Cose mai viste, anche di giorno: Fuori Orario su Rai Play

Tra le varie e generose iniziative di streaming gratuito nate durante l’appena concluso periodo di isolamento forzato, il cinema d’autore si è ritagliato uno spazio speciale grazie alla programmazione di Fuori Orario in esclusiva su Rai Play.

Roberto Turigliatto, noto critico cinematografico e tra gli autori della trasmissione, ha raccontato della decisione del famoso programma televisivo di Rai 3 di approdare sulla piattaforma streaming Rai Play, uscendo così per la prima volta dalla dimensione notturna di programmazione. Il progetto, «rappresentativo dello spirito del programma» come ha lui stesso dichiarato, è in realtà precedente al periodo di quarantena e al momento si compone di una piccola ma significativa selezione di ventiquattro titoli cinematografici.

Fuori orario e Rai Play

Fuori Orario, trasmissione che ha il merito di portare sul piccolo schermo film italiani e internazionali acclamati e premiati dalla critica ma purtroppo spesso non distribuiti in Italia, va in onda dal 1988 e vede tra i suoi fondatori Enrico Ghezzi. Inizialmente concepito come talk show sui generis accompagnato da spezzoni audiovisivi, il programma si compone anche di frammenti di cortometraggi, interviste e materiale d’archivio dandosi come obiettivo proprio quello di mandare in onda cose mai viste. Tra i partecipanti al programma vi erano anche David Riondino e Tatti Sanguineti. Ghezzi, che è anche tra gli ideatori di Blob, ha spesso usufruito di vari estratti dalle Teche Rai, creando quindi un vero e proprio sconfinato contenitore di immagini capace di far ragionare sull’evoluzione della nostra società.

Come molti (forse) ricordano, la storica sigla di Fuori Orario era costituita da una sequenza del film L’Atalante di Jean Vigo, considerato uno dei massimi capolavori del cinema francese degli anni Trenta, a cui si accostava il brano Because the Night di Patti Smith. Dal 2017 però, a causa di alcuni problemi relativi ai diritti d’autore, la sigla prevede una canzone diversa per ogni puntata.

Tra le opere scelte per Ray Play troviamo una breve retrospettiva sul regista giapponese Yoji Yamada, famoso per la Trilogia dei samurai e per una lunghissima serie di film con protagonista un vagabondo chiamato Tora-san. Questa serie, composta da ben quarantotto capitoli, è considerata una delle più lunghe della storia del cinema, superata solo dalle pellicole di arti marziali di Wong Fei Hung.

La selezione comprende inoltre alcuni classici restaurati come Mattone e specchio e We Can’t Go Home Again, insieme a titoli più recenti tra cui Gimme Danger di Jim Jarmusch dedicato al leggendario Iggy Pop e la band The Stooges.  Nell’insieme di queste opere elogiate dalla critica si colloca anche Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, film del 2010 scritto e diretto dal regista thailandese Apichatpong Weerasethakul.

Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti

Unica pellicola thailandese ad aver conquistato la Palma D’oro, questo film rappresenta un vero viaggio magico in cui si esplora il concetto di vita e ciò che ne segue. Il protagonista, lo zio Boonmee del titolo, è un malato di reni che viene assistito dalla cognata Jen e da suo figlio.

Durante una cena, in una delle scene più intense e misteriose dell’opera, appaiono il fantasma di sua moglie e del figlio, ora diventato una grande scimmia in stile Chewbacca dagli occhi rossi come luci laser. Questi elementi apparentemente bizzarri e al di fuori della realtà vengono però introdotti con lo stesso spirito che permea tutto il film, un sentimento di pace e accettazione della circolarità della vita.

Weerasethakul ben descrive in questa opera illuminante la filosofia buddista del samsara, ovvero dell’esistenza intesa come un ciclo di vita che riguarda tutti gli esseri in cui la morte non rappresenta la fine ma un passaggio, una rinascita. Accanto a questa visione troviamo un altro dei punti cardine della religione buddista e più in generale della cultura asiatica, il concetto di karma. Boonmee sa che la sua malattia può essere letta come conseguenza dell’aver ucciso diversi comunisti durante la guerra e che questo è il suo modo di liberarsene. Spiritualità e modernità si legano tra loro nel singolare modo di rappresentare e far conoscere la cultura thai del regista.

All’interno del film vi è anche uno spezzone scollegato dalla trama centrale che racconta la storia di una principessa e del suo incontro con un pesce gatto con cui si accoppia per ottenere la bellezza a lungo desiderata. Questo episodio, un probabile ricordo di una vita passata dello stesso Boonmee, si inscrive all’interno di un profondo rapporto con la natura e con i suoi esseri (come il bufalo della scena di apertura) con paesaggi spesso al centro della scena, allo stesso tempo connessi e al di sopra dello stato d’animo dei personaggi.

Di grande intensità anche una delle scene finali della pellicola, in cui Jen e suo figlio sembrano sdoppiarsi nell’ottica di un possibile rimando alla dottrina anattā: non esiste alcun elemento permanente e immutabile in tutti gli esseri viventi e dunque non esiste un vero Sé. Tutto è immerso in un continuo flusso in cui parti di noi si disgregano, e continuano ad occupare luoghi del passato.

Leggenda e religione si confondono in questo film, o sogno di un film, pervaso da un senso di purezza tale che anche le apparizioni dei fantasmi non creano alcun terrore ma sono vissute con serena consapevolezza e con la giusta dose di respiro e silenzio. L’elemento irrazionale diventa necessario alla creazione di un cinema capace di comunicare in una modalità differente ma sempre più in profondità rendendo la visione di Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti un’occasione da non perdere e straordinariamente reperibile grazie a Rai Play.

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