della città di Mogadiscio.

Per cercare di risollevare la situazione del paese venne ideata la missione UNOSOM I (United Nations Operations in Somalia) che aveva il compito di monitorare il cessate il fuoco imposto dalla comunità internazionale. Alla violazione del cessate il fuoco tale missione venne rimpiazzata dalla UNITAF (Unified Task Force) a guida ONU che fallì in parte a causa del tasso di violenza nel paese, in parte a causa delle manifestazioni della popolazione contro i caschi blu, in parte a causa dei continui attacchi dei signori della guerra che infestavano il sud del paese. La missione lasciò la Somalia il 4 maggio del 1993, per lasciare spazio a una terza missione (la UNOSOM II) meglio preparata per attacchi di guerriglia e per il dover gestire il disarmo delle tribù e dei signori della guerra. In tale contesto si registrarono molti scontri tra caschi blu e milizie locali, culminate nel celeberrimo episodio dei due elicotteri multiruolo statunitensi abbattuti nell’ottobre del 1993, la cui eco in patria mosse il presidente statunitense Bill Clinton a ritirare le truppe dalla Somalia dopo breve tempo.

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Bandiera delle Corti Islamiche, gruppo fondamentalista islamico somalo. Immagine: Wikimedia Commons.

La guerra civile proseguì per oltre sedici anni fino al momento in cui apparvero prepotentemente sulla scena le Corti Islamiche, forti del sostegno della popolazione ormai stufa di quasi due decenni di guerra civile. Il governo di transizione si alleò quindi con loro al fine di porsi in una posizione di superiorità rispetto al resto delle forze in campo: questo portò alla proclamazione della Shaaria in vaste parti del paese. Nel 2010 un nuovo governo con alla guida Mohammed Abdullahi Mohammed stabilì un sistema misto basato sullo xeen (la giustizia tradizionale somala), la Shaaria e la legge consuetudinaria.

Nel frattempo il paese registra l’intervento di più attori esterni al suo interno: l’Etiopia, l’Unione Africana e, come detto in precedenza, gli Emirati Arabi. Questi ultimi però sembrano avere scopi diversi, ovvero quelli di produrre una balcanizzazione del paese, troppo grande e troppo frastagliato per poter essere pacificato e controllato nella sua forma attuale: Abu Dhabi cerca un posto al sole sullo stretto di Bab-al Mandab e potrebbe averlo trovato nel Somaliland.

La notevole destabilizzazione di un paese come la Somalia rischia di produrre ulteriori effetti a lungo termine per quanto riguarda la sicurezza del commercio internazionale, considerata la sua posizione preminente sullo stretto di Bab-al-Mandab, una delle due porte dell’Oceano Indiano infestata da pirati collegati a vario titolo alle varie formazioni fondamentaliste islamiche (Al-Shabaab su tutte). La vicinanza con il tormentato teatro yemenita, inoltre, potrebbe fornire al terrorismo ulteriori spazi per concedere una seconda riedizione del califfato del terzo millennio.

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