Si può essere vincenti pur perdendo e, incredibilmente, si può perdere pur vincendo. Quanto accaduto al Napoli la sera del 10 dicembre, dopo la roboante vittoria in Champions League contro il malcapitato Genk, sembra sottolineare perfettamente queste due affermazioni. Soprattutto la seconda. Protagonista indiretto ma assoluto della vicenda è un tecnico mitologico, un uomo perbene, così come una persona stimata e rispettata nel mondo del calcio. Chi scrive è cresciuto con il sontuoso calcio del Milan leggendario e formato europeo di Carlo Ancelotti, che da qualcuno era stato chiamato “maiale”; Ancelotti in seguito, ha fatto chiaramente comprendere – come da titolo attribuitogli – di preferire la Coppa. Come un ironico e beffardo – per chi quegli epiteti li aveva coniati – scherzo del destino.
Ne abbiamo parlato tanto. Arrivato a Napoli con grandi proclami e intense promesse ormai impossibili da mantenere («Non sono qui a pettinare le bambole» e «Il nostro obiettivo è vincere lo Scudetto» grideranno per sempre vendetta), Carlo Ancelotti è andato incontro a quello che forse verrà ricordato come il fallimento più eclatante della sua brillante carriera. Un brutto tonfo che, a conti fatti, lui stesso non ha cercato di frenare, quasi facendosi uno sgambetto. Ancelotti è ormai come John Cena negli ultimi anni di wrestling attivo. Il suo status è leggendario, può vincere o perdere, non cambierà la sua percezione tra gli addetti ai lavori. Quanto fatto, inevitabilmente, rimarrà. L’avventura con il Napoli è stata però molto negativa, a tratti disastrosa. Così come, invece, l’inizio aveva lasciato presagire qualcosa di potenzialmente magico. In un mondo reale, però, spesso le magie non si avverano. E le favole non hanno lieto fine.
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Il fallimento Ancelotti a Napoli: un’analisi
“Fallimento” è una parola pesante. Eppure, a malincuore, è l’unica da utilizzare per un anno e mezzo del genere. Ancelotti, come ribadito, era arrivato a Napoli con grandi prospettive personali. La possibilità, nonostante i tantissimi anni di esperienza, di risultare un tecnico vincente anche con una della squadre meno forti (attenzione: non scarsa) allenate in carriera. La chance di portare a termine un’impresa riuscita soltanto a pochissimi eletti: quella dello Scudetto nel capoluogo campano. Ma anche l’ambizione di riscattare definitivamente le ultime annate non proprio brillanti. In particolare, gli ultimi mesi al Bayern Monaco (che presenteranno poi evidenti similitudini con quelli partenopei).
Anche per l’altra faccia della medaglia le aspettative erano altissime. De Laurentiis aveva parzialmente tenuto a bada i tifosi dopo l’addio di Sarri con un colpo da teatro, andando a prendere un tecnico plurivincente e stimato. La stessa città pareva subito conquistata dall’allenatore e dalle sue dichiarazioni. Parole volte a far innamorare e infiammare la piazza, come aveva fatto il fu ribattezzato Comandante (poi divenuto traditore). Un’arma a doppio taglio che si è rivoltata contro Ancelotti, dal momento in cui i risultati hanno inziato a latitare.
La Napoli calcistica è composta da molte vedove. Reja, Mazzarri, Benitez, Sarri sono alcuni degli allenatori recenti della storia azzurra che ancora oggi risultano rimpianti – per motivi diversi – da una consistente fetta di pubblico. Ancelotti rientrerà soltanto in minima parte tra questi, se non in maniera pressoché assente. Questo perché il tifo lo ha individuato come colpevole di aver smontato un giocattolo perfetto, figlio di una meravigliosa utopia e della volontà di riscrivere la storia. Ma Ancelotti la sua storia l’aveva già scritta. E ha così deciso di sacrificare le certezze precedenti sul trono del suo idealismo. Come d’altronde qualsiasi tecnico con una sua idea sarebbe portato a fare. Si potrebbe quasi dire che anche solo accettare Napoli è stata per Ancelotti una sconfitta annunciata, visto quanto era accaduto prima. Un tentativo fallito anche di confermare l’internazionalizzazione del club, iniziata con l’era Benitez ma mai del tutto portata a termine.
Gli equivoci e il non detto
Il più grande equivoco della gestione Ancelotti sarà per sempre individuato come quello tattico. Nelle prime conferenze stampa l’ex tecnico di Milan e Real Madrid si era spesso affrettato a specificare che del Napoli di Sarri sarebbe cambiato poco. Ci sarebbe stato un upgrade, certo. Delle impostazioni differenti, delle integrazioni, una certa verticalità nel modo di affrontare la fase d’attacco. E il modulo sarebbe rimasto lo stesso. Quest’ultima la “bugia” che il popolo non ha perdonato a Re Carlo. Il suo Napoli ha utilizzato il 4-3-3 per tre gare ufficiali di campionato contro Lazio, Milan e Sampdoria. Bottino di sei punti, frutto di due vittorie (contro le squadre sulla carta più quotate) e una sconfitta contro i doriani.
Il K.O. alla terza giornata dello scorso campionato ai maligni è sembrato quasi un pretesto perfetto per Ancelotti per accantonare definitivamente il Napoli precedente, un progetto fatto di palleggio esasperato, possesso costante e orizzontalità, dal suo, sempre offensivo – paradossalmente anche di più, di fatto un 4-2-4 con i terzini entrambi alti – e decisamente poco equilibrato. Le parole pacate del tecnico hanno mascherato un cambiamento decisamente importante, a cui forse squadra e ambiente non erano pronti. Da compagine di personalità, devastante per gli avversari, il Napoli pian piano è diventato più prevedibile, meno grintoso, spesso si è specchiato nel valore dell’avversario giocando benissimo contro grandi squadre e malissimo contro rappresentative meno forti.
Nonostante questo, fino al dicembre del 2018 molte cose erano andate bene. Il Napoli lottava per il campionato, era in piena corsa anche per gli ottavi di Champions League. Seppur senza continuità (la miglior striscia positiva di Ancelotti vanta “solo” quattro vittorie di fila, peraltro in un periodo ininfluente della stagione come il fine campionato) gli azzurri erano ancora al centro del villaggio, per ballare da protagonisti.
Le sconfitte contro Liverpool e Inter hanno però ammazzato la squadra, togliendole convinzioni e punti pesantissimi. Ancelotti, nell’anno e mezzo alla guida del team, ha sempre sottolineato davanti alla stampa la necessità della squadra di dover crescere a livello mentale, nell’approccio psicologico delle partite. Un tema che a Napoli si ripete da anni e che nemmeno un maestro come lui è riuscito a risolvere. Perché, a conti fatti, la mentalità vincente non la si compra al mercato. La si può acquisire, per l’appunto, soltanto attraverso le vittorie.
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Le colpe non sono solo di Ancelotti
Al di là delle varie pecche della gestione Ancelotti – il rapporto tribolato con Insigne, molti giocatori fuori ruolo, un’eccessiva volontà di credere nelle proprie pseudo-certezze – sembra impossibile credere che la colpa di questo tracollo recente (che in realtà era iniziato prima) possa essere solo sua. Già nel mercato estivo del suo arrivo il Napoli, un po’ in sordina e con la solita grande plusvalenza, aveva perso un giocatore importante come Jorginho. Proprio in previsione di una tipologia di gioco diverso e di un cambio di modulo inizialmente solo sussurato ma in realtà voluto fortemente, gli azzurri avevano deciso di privarsi del regista, uno dei migliori al mondo.
Una cessione che ora il Napoli paga in maniera salata, forse a un prezzo molto più alto di quanto si aspettasse. Perché l’italo-brasiliano era il collante perfetto nonché l’equilibratore tra la fase offensiva e quella difensiva. Non è un caso che i numeri difensivi del Napoli di Ancelotti siano decisamente insufficienti se paragonati a quelli di Sarri. Ed è proprio ora che inizia il concorso di colpa con la società, che forse non è stata in grado di esaudire degnamente le richieste del tecnico (il quale forse, a sua volta, non ha saputo imporsi in sede di mercato nonostante il peso mediatico) e ha lasciato andar via con troppa leggerezza alcuni giocatori.
Altra questione spinosa è infatti quella dell’addio di alcuni senatori. In estate l’addio di Reina è stato accolto con un po’ di malinconia ma anche con un velo di malcelata gioia, per un giocatore ritenuto non più su altissimi livelli. Il parco portieri del Napoli è cambiato e, di fatto, gli azzurri non ci hanno perso; anzi, con Meret è arrivato persino un guadagno netto. Il vero spartiacque dell’avventura azzurra di Ancelotti risiede però nella cessione affrettata e paradossale di Marek Hamsik. Lo slovacco, capitano e uomo spogliatoio degli azzurri, viene mandato in Cina e il Napoli di fatto non solo non lo sostituisce sotto il profilo tecnico/tattico ma ne sente anche la mancanza interna.
Il colpo di grazia è stato poi l’addio di Raul Albiol, difensore di impostazione e uomo forte di uno spogliatoio a tratti frammentato. La sua dipartita sportiva ha tolto certezze non solo in campo ma anche psicologiche. Al di là di qualsiasi smentita di rito, il Napoli attualmente non possiede un leader di spogliatoio in grado di prendere in mano le redini di ogni situazione. A fronte di queste considerazioni, dunque, sembra meno irreale anche ogni evento recente, ammutinamento compreso.
Gli stessi calciatori, peraltro, hanno dimostrato molto spesso di non essere più in grado di raggiungere nuovamente certi livelli. A volte abulici, spesso seccati, in molti nel recente anno e mezzo non hanno di certo dato il meglio. In un calcio che fa del trionfalismo e del j’accuse le linee guida principali, vanno sottolineate – come anche lo stesso Ancelotti ha cercato di fare – anche le pecche dei giocatori. Che, alla fine, sono gli uomini che vanno in campo e scrivono il risultato. E che forse proprio con Ancelotti non hanno avuto un rapporto idilliaco. Al di là degli auguri post esonero da copia-incolla e le accuse di lacrime da coccodrillo.
Una gestione da rivedere
Se a tutto ciò si aggiunge una certa componente di sfortuna (Napoli squadra con più legni in Europa e in Italia negli ultimi due anni), un gruppo a fine ciclo (che probabilmente dalla prossima stagione cambierà moltissimo) e una piazza decisamente umorale, l’avventura napoletana del Re di Coppe non poteva che risultare un fallimento. La stessa gestione finale della situazione del tecnico a tratti è risultata imbarazzante e realmente (e nuovamente) nociva per l’immagine di una società che a molti continua a sembrare provinciale nei modi e nei tempi.
Dopo nove partite di fila senza vittorie, Ancelotti viene esonerato circa tre ore dopo una qualificazione agli ottavi di Champions League conquistata con un girone chiuso da imbattuto (prima volta nella storia del Napoli) e dopo una conferenza stampa nella quale spiegava di non volersi dimettere. Il tutto dopo che, per settimane, la dirigenza aveva ribadito la fiducia al tecnico nel momento più difficile.
Un peccato estremo per un grande allenatore che cercava momenti di libidine in un club poco abituato a vincere. Un dispiacere enorme per i tifosi che speravano in un tecnico ancora capace di fare la differenza e di dare un valore aggiunto. Una sconfitta per tutti. Perché, come già detto, si può perdere anche dopo un 4-0 a favore. E mai come in questo caso il Re è davvero nudo.