Il gol che ha consegnato Kaká alla leggenda

La leggerezza di un calciatore generalmente — e in maniera, in verità, piuttosto antiquata — si valorizza attraverso l’azione che maggiormente permette di riconoscere un interprete del calcio: il gol. La sublimazione definitiva dell’atto, il fine ultimo, il senso di ogni cosa per chi insegue un pallone. Il vero campione, però, si ritrova riconoscibile anche nella qualità più sottovalutata del mondo: la semplicità. Il giocatore importante, infatti, non è solo risoluto ma rende facili le cose difficili, belle quelle brutte, possibili le impossibili. Forse Kaká — di cui abbiamo parlato abbondantemente già in questo approfondimento — rappresenta alla perfezione la tipologia di calciatore (che già precedentemente aveva visto in gente come Maradona e Ronaldinho interpreti esemplari ma dal carattere bizzoso o particolare) abile nell’utilizzare il talento come forma di semplificazione delle cose.

Il talento, si pensa erroneamente, spesso esula dalla componente di concretezza. Per Kaká questo è stato differente. Il brasiliano era sì bello da vedere, sinuoso, stiloso ma anche pazzesco nel trovare lo spazio giusto, il pertugio, la marcatura decisiva. Si può dire, senza esagerare troppo, che Kaká sia stato il precursore di quello che oggi sono Messi e Ronaldo (seppur con caratteristiche inferiori a livello di completezza). Quindi un calciatore che sapeva unire sapientemente la parte romantica del gioco del calcio a quella di finalizzazione. Kaká, poche storie, segnava come un bomber con i piedi di un trequartista vecchio stampo. E la potenza di tutte le affermazioni già pronunciate sta nel fatto che uno dei suoi gol più importanti della carriera sia arrivato nel corso di una partita persa dalla sua squadra. Che, però, pose le fondamenta per l’ultima grande conquista della Champions League da parte del Milan.

Il gol che ha consegnato Kaká alla leggenda

Nella stagione 2006/2007 il Milan è un lontanissimo parente di quello attuale. Fondamentalmente è come zio Paperone paragonato a Paperino, per utilizzare una metafora fumettistica. Sono gli anni degli invincibili di Ancelotti, delle conquiste internazionali, del badge “Il club più titolato al mondo” in bella vista sulla homepage del sito ufficiale. Sono però gli anni anche di Calciopoli, con il Milan condannato a una pesante penalizzazione a causa della responsabilità oggettiva nei confronti dell’addetto agli arbitri Leonardo Meani. Di fatto, il Milan viene ammesso (con riserva) alla Champions League soltanto grazie all’UEFA, dopo la penalizzazione in campionato. E, soprattutto, deve ricominciare dai preliminari.

Non è però quella l’unica brutta notizia. Il calciomercato non è risultato esaltante: i rossoneri — che nel frattempo avevano ritrovato ufficialmente come Presidente Silvio Berlusconi, che dal 2004 aveva dovuto dimettersi per conflitto d’interessi — acquistano il difensore Daniele Bonera, il giovane e talentuoso (ma discontinuo) centrocampista francese Yoann Gourcuff, il terzino (svincolato) Giuseppe Favalli e l’attaccante Ricardo Oliveira, forse uno dei più grandi equivoci di mercato nella storia del Milan (prima o poi ne parleremo). A fronte di questi acquisti, gli addii furono piuttosto pesanti. Andarono infatti via il trequartista Manuel Rui Costa, il difensore Jaap Stam e soprattutto l’attaccante Andriy Shevchenko. La sua cessione sarà individuata per anni come quella più dolorosa e difficile da digerire per la tifoseria, seconda forse solo a quella futura di Kaká. Curiosamente, entrambi i giocatori torneranno poi successivamente al Milan per una singola stagione, con risultati piuttosto mediocri.

Leggi anche: Zlatan Ibrahimovic serve davvero al Milan?

Il percorso prima della semifinale

La stagione non sembra dunque nascere sotto i migliori auspici. Il Milan viene visto come uno team ormai in fase calante, con una squadra conosciuta a memoria dagli avversari. La penalizzazione, gli anni in più dei suoi campioni e un mercato tutt’altro che sfavillante non sembrano rendere il Milan una protagonista credibile per l’intera annata.

In Champions League, come detto, i rossoneri partono eliminando nel doppio confronto la Stella Rossa di Belgrado. Già in questa doppia sfida (1-0 a San Siro, 1-2 in Serbia) peraltro sarebbero emerse evidenti le stigmate da predestinato di Filippo Inzaghi, praticamente entrato in quasi tutti i momenti decisivi delle partite più importanti. Nella fase a gironi il Milan trova un gruppo decisamente abbordabile con Lille, AEK Atene e Anderlecht. Nonostante i soli 10 punti (3 vittorie, un pareggio e 2 sconfitte) i rossoneri vincono addirittura il loro raggruppamento, approdando dunque come prima del girone H agli ottavi di finale.

Il turno successivo a eliminazione diretta si rivela molto più complicato del previsto. Contro gli scozzesi del Celtic il Diavolo fa una fatica disumana. In Scozia è 0-0, anche a San Siro nei regolamentari. Ci penserà proprio Kaká, con un coast-to-coast semplicemente spettacolare, a regalare nei supplementari il passaggio del turno a un Milan che ha giocato più di cuore che di qualità. Paradossalmente, ai quarti contro il ben più quotato Bayern Monaco, le cose si fanno decisamente più dolci. Al pareggio a San Siro per 2-2 pone rimedio la vittoria d’autorità per 0-2 in Baviera, con una partita tatticamente quasi impeccabile. Nonostante le tante difficoltà, il Milan si ritrova dunque in semifinale di Champions per l’ennesima volta, pronto a sfidare il Manchester United.

Sfida tra Diavoli

I Red Devils seguono una narrazione molto simile a quella del Milan. A dispetto di questo momento contemporaneo, in quegli anni lo United era un vero e proprio schiacciasassi. Una squadra ovviamente piena di campioni (tra cui spiccavano i giovani Rooney e Cristiano Ronaldo, quest’ultimo già forte ma non ancora nel pieno della maturità) ma, in questo caso, ben amalgamata anche e specialmente grazie alle capacità gestionali di Sir Alex Ferguson.

La sfida dei Diavoli vive momenti di grande intensità caratteriale già prima del suo fischio d’inizio. Non è solo un confronto tra due modi di fare calcio molto diversi ma pure la sfida tra due allenatori tra i più vincenti del pallone, uno votato all’estetica e l’altro alla solidità. A differenza del Milan, peraltro, lo United se la passava bene anche in campionato. E, difatti, vinse la Premier League con 6 punti di vantaggio sul Chelsea di José Mourinho.

Ancelotti era arrivato a disporre tatticamente la squadra basandosi su quanto aveva detto la prima parte di stagione (non brillantissima) del club. Ricardo Oliveira aveva deluso le aspettative mostrandosi non degno di essere l’erede di Shevchenko e molto spesso il Milan soffriva lo sbilanciamento offensivo attraverso i contropiede avversari. Così, il tecnico ex Juventus studiò una soluzione che divenne poi caratteristica per quella stagione, il cosiddetto “albero di Natale”.

Un 4-3-2-1 nel quale una punta (Oliveira) fu sacrificata all’altare di un centrocampista (spesso Ambrosini ma pure Brocchi) che andava a fare la mezzala. Di contro, Seedorf (o Gourcuff, nelle gare meno importanti) andavano ad appoggiare Kaká nella trequarti, con Inzaghi dominatore dell’area di rigore anche a causa dei forfait costanti di Ronaldo (il Fenomeno), che regalava sprazzi di classe ma era costantemente vittima di problemi fisici, oltre che della momentanea inconsistenza e inesperienza di Gilardino per il livello europeo. In quell’occasione specifica, peraltro, Ancelotti dovette fare a meno anche di due pilastri come Maldini e Gattuso, impossibilitati a prendere parte al match.

Leggi anche: Il fallimento Ancelotti a Napoli, un’analisi

Kakà
Fastforward: Kaká che esulta dopo la seconda rete al Manchester United è gioia mista a incredulità, con un pizzico di “l’ho fatto ancora” – FOTO: ESPN Brasil

La gara a Old Trafford — lo stadio in cui, ironicamente, aveva vinto la sua ultima Champions — si mette però in salita. Questo perché è CR7 a portare in vantaggio i suoi, complice un bel pasticcio di Dida. Da quel momento in poi, però, Manchester United-Milan diventa la gara di Kaká. E il Teatro dei Sogni di Manchester è il palcoscenico perfetto per un’esibizione degna di Broadway. Proprio il brasiliano pareggia con un diagonale da applausi eludendo in marcatura Gabriel Heinze. Già questo, a guardarlo e riguardarlo, parve un gol di una difficoltà clamorosa che solo uno come Kaká poteva riuscire a rendere realisticamente possibile. Kaká è stato, negli occhi dei bambini dell’epoca, quel calciatore che faceva dire, guardandone i video in tv: «Allora questa cosa non è così complicata, posso farla anche io!». E invece no, perché complicata lo era sul serio.

Masterpiece

Il vero capolavoro però arriva al minuto 37. Dida rilancia lunghissimo il pallone con il suo mancino. La sfera è diretta verso la zona sinistra d’attacco del Milan, quella presidiata appunto da Kaká. Il numero 22 si esibisce in corsa tra Fletcher e (leggermente più distanziato) Heinze, riuscendo a toccare il pallone di testa in contrasto con lo scozzese per allungarlo il più possibile. L’azione, in verità, sembra già sfumata per vari motivi. In primis, Kaká è di fatto chiuso in sandwich da ben due giocatori. Oltre a questo si trova in una posizione defilata, lontanissimo dalla porta. Infine, la sua fisicità non dava modo di pensare che potesse uscire vincitore dalla morsa del suoi marcatori. Che, però, commettono l’errore di non stringere troppo la presa. Forse perché concentrati solo sul pallone o, semplicemente, perché sarebbe stato difficilissimo per chiunque sbrogliare quella situazione.

Invece Kakà non solo brucia in velocità il 24 in rosso ma si fa beffa — per la seconda volta in serata — di Heinze con un sombrero eseguito perfettamente nonostante la rapidità di movimento, con grande pulizia. La serata da incubo di Heinze però è ben lontana dal termine. L’argentino, difensore grintoso ed esperto, vedendosi saltato cerca di aiutarsi con il fisico provando a spostare il carioca. In contemporanea, Patrice Evra — che da ragazzino aveva giocato nel Monza e che poi si vedrà sia con la Juventus che capitano della Nazionale francese — effettua la diagonale per chiudere ogni spazio, avvicinandosi come una sentenza. Per la seconda volta, l’azione sembra ormai finita. Per la seconda volta, Kaká la porta avanti. Ancora una volta con un furbo colpo di testa.

Ciò che scaturisce dopo è quasi comico. Come due treni in corsa Heinze ed Evra, che guardavano solo il pallone, si scontrano tra loro (rischiando peraltro anche di generare conseguenze fisiche nefaste, fortunatamente non sarà così) e lasciano campo libero, in zona centrale, a un Kaká ormai arrivato in piena area di rigore. Una scena che, a vederla con il main theme di Benny Hill, genererebbe un effetto meravigliosamente divertente. Per i Red Devils, però, non c’è niente da ridere: tre uomini sono stati saltati come birilli, in condizioni di vantaggio numerico e tattico, da un calciatore solo.

Kakà
Un disegno simpatico ma chiarissimo su quanto accaduto – FOTO: Zezo Cartoons

A quel punto Kaká è solo davanti al portiere, l’ex juventino van der Sar. Le soluzioni da intraprendere sono molteplici, così come numerosi sono i rischi. L’olandese, infatti, è un estremo difensore molto alto, abile a coprire in lunghezza e in altezza la porta. Probabilmente, il Kaká delle stagioni precedenti si sarebbe fatto ipnotizzare dall’ex Ajax. Ma il 22 del Milan vive una stagione di onnipotenza davanti alla porta, che non a caso lo porterà a diventare proprio il miglior marcatore di quella edizione della Champions League con 10 segnature.

Così, con enorme nonchalance, sfruttando il rimbalzo precedente del pallone Kaká ha la possibilità di ricevere un tiro apparecchiato in corsa. Apre magnificamente il piattone col destro prendendo l’unica soluzione con maggiori probabiltà di realizzazione da scegliere: bruciare un portiere lento e pesante nell’allungo basso, nonostante quest’ultimo gli avesse chiuso lo specchio, mirando all’angolino. Tutto si tramuta in un trionfo.

Onnipotenza calcistica

Dal calcio di punizione battuto da Dida alla palla insaccata in rete sono passati esattamente 11 secondi, nei quali Kaká ha letteralmente umiliato tutta la difesa di una delle squadre più forti al mondo con una naturalezza disarmante, quasi bambinesca e illusoria. Il Milan finirà per perdere quella gara 3-2, con doppietta di Rooney (secondo gol nei minuti finali, a causa di una palla persa a centrocampo da Brocchi). Ma la partita consacrerà un Kaká versione God mode, semplicemente imprendibile per gli avversari e forse pure per il sé stesso del futuro.

Il Milan vincerà quell’edizione dell Champions League, rinascendo dalle sue ceneri. Lo United sarà punito con un pesante 3-0 al ritorno e poi, ad Atene, Pippo Inzaghi (secondo gol su assist del brasiliano) scriverà la storia della rivincita di Istanbul. Kaká sarà poi eletto Pallone d’Oro 2007 con 444 voti, doppiando in seconda e terza posizione Cristiano Ronaldo e Lionel Messi (ma guarda un po’). Kaká è stato, in effetti, l’ultimo baluardo reale che ha saputo contrastare l’ascesa del duopolio del fenomeno portoghese e di quello argentino. Un giocatore fortissimo che ha saputo rendere semplice, per tanti anni, uno sport complicato. Come tutti coloro i quali valga la pena ricordare.

Impostazioni privacy