L’Iraq in rivolta: una nazione in cerca di un futuro migliore

«Cinque giorni di morti e feriti, questo deve finire». Queste sono state le parole dell’appello accorato fatto diversi giorni fa dal rappresentante speciale del segretario generale dell’ONU per l’Iraq Jeanine Hennis-Plasschaert, il quale ha mostrato tutta la sua preoccupazione per l’escalation di violenza nel Paese del Medio Oriente, che solo nei primi giorni della rivolta che lo sta sconvolgendo vede i numeri degli afflitti dai disordini salire: novantanove vittime e addirittura quattromila feriti, numeri riferiti solamente ai primi giorni. L’Iraq è in rivolta contro il governo del premier Adel Abdul Mahdi. La rivolta stessa è frutto del risultato di una situazione divenuta sempre più insostenibile per la popolazione, la quale da tempo è in cerca di un aumento dei posti di lavoro, di un sostegno maggiore da parte dello Stato e della diminuzione di una corruzione sempre più diffusa all’interno della macchina statale irachena.

La violenta repressione della polizia e le posizioni in campo

Le proteste sono incominciate nella sera del 1 ottobre e continuate il giorno dopo, quando nella città di Bagdad i cittadini sono scesi per le strade nella ricerca vana di chiedere al governo una svolta in quest’andamento fallimentare degli ultimi anni. Difatti i dati sono impietosi: il tasso di disoccupazione in Iraq supera il venti per cento (quella giovanile è attestata al venticinque per cento) e secondo un rapporto della BMI circa i tre quarti della popolazione vive con meno di sei dollari al giorno. I problemi però all’interno di questo travagliato Paese sono diversi: vi è un’estrema carenza dei servizi sanitari, una bassa qualità dell’istruzione, l’utilizzo eccessivo e illegale di armi nelle città, la presenza di frequenti sequestri di persona, un alto tasso di criminalità. Dal punto di vista governativo, l’Iraq in rivolta recrimina la distribuzione settaria del potere e l’eccessiva influenza dell’Iran sulla politica irachena: questa ultima affermazione viene avvalorata dal sospetto della mano iraniana dietro alla decisione del premier iracheno di rimuovere il generale Abdul Wahab al Saadi dal suo incarico di comandante delle forze antiterrorismo. Il premier non ha giustificato la sua decisione, ma l’opinione pubblica sostiene che al Saadi fosse considerato un personaggio scomodo per il governo di Teheran.

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L’ex leader sciita Moqtada al-Sadr. Foto: aljazeera.com

La reazione del governo è stata perentoria e cruenta: la repressione della polizia contro i manifestanti è stata sanguinosa, ma il governo ha prontamente impedito la diffusione degli scontri, restringendo inoltre l’accesso a internet in tutto il Paese. Le manifestazioni, partite da Bagdad e propagatesi in diverse città tra cui Karbala, Bassora e Dhi Qar, sono subito degenerate con scene di guerriglia urbana, tra cui tentativi di assalto a sedi del governo. Quest’ultimo ha inizialmente tentato di sedare le violenze imponendo un coprifuoco, misura estremamente limitativa della libertà dell’uomo, che non è quasi mai stato rispettato dai cittadini in protesta. La presa di posizione più forte è stata quella dell’ex leader sciita Moqtada al-Sadr, il quale ha apertamente consigliato all’attuale premier di dimettersi, proponendo un ritorno alle urne sotto la vigilanza delle Nazioni Unite, che dovrebbero verificare la trasparenza e la regolarità del processo democratico di rielezione del governo. La richiesta fatta dal politico nazionalista è avvenuta per la rinomata corruzione diffusa tra i funzionari del governo, che potrebbe ostacolare la realizzazione della volontà politica del popolo iracheno. Il governo ha risposto attraverso varie figure, tra cui il presidente del Parlamento Muhammad Halbusi, il quale ha promesso l’attuazione di misure di emergenza, soprattutto per estirpare la corruzione dai palazzi governativi, ma anche per risolvere il problema dei posti di lavoro e dei salari troppo bassi. Purtroppo le promesse del governo non hanno minimamente smorzato la furia della popolazione, la quale è tornata nei giorni successivi in piazza nei luoghi del potere di Bagdad. Emblematiche infatti sono le parole di Mahdi, il quale ha affermato in diretta tv: «Non ho la bacchetta magica». Queste parole dimostrano l’incapacità attuale del governo di dare un segnale di speranza effettivo alla nazione intera.

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L’ayatollah iracheno Ali Sistani. Foto: aljazeera.com

Molto interessante è la dichiarazione fatta dalla massima autorità religiosa dell’Iraq, l’ayatollah Ali Sistani, il quale si è schierato in maniera ferma dalla parte della popolazione in protesta, riconoscendo le motivazioni dei manifestanti e ponendo l’accento sulla via da seguire. Il governo dovrebbe, secondo Sistani, introdurre una svolta fatta di riforme politiche ed economiche, senza arrivare all’utilizzo della risposta violenta ai desideri del popolo iracheno:

Agite con la politica prima che sia troppo tardi.

Ugualmente discostante dall’azione del governo e della polizia è stata la dichiarazione del presidente iracheno Barham Salih, il quale ha recentemente twittato:

La protesta pacifica è un diritto costituzionale garantito ai cittadini, le nostre forze di sicurezza hanno il compito di proteggere i diritti dei cittadini e mantenere la sicurezza pubblica. Sottolineo moderazione e rispetto per la legge. I nostri giovani iracheni sono alla ricerca di riforme e posti di lavoro e il nostro dovere è quello di soddisfare questi legittimi diritti. Misericordia per i martiri e guarigione per i feriti.

La tregua temporanea e i possibili sviluppi nell’Iraq in rivolta

Negli ultimi giorni sono uscite delle indiscrezioni dal Paese che hanno fatto scalpore: la commissione suprema dei diritti umani irachena ha denunciato oltre cento morti durante gli scontri. Il dato che più impressiona è però che, secondo quanto viene riportato, oltre il quaranta per cento delle vittime sarebbe state ucciso da cecchini dell’esercito, di cui solo il venti per cento è stato vittima di pallottole di gomma, mentre il restante quaranta ha subito lanci di pietre e il quindici di gas lacrimogeni. Queste informazioni mostrano la ferma e repressiva reazione del governo iracheno alle proteste del popolo, il quale ha risposto alle accuse ammettendo solamente di aver adottato “l’uso eccessivo della forza”, ma si è detto non a conoscenza della presenza, documentata dai media indipendenti, di cecchini dal volto scoperto sui tetti. Proprio queste indiscrezioni e le prime accuse che arrivano dall’estero possono aver contribuito al passo successivo in questo scenario di guerra civile, poiché tra il 13 e il 14 ottobre si è raggiunta una tregua provvisoria: si è arrivati a un accordo non scritto di “cessate il fuoco” per permettere il pacifico passaggio dei pellegrini, diretti verso le città di Karbala e Najaf (luoghi religiosi per gli sciiti). Il premier iracheno ha mostrato tutta la sua preoccupazione per questi eventi e ha approfittato di questa tregua provvisoria per emanare un decreto contenente diciassette proposte diverse per delle riforme che dovrebbero mettere a tacere le proteste, soprattutto quella che garantirà la creazione di quindicimila nuovi posti di lavoro per i disoccupati e la promessa che i mille funzionari governativi, la cui corruzione è stata pubblicamente dimostrata, verranno puniti. La situazione futura tuttavia non appare minimamente tranquilla, poiché le promesse del governo non convincono i cittadini iracheni e la situazione interna è ancora più complessa del singolo scenario descritto: infatti è riesplosa recentemente la questione del Kurdistan, a seguito dei bombardamenti della Turchia. Essendo parte della popolazione curda in Iraq, la questione riguarda da vicino il paese, il quale ha prontamente inviato 10.000 unità al confine con la Siria, anche a seguito dell’appello del premier curdo Mas’ud Barzani, il quale ha chiesto all’Iraq di risolvere seriamente la situazione interna. Dunque, il Paese è impegnato su più fronti in una situazione di tregua che appare sin dall’inizio puramente illusoria.

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