Luca Mercalli: «Combatterò la battaglia per il clima fino all’ultima pallottola»

Quando lo raggiungiamo al telefono Luca Mercalli è un fiume di parole. Snocciola dati, cifre, previsioni catastrofiche, e lo fa con l’attitudine didattica del divulgatore e la rabbia dello scienziato inascoltato da decenni. Perché Mercalli, climatologo, responsabile dell’Osservatorio Meteorologico del Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri, docente universitario e per anni volto di punta delle prime serate Rai, denuncia da tempo quanto le mutazioni del clima stiano mettendo in pericolo l’umanità intera. Con noi parlerà dei nuovi movimenti ambientalisti, delle misure che sarebbero necessarie per impedire il collasso ecologico e del perché nessuno le attuerà davvero.

Cos’è il cambiamento climatico, a cosa è dovuto e perché si parla di emergenza?

«Diciamo subito che ciò che ci preoccupa non è un generico cambiamento climatico, ma il riscaldamento globale. Cambiamenti climatici ce ne sono stati tanti nella storia, ma questo è il primo provocato dall’uomo, generato da duecento anni di combustione di materie fossili (petrolio, carbone, gas) che hanno rilasciato enormi quantità di gas a effetto serra nell’atmosfera. Questo fenomeno noi lo conosciamo da più di un secolo, non è una novità scientifica: la prima ricerca sugli effetti climalteranti della combustione del carbone è di un premio Nobel svedese, Svante Arrhenius, e risale al 1896. Poi ci sono stati decenni di lavoro ininterrotto sul tema, e già nel 1979 l’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti pubblicò il cosiddetto Rapporto di consenso che accertava proprio le modifiche che il clima stava subendo a causa dell’attività umana. Il problema climatico è diventato anche un problema politico nel 1988, quando le Nazioni Unite capirono che questa crisi andava affrontata a livello globale e costituirono l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change): da quell’esperienza nacque la prima convenzione sul clima, siglata nel 1992 a Rio de Janeiro. Insisto su tutte queste date perché ci danno la misura di quanto questi problemi siano noti da tanto tempo e a tutti i livelli».

Eppure il clima è entrato da pochissimo nel dibattito pubblico.

«Pressioni e interessi economici hanno fatto sì che queste voci venissero ignorate, e ci troviamo oggi nel bel mezzo di un’emergenza. È come una malattia: se non previeni arrivano i primi sintomi, e se anche di fronte a quei sintomi ignori il problema, allora diventi un malato terminale. Oggi siamo molto vicini a quella fase. Quaranta anni fa potevamo fermare questo fenomeno, non lo abbiamo fatto e ora la temperatura è già aumentata di un grado, non poco per un pianeta come il nostro. Se continuiamo a non intervenire dobbiamo aspettarci un aumento di ulteriori quattro o cinque gradi, che sarebbe catastrofico. Ma mettiamocelo in testa: anche se si rispettassero i famosi accordi di Parigi – e non è affatto detto questo accada – altri due gradi di aumento li avremo comunque, e ne pagheremo le conseguenze».

E quindi mentono quei politici e accademici che sostengono non ci sia un consenso unanime nella comunità scientifica a proposito del riscaldamento globale?

«Certo che mentono, e clamorosamente! Intanto perché il consenso si ottiene sempre tramite una mediazione, si tratta di un consenso strutturato all’interno del mondo degli esperti. È come nella medicina: i medici sono convinti che il fumo faccia male, ma lei ne troverà sempre due al mondo che sostengono il contrario, vuoi perché ignoranti, vuoi perché prezzolati, vuoi perché in cerca di fama. Spesso capita che alcuni ricercatori facciano i bastian contrari solo perché sanno che questo è il modo più veloce per fare notizia, per essere chiamati in televisione. Ma sono i media a sbagliare in questa convinzione che dentro ogni dibattito debbano esserci due voci opposte, anche quando una delle due non ha alcuna credibilità. Come non si chiamano i terrapiattisti in trasmissione, non si dovrebbero chiamare nemmeno i negazionisti del clima. Spesso, poi, gli accademici che negano i cambiamenti climatici sono scienziati ma non climatologi e abusano dei loro titoli per ottenere credito».

Ma cosa intendiamo concretamente quando parliamo delle conseguenze del riscaldamento globale? Cosa cambierà nella nostra vita nei prossimi decenni?

«Vedremo qualcosa di ignoto, perché a livello di specie umana non ci siamo mai trovati in una condizione simile. Possiamo provare ad immaginare, ma come sempre la realtà ci stupirà in negativo. Ci sarà più caldo, e in molte delle nostre città dovremo abituarci a convivere con temperature superiori ai quaranta, quarantacinque gradi per mesi. Condizioni impossibili da sopportare, se non chiusi nella bolla di un condizionatore. Già ora stiamo iniziando a vedere importanti picchi di canicola: nell’estate del 2003, la più torrida mai registrata, il caldo ha fatto settantamila morti solo in Europa. I primi che si accorgeranno – e già se ne stanno accorgendo, in realtà – dei danni in arrivo saranno gli agricoltori, che avranno sempre più difficoltà nel produrre come hanno sempre fatto. Poi ci saranno eventi estremi come uragani e tornado, ogni anno più frequenti e intensi.

Mi rendo conto che finché leggiamo queste parole su un giornale non fanno paura, ma quando poi arriva l’alluvione in casa capisci di cosa stavamo parlando. Poche settimane fa a Vercelli sono caduti – in pieno luglio – chicchi di grandine grandi come mele. Questo sta già avvenendo oggi, ma immagini cosa accadrebbe se, invece di succedere una volta ogni vent’anni, questi eventi capitassero ogni estate: avvenimenti simili significano tetti sfondati, macchine distrutte, milioni di danni, magari dei morti.  C’è poi sempre spazio per l’ignoto: fin’ora il chicco di grandine più pesante mai visto al mondo è di circa un kilo. Ma se arrivasse il chicco da due kili? E da tre kili? La nostra civiltà non è pronta ad eventi simili. E non dimentichiamo il problema dell’innalzamento del livello dei mari dovuto allo scioglimento dei ghiacciai. La previsione è di una crescita di un metro, un metro e mezzo in più entro la fine del secolo. Vada dai veneziani a spiegare che entro qualche decennio dovranno lasciare le loro abitazioni perché sommerse. Inoltre, tutti questi fattori faranno crescere in modo esponenziale il problema dei migranti climatici: milioni di persone che saranno costrette a fuggire dalle loro terre proprio a causa del riscaldamento globale».

luca mercalli
Alluvione in Florida. Foto: valigiablu.it

Spesso – e giustamente – si parla delle azioni che ognuno di noi può mettere in atto nella propria quotidianità per contrastare questo fenomeno. Ma sono sufficienti, o è comunque indispensabile un intervento di tipo legislativo e politico?

«I due piani devono viaggiare insieme. Ognuno di noi può fare alcune cose e poi ce ne sono altre che solo i governi possono fare. Quando la politica mette degli incentivi, peraltro, anche i singoli saranno spronati a cambiare le proprie abitudini. Inoltre, queste azioni devono essere attuate a livello globale, altrimenti si finisce come gli Stati Uniti di Trump che, mentre l’Europa tenta timidamente di migliorarsi, eleggono un presidente “negazionista”. Questo provocherà dumping, perché se io ho un’industria inquinante son portato a trasferirla negli USA, così da poter continuare a fare ciò che faccio senza nessuna legge a impedirmelo. Ho letto da poco che la Francia ha approvato una nuova tassa sul combustibile degli aerei: bene, il volo è inquinante e lo Stato deve incoraggiare a viaggiarvi il meno possibile. Il mercato peggiora la situazione, e allora deve intervenire la politica».

Proprio la politica, però, sembra andare in direzione opposta: penso a Trump, a Bolsonaro, ma anche a leader apparentemente più green come Trudeau, che nella stessa giornata ha firmato la dichiarazione di emergenza climatica e l’ampliamento di un oleodotto. Come mai secondo lei?

«Ci sono due motivi fondamentali.  Il primo è la pressione del mercato dei fossili, che ha tutto l’interesse a mantenere le cose come stanno. E d’altronde lo sappiamo: la politica oggi è succube dell’economia, con grandi corporations che hanno bilanci anche più alti di quelli degli Stati. Poi c’è il problema del consenso: se io fossi un politico e, volendo fare azioni immediate di salvaguardia della nostra vita, alzassi il prezzo della benzina, cosa accadrebbe? Che il giorno dopo mi sparano, ecco cosa. Questo perché nessuno ha spiegato alla popolazione cosa sta davvero accadendo, quale sia la posta in gioco e cosa si rischi».

In molti però parlano del rischio di un’iniqua distribuzione dei sacrifici necessari alla salvaguardia del clima, con la possibilità che a pagare davvero siano solo le classi sociali più deboli. Lei cosa ne pensa?

«L’arte della politica dovrebbe fare proprio questo: ottenere il risultato con la giusta gradualità sociale. Ma questo non è il mio mestiere, io faccio il medico dell’umanità e dico che una dieta è più che mai necessaria. Come farla e con che distribuzione lo lascio decidere ad altri, ma dobbiamo avere bene in mente che siamo nelle mani della termodinamica, a cui non interessa della nostra equità, dei nostri problemi, dei nostri principi. A lei interessa solo quante tonnellate di gas climalteranti immettiamo nell’aria: bisogna essere rapidi se vogliamo intervenire in tempo».

Se domani la chiamasse Conte per chiederle una consulenza sulle politiche ambientali, lei cosa gli consiglierebbe come prima azione?

«Io sarei radicale, anche se poi magari mi sparano [ride, N.d.R.]. Sicuramente prima di qualsiasi azione io fare informazione. Anche i media hanno le loro responsabilità in questa emergenza, perché hanno ignorato o sottovalutato il problema. Come prima cosa io farei sei mesi di divulgazione a reti unificate e poi, quando tutti hanno coscienza della crisi, inizierei ad agire. Poi guardi, io sono consulente di ISPRA [Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, N.d.R.], che è l’ente governativo addetto alle politiche ambientali. Il potere sa tutte queste cose che stiamo dicendo, ma se prova a intervenire arriva il Ministro del Tesoro, arriva la Commissione Europea e gli dice: “No, non abbiamo budget, costa troppo, non si fa nulla”. La verità è che finché rimaniamo ancorati a questo sistema economico non cambierà niente! O cambiamo sistema, smettendo di basarci solo sulla crescita del PIL, o davvero non so come faremo».

Il nostro governo oggi sta puntando su una transizione light, investendo sul metano come soluzione intermedia che dovrebbe traghettarci – pian piano – verso le rinnovabili. È una strategia efficace?

«Certo che no, e non lo è per i motivi che le ho appena spiegato. Diciamolo subito: non c’è un solo posto al mondo in cui le politiche ambientali siano adeguate, proprio perché tutto il pianeta è succube di quell’economia di mercato che mette il profitto prima dell’emergenza. In Italia abbiamo alcuni ottimi provvedimenti: penso all’ecobonus per l’efficentamento energetico delle abitazioni – una misura eccellente e senza uguali al mondo – ma è ancora volontario e quindi poco efficace. Perchè non diventa obbligatorio? Perché a quel punto il governo non avrebbe i fondi, e allora si torna all’altare dell’economia su cui sacrifichiamo anche il nostro futuro. Secondo l’ultimo rapporto ONU sul tema serve “uno sforzo senza precedenti”. Le sembra che siamo pronti a questo? È anche un problema di percezione: la gente pensa che lo sforzo senza precedenti serva magari per cacciare i migranti. Le ripeto, s’i fossi premier farei sei mesi di informazione a tappeto sui media nazionali prima di ogni altra azione».

Che ne pensa allora di nuovi movimenti per il clima come Fridays For Future ed Extinction Rebellion?

«Sono contento. Supporto le loro proteste e mi sono più volte speso pubblicamente a favore dei ragazzi di Fridays For Future qua in Italia. Detto ciò, è innegabile che questi movimenti dovessero nascere non ora, ma trent’anni fa: c’erano tutte le condizioni, tutte le certezze scientifiche e molto più tempo per intervenire. A dirla tutta, Greta ebbe un omologa: Severn Cullis-Suzuki, una dodicenne canadese che, alla conferenza di Rio del 1992, disse e fece le stesse cose. Ora chi la ricorda più? Questa è la mia paura: io faccio i miei migliori auguri al movimento, ma non ho nessuna certezza ad ora che non muoia prima di lasciare il segno».

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Attiviste del movimento #fridaysforfuture. Foto: wired.com

Torniamo sul piano delle azioni individuali: cosa possiamo fare noi nella nostra quotidianità per fronteggiare questa emergenza?

«Di tutto! In primis possiamo lavorare sulla nostra abitazione: io da anni ho fatto tutti quei lavori (isolamento termico, pannelli solari e fotovoltaici, pozzo per l’acqua piovana) che mi permettono di consumare oltre l’ottanta per cento di energia in meno rispetto a prima. Poi i trasporti: abbiamo nominato prima la tassa francese sui voli, e anche non volare – salvo che per rari casi – è una scelta. Non c’è bisogno di andare alle Maldive d’estate, in Italia abbiamo tanti posti bellissimi e possiamo viaggiare anche restando a poche chilometri da casa. Poi va da sé, è bene usare il più possibile bici e trasporti pubblici ed evitare le automobili, soprattutto se di grossa cilindrata. Anche il cibo è importantissimo: dobbiamo mangiare meno carne, consumare cibi locali e di stagione. Il cambiamento passa anche dal nostro piatto. Infine, direi attenzione ai consumi in generale. Quante volte cambiamo il telefono per moda? E dentro quel dispositivo che buttiamo ci sono minerali rari, c’è tutta l’energia spesa in fase di estrazione, costruzione, trasporto».

Ma se sono così tanti anni che gli ambientalisti parlano di clima e nessuno li ascolta, non è che anche movimenti e ONG devono fare autocritica? Forse si è sbagliato qualcosa nella comunicazione?

«È giusto chiederselo, e io da divulgatore mi interrogo continuamente sull’efficacia di quanto dico. Gli errori ci sono stati di sicuro, ma non possono aver sbagliato tutti e in tutto il mondo. Io ho chiesto aiuto ai miei colleghi psicologi e antropologi, e ciò che viene fuori è un difetto tipico della mente umana: noi non siamo abituati, dal punto di vista comportamentale, a riconoscere problemi come questo. Si tratta di meccanismi umani e antichi: il mito di Cassandra [l’indovina condannata a predire sciagure realmente in arrivo senza mai essere creduta, N.d.R] ha più di duemila anni e stigmatizza esattamente la mancanza di lungimiranza della nostra specie. Però io la colpa non la dò a Cassandra, ma a chi non la ha ascoltata in tutti questi anni. Bisognerebbe agire come per il fumo: quando è stato impedito nei luoghi pubblici nessuno ne era felice, ma l’imposizione è stata accettata e oggi tutti la rispettiamo».

Lei è ottimista?

«No, assolutamente no. Da scienziato vedo la malattia che avanza e i suoi sintomi sempre più diffusi, e da cittadino vedo la totale indifferenza dell’opinione pubblica. Questa intervista che lei mi sta facendo – lucida e interessante – io l’ho fatta già centinaia di volte negli ultimi decenni, e a cosa è servito? A nulla. Io questa la chiamo scienza sprecata: sappiamo tutto, ma le nostre informazioni restano chiuse in un cassetto. Abbiamo pochi anni e non vedo i presupposti per un cambiamento radicale. Io non mi arrenderò e lotterò fino all’ultima pallottola, ma penso che perderemo e che le conseguenze arriveranno. Forse allora ci accorgeremo dell’errore, ma a quel punto sarà tardi».

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