Coronavirus: è lecita la sorveglianza digitale?

In uno stato d’eccezione è lecito rinunciare a qualche libertà. E l’ampio margine di manovra che ci consente la tecnologia può davvero farci credere che tutto sia possibile – e che tutto ci sia permesso.  È per questo che in Corea del Sud, Cina, e adesso anche negli Stati Uniti, il governo ha approvato norme di emergenza per la raccolta di dati che rendono pubblici movimenti e transazioni di cittadini affetti da coronavirus o sospettati di essere stati contagiati. L’obiettivo sarebbe quello di far rispettare gli ordini restrittivi, monitorando gli spostamenti, laddove l’appello al buon senso fallisce. Ma app e tecnologie Gps permetterebbero anche ai cittadini di sapere se sono stati in contatto con persone che hanno contratto il virus. I Big Data allora potrebbero davvero tenderci una mano per contrastare l’epidemia. È semplice. Ogni utente ha archiviata nel suo telefono la traccia dei suoi spostamenti. Basta guardarci dentro 

Dobbiamo scegliere tra privacy e salute pubblica?

È davvero così facile? In realtà esiste un vetro di precauzioni e contraddizioni contro il quale sbattere prima di procedere con l’attuazione delle norme. Tracciare significa entrare nella sfera personale del cittadino. Seguire le sue attività. Monitorare i suoi passi. Abbattere la sua privacy 

Prima di immaginare scenari inquietanti, sarebbe opportuno fare un bilanciamento tra diritti, chiedersi se limitare le libertà e i diritti dei cittadini non sia in contrasto con le norme a tutela della privacy. La regolamentazione europea a tutela dei dati sensibili permette il trattamento dei dati solo dopo la concessione di un esplicito consenso. Il soggetto allora può rifiutare che i suoi dati vengono usati? E si può chiedere alle compagnie telefoniche – o agli internet provider – di monitorare i dati sensibili degli utenti in maniera sistematica e preventiva per ragioni di salute pubblica? Se sì, e lanciando un’occhiata al numero degli asintomatici, i dati di chi verrebbero ceduti? Dei contagiati o di tutti? 

Situazioni d’emergenza necessitano di misure d’emergenza. La pandemia dilaga veloce in tutti i Paesi, seppure all’asincrono. L’incertezza e la paura predominano, e nessuno scienziato è in grado di esprimersi su come evolverà l’incidenza epidemica. Ma quando il post-coronavirus si potrà intravedere, cosa ne faremo dei dati raccolti, a patto che la durata del loro trattamento sia limitata nel tempo?

Il problema è posto anche dalle Nazioni Unite, dalle quali parte un esplicito ammonimento. Abusare delle misure d’emergenza ha un peso in termini di sacrifici imposti alle nostre libertà che i governi semplicemente non possono permettersi. 

È scettico anche Antonello Soro, presidente del Garante per la protezione dei dati personali. «Mi sfugge l’utilità di una sorveglianza generalizzata alla quale non dovesse conseguire una gestione efficiente e trasparente di una mole così estesa di dati», dichiara all’Ansa. «Vanno studiate molto attentamente le modalità più opportune e proporzionate alle esigenze di prevenzione, senza cedere alla tentazione della scorciatoia tecnologica solo perché apparentemente più comoda».

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Antonello Soro, Presidente del Garante per la protezione dei dati personali.

Oggi che facciamo fatica a immergerci nell’incertezza, e l’obiettivo della tecnologia diventa ridurre il margine di rischio – pensiamo a tutti i piccoli tentativi di rendere più prevedibile la quotidianità – vale la pena domandarsi che cosa dicono di noi i modelli di risposta che scegliamo oggi.

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La sorveglianza digitale è l’opzione più giusta o la più comoda?

I dubbi del Garante, come quelli delle Nazioni Unite, non mettono in discussione il ruolo di risorsa della tecnologia nella lotta contro il coronavirus. La tecnologia è fredda. Ci farà male solo se ne gliene daremo la possibilità. Lo scetticismo sulle ipotesi di tracciamento nasce dal rischio che si usi la tecnologia a svantaggio della privacy non per reale necessità, ma piuttosto a causa della totale incapacità dei leader europei e occidentali di preservare la salute pubblica, sfruttando la paura come leva di decisione. Prima i cinesi, ora quelli che escono di casa. La paura si dovrà pur sfogare su qualcuno. E l’isteria collettiva da coronavirus non finirà finché non si abbasserà la curva di contagio esponenziale. O, più realisticamente, quando la paura verrà sedata da una certa riduzione dell’incertezza. Ecco perché le tecnologie di tracing fanno tanto gola ai governi.  

Ma a spingere nella direzione del tracciamento digitale non sono solo i leader politici. Anche informatici, e medici – primo fra tutti Roberto Burioni – hanno indicato quella dei Big Data come «strada per tornare a una vita normale». 

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Roberto Burioni, medico, ricercatore nel campo relativo allo sviluppo di anticorpi monoclonali umani contro agenti infettivi.

Queste posizioni non dovrebbero sorprendere, producendosi sull’orlo di una crisi sanitaria – ed economica – che Cina e Corea del Sud sembrano star affrontando meglio di noi.

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Ma, ripete Soro, «quelle esperienze sono maturate in ordinamenti con scarsa attenzione – sebbene in grado diverso – per le libertà individuali» 

Il diritto alla privacy e al giusto trattamento dei dati personali è una libertà che di digitale ha solo il coinvolgimento della tecnologia nell’esercizio di tale libertà. Resta un diritto reale, concreto, al pari di tutte le altre libertà individuali. Certo, molti non vedono i costi in termini di limitazione di diritti umani perché lo scenario catastrofico da epidemia incontrollata riempie tutto il nostro immaginario. Ma se il corso degli eventi che si srotola sotto i nostri occhi spinge verso la centralità del pubblico, occorrerà studiare quale modo, quale effetto, e chi si occuperà dei dati che potrebbero – forse – salvare la vita delle persone. Prima che il senso di isteria si trasformi in claustrofobia, on e off line.  

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