Il Camus calciatore: il primo amore e l’assurdo epilogo

«Tutto quel che so sulla morale e sui doveri degli uomini, lo devo al calcio» è già di per sé una frase forte e forse pretenziosa, non fosse che a pronunciarla, quasi un secolo fa, è stato lo scrittore e filosofo francese Albert Camus. Uno dei più grandi esistenzialisti del Novecento non ebbe timore a dichiarare il suo amore per quello che – ieri ancor più di oggi – è considerato dai salotti intellettuali come uno sport popolare, volgare e rozzo. Non sarebbe potuto essere altrimenti per un uomo in rivolta contro la vita, in una tensione che però lo portò sempre a schierarsi con i più deboli e indifesi, coloro che non hanno le facoltà nemmeno per esprimere o far capire la propria opinione, poiché «la nostra sola giustificazione, se ne abbiamo una, è di parlare in nome di tutti coloro che non possono farlo».

Camus non ha mai scritto un romanzo, un saggio o un’opera teatrale completamente incentrata sul calcio, ma la sua passione per esso è un filo che lo accompagnerà per tutta l’esistenza: dall’infanzia in Algeria fino al periodo parigino, il nostro non rinnegherà mai quello che è stato per lui il primo amore, ancor prima della letteratura, e che avrebbe potuto portarlo proprio verso la strada di calciatore professionista; a fermarlo fu solo la tubercolosi che lo colpì nel 1930, a soli diciassette anni, e gli impedì di continuare a giocare. La malattia probabilmente rafforzò ancor di più il suo straniamento e sentimento di Assurdo (con la “A” maiuscola) che egli provava nei confronti dell’esistenza umana. Altresì assurdo è che questa tragica circostanza abbia sì frantumato il sogno di un giovane ragazzo, ma allo stesso tempo abbia donato completamente alla letteratura e al pensiero umano uno dei più floridi contributi della sua storia. Per noi che ora possiamo leggere i suoi capolavori – da Lo straniero al La peste, da Il mito di Sisifo La caduta – probabilmente non è un dispiacere che la storia sia andata in questo modo, anche se solo lo scrittore franco-algerino saprebbe darci una risposta. Dopo aver ricevuto il Premio Nobel per la letteratura nel 1957, lo scrittore scelse di farsi intervistare dalla televisione francese al Parc des Princes di Parigi, dove andava ogni due settimane a vedere il suo Racing Club («Il calcio del Racing è scientifico: perdono scientificamente tutte le partite»), perché «non c’è luogo al mondo in cui l’uomo sia più felice che in uno stadio di calcio».

Durante l’infanzia in Algeria, scelse il ruolo di portiere per non farsi picchiare dalla nonna

Camus nacque a Mondovi (ora Dréan) in Algeria nel 1913, e un anno dopo la sua nascita il padre morì durante la Battaglia della Marna «per servire un Paese che non era suo», mentre la madre – una spagnola semi-analfabeta – per provvedere alla famiglia dovette lavorare in fabbrica e come donna delle pulizie praticamente a tempo pieno. A badare al piccolo Albert fu la nonna materna, che in breve tempo spodestò la figlia dalla potestà di crescere il bambino, ed educò Camus in modo molto autoritario, malmenandolo se questi non studiava o se, appunto, giocava al pallone. I momenti più violenti (raccontati dallo scrittore stesso nel suo romanzo autobiografico Il primo uomo) erano proprio quelli dopo i quali il ragazzino tornava dalle partitelle con gli amici, con i vestiti luridi e le scarpe rotte, il che faceva imbestialire la nonna che doveva comprarne di nuove senza avere il denaro per farlo. L’illuminazione per Camus fu quella di passare in porta: meno movimenti e quindi meno danni per l’abbigliamento.

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Il ruolo del portiere non ha stregato solamente il francese nella storia della letteratura: da Vladimir Nabokov che difese la porta della squadra di Cambridge al recente Premio Nobel Peter Handke (che ha riservato un libro ai portieri e ai calci di rigore), l’uruguaiano Edoardo Galeano («Porta sulle spalle il numero uno. Primo nel guadagno? No, primo a pagare. Il portiere ha sempre colpa») e persino Cesare Pavese, che arrivò a dire: «Il mestiere del portiere sviluppa le attitudini meditative. Si vede il mondo arrabattarsi davanti e si fa niente. Qualche volta ti para un colpo dell’avversa fortuna».

Fra i pali Camus ebbe un discreto successo, prima nella squadra liceale, poi nel RUA – la squadra universitaria di Algeri – dove si fece notare meritando anche menzione dei giornali locali e, secondo fonti non confermate e impossibili da confermare, alcune partite per la nazionale algerina, che all’epoca giocava partite non ufficiali dato che faceva formalmente parte della Francia. A fermarlo come detto fu la tubercolosi che, nonostante la caparbietà di Camus, gli impedì di continuare a giocare, ma lo portò verso ben altre strade: «Imparavo finalmente, nel cuore dell’inverno, che c’era in me un’invincibile estate».

Quanto ha influito il calcio sulla produzione intellettuale di Camus?

«Ancora oggi uno stadio stracolmo di gente, dove la domenica si gioca la partita, e il mio tanto amato teatro – sono gli unici posti nel mondo in cui io mi senta non colpevole» recita il giudice-penitente Jean-Baptiste Clamence, nel suo monologo lungo un intero romanzo, La caduta, e non è difficile verificare quanto questa frase sia autobiografica; proprio un anno prima di morire Camus dichiarò che durante la vita il teatro e il calcio fossero state le sue uniche vere università. Pur senza dedicargli, come detto, spazio in un’intera opera, il calcio e gli stadi sono sempre citati nei romanzi di Camus: nel già citato Il primo uomo, ne La peste dove il personaggio di Raymond Rambert (trasposizione di Jean-Paul Sartre) discute con un ex calciatore sul professionismo inglese, sul modulo WW (il 2-3-2-3) e su quanto sia decisivo il ruolo di centrocampista nel gioco del calcio, ne Lo straniero, dove Meursault assiste dal balcone alla orda di gente che va e ritorna dallo stadio di calcio e che si sente felice solamente la domenica pomeriggio, in una vita di indifferenza e apatia.

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Camus
Meursault, interpretato da Marcello Mastroianni, nella trasposizione cinematografica del romanzo realizzata da Luchino Visconti.

Una lettura particolarmente interessante di quest’ultimo romanzo, forse il più importante o quantomeno il più famoso di Camus, è data da Emanuele Santi che gli ha destinato persino un libroIl portiere e lo straniero (edito da L’Asino d’Oro), in cui si azzarda a dire in un’intervista a Sky che: «Camus ha scritto Lo straniero in quel modo fantastico proprio perché, da ragazzo, ha giocato in porta» e ha diviso l’opera in due parti: proprio «come due tempi da 45 minuti».

Secondo Gian Luca Favetto di Repubblica, «Meursault è un portiere. L’uomo che Albert Camus schiera in campo nel suo primo romanzo è un portiere come lui, abituato a difendere la linea bianca, pronto a uscire sulle gambe degli avversari e a volare per impedire che un’azione si realizzi. Lo straniero di Camus, l’uomo che sta di fronte all’esistenza, è prima di tutto straniero a sé stesso. E poi è lo straniero del calcio. Stranieri del calcio, al di là di nazionalità e cartellini, sono i portieri. Nessuno è più straniero del portiere su un campo di calcio: l’estraneo su cui tutto si fonda, l’ultimo a opporsi e a cadere, il numero uno sulle cui spalle si reggono coloro che inseguono la palla; lui, invece, la blocca fra le mani e la porta al petto. […]  Quattro colpi. L’arabo è morto. Così finisce il primo tempo, con il portiere che tira giù la saracinesca e non fa passare nessuno, nessun uomo, nessun pallone. I secondi quarantacinque minuti più recupero saranno tutti occupati dal processo. E qui entra in campo Albert Camus in persona a ricoprire il ruolo. Sa giocare, lui è portiere. E da portiere scrive. Come un portiere guarda, segue l’azione, infine scatta. È nello sguardo l’inizio del portiere. Così come nello sguardo è l’inizio della scrittura». Il portiere come condizione di vita, l’ultimo baluardo a protezione di un mondo che − secondo Camus stesso − la sua generazione era la prima chiamata a proteggere dalla distruzione piuttosto che migliorare, nel tentativo di evitare il peggio; proprio come il portiere ha il compito di salvare il salvabile, di proteggere la propria saracinesca, e non quello di costruire occasioni da gol.

Chissà quanto ancora nelle sue riflessioni filosofiche ed esistenziali Camus ha tratto spunto dal calcio, sport Assurdo per eccellenza, in cui la differenza tra i vincitori e gli sconfitti è spesso figlia di un unico dettaglio, di un’occasione fortuita, fallita o realizzata, una parata strepitosa o una papera fatale, di un suicidio negli ultimi minuti o di una resurrezione negli stessi. Chissà se nella famosa testata rifilata da Zidane (franco-algerino come lui) a Materazzi nella finale mondiale del 2006 avrebbe rivisto anche lui l’insensatezza dell’omicidio dell’arabo sulla spiaggia da parte del suo Meursault.

E chissà cosa avrebbe pensato dell’assurdità del calcio moderno; probabilmente non gli sarebbe piaciuto. Camus preferiva di gran lunga il calcio della terra e della sabbia algerina, quella della spiaggia di Meursault; il calcio degli stadi pieni oltre la capienza ufficiale e delle partite rigorosamente domenicali. Ma che piacere condividere la nostra passione anche con lui.

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