Politica e futuro secondo Giulia Pastorella

Giulia Pastorella, 34 anni, originaria di Milano ma trapiantata all’estero non ancora maggiorenne, prima in Inghilterra e attualmente a Bruxelles, è uno dei volti più in vista di una nuova generazione di giovani politici. Un curriculum notevole – vanta un PhD alla London School of Economics con una tesi sui governi tecnici in Europa – l’ha portata a lavorare in una grande multinazionale della tecnologia dove gestisce la strategia globale riguardo data policy cybersecurity. Come spesso racconta ha deciso di impegnarsi nella politica attiva dopo il referendum su Brexit che ha vissuto mentre lavorava a Londra. Il suo impegno l’ha portata ad essere candidata per +Europa alle elezioni legislative del 2018 in Circoscrizione Europa e alle elezioni europee del 2019 nella Circoscrizione Nord Ovest. Già nella direzione di +Europa, a novembre 2019 è entrata a far parte del Comitato Promotore di Azione in attesa di una fusione tra i due partiti; pochi giorni fa, dopo qualche mese negli organi direttivi dei due partiti, ha deciso di abbandonare +Europa per dedicarsi totalmente ad Azione. TheWise Magazine l’ha incontrata per parlare del suo impegno attivo, della situazione politica del campo liberale e del futuro di Azione.

Perché hai deciso di fare politica? Quali sono le motivazioni che ti spingono a interessarti della cosa pubblica italiana mentre vivi all’estero da anni? 

«Quando mi chiedono “perché la politica?”, risponderei perché no? Bisognerebbe disinteressarsi solo perché si è all’estero? Solo perché si ha un lavoro o solo perché non si è discriminati?  Alla politica non dovrebbero interessarsi solo quelli che hanno dei problemi o delle frustrazioni. Secondo me si devono sentire coinvolti anche quelli che come me hanno la fortuna di stare bene: credo che si debbano interessare perché altrimenti la politica si interessa a loro.
Per quanto riguarda la mia condizione di italiana all’estero, spesso mi dicono: “Ma come pensi di poter far politica dall’estero?”. Mi viene obiettato che in realtà io non conosco l’Italia e quindi non posso fare alcunché per migliorarla. Io rispondo sempre che questo è molto falso: è proprio facendo un passo indietro e godendo di una prospettiva esterna, che si riesce ad essere più obiettivi rispetto alla situazione italiana. Ciò non vuol dire assumere il solito atteggiamento esterofilo, quello che sostiene che tutto va bene ovunque tranne che in Italia; significa che, avendo fatto esperienze in diversi altri paesi in cui ho vissuto, posso contestualizzare la situazione italiana in un panorama più ampio che mi aiuta a capire cosa si può migliorare e cosa non va. E comunque – è buffo che a dirlo sia una convinta europeista come me – il sangue non è acqua: esiste un legame col mio paese che mi fa avere una comprensione privilegiata che forse mai riuscirò ad avere con l’Inghilterra nonostante 12 anni passati là. Parlo di quelle sfumature che servono per fare politica, quel contatto con i cittadini che ho vissuto in campagna elettorale, quelle sensazioni che restano anche se vivi all’estero».

Dalla tua prospettiva, quindi, cosa si può migliorare e cosa non va Italia? Quali sono le tue idee per l’Italia?

«Fondamentalmente ci sono tre pilastri che credo siano centrali nel futuro dell’Italia. Per primo, è necessario guardare al futuro, in particolare guardare a un futuro sostenibile: significa non occuparsi solamente dei problemi del presente e non basarsi sulle tempistiche elettorali. Bisogna che i politici abbiano il coraggio di pensare in modo lungimirante e che si occupino anche di quelle generazioni che ancora non sono “sedute al tavolo”, ma che hanno diritto che i loro interessi siano rappresentati.

Successivamente, credo che sia frustrante vedere quanta potenzialità sprecata c’è nel nostro paese. Non parlo del cliché del genio italico in fuga o dell’aneddotica sugli scienziati che vincono il Nobel solo quando vanno all’estero. Parlo del know-how e del tessuto produttivo che permette all’Italia di restare tra le economie più avanzate, nonostante le problematiche della burocrazia, del sistema giudiziario e del sistema politico. Questa potenzialità va lasciata libera: ciò non significa ovviamente eliminare qualsiasi intervento statale. Sappiamo bene che in questo momento di crisi l’intervento statale non è solo necessario ma anche benvenuto. L’idea è di eliminare il più possibile tutte quelle barriere a cui ho appena fatto riferimento: burocratiche, normative, di sistema giudiziario, di regole per fare impresa. Il potenziale c’è, lo vediamo tutti, ma è come se fosse costretto in una camicia di forza.

Infine, essendo convinta che l’Italia debba restare come protagonista nel progetto europeo, bisognerebbe rispettare gli standard a livello europeo in maniera di diritti. Come paese siamo molto indietro su tanti fronti: diritti LGBT+, fine vita, cannabis, Ius Soli. Non dovremmo soltanto adattarci agli standard più avanzati dei paesi europei ma dobbiamo soprattutto evitare a tutti i costi di scivolare indietro. Quello che mi fa paura degli ultimi due governi è che sembra esserci veramente poca attenzione ai diritti e anzi, si può addirittura avvertire un passo indietro sui diritti umani quando pensiamo ai decreti sicurezza».

Questi temi appartengono tipicamente al campo liberale: negli ultimi tempi si avverte un certo fermento sia a livello culturale che politico. Allo stesso tempo si nota un problema di unità e coordinamento: ci sono tre partiti – Italia Viva, +Europa e Azione – che insistono sullo stesso segmento elettorale ma non collaborano e spesso sono accusati di essere guidati in modo personalistico. Tu hai da poco fatto la tua scelta definitiva, abbandonando +Europa per restare ad Azione. Perché?

«Per quanto riguarda il problema della politica personale, credo non sia un problema solo del campo liberale. La Lega è Salvini, Fratelli d’Italia è la Meloni, Forza Italia quando era ancora seriamente rilevante era Silvio Berlusconi. Probabilmente solo il Partito Democratico oggi ha una leadership meno forte e più collegiale. Credo dunque che sia un problema della maniera di fare politica e di ciò che gli elettori si aspettano dalla politica: oggi gli elettori si aspettano di avere un leader forte e carismatico e soprattutto riconoscibile. Credo che sia un’evoluzione della politica  che attraversa tutto lo spettro politico.

Per quanto riguarda la mia scelta, sono rimasta in Azione perché ritengo che in Italia oggi ci sia bisogno di un partito che agisca nel metodo come Azione.  Sia durante la crisi che in precedenza Azione ha sempre contribuito con proposte concrete sui temi fondamentali per il futuro dell’Italia. La scuola, la sanità e l’economia, cioè i tre pilastri su cui un paese si fonda. Azione è molto solida e preparata su questi tre fronti: il suo approccio di fare politica è basato sui contenuti, quasi più che sugli ideali, ed è per questo che è la scelta giusta. Non vuol dire che non apprezzi la maniera di fare politica di più Europa, dove ho militato per tre anni, ma penso che oggi stia passando una difficile fase di ricerca della sua identità. In questo momento mi sembra più giusto, viste le mie competenze e visto il mio passato, concentrarmi su un partito che ha un tipo di focus pragmatico».

La tua militanza contemporanea in Azione e in +Europa era concepita in vista di una futura fusione dei due partiti, di cui si è parlato molto ma che non si è realizzata: perché?

«Sulla mancata fusione – che ovviamente auspico tuttora anche se ho abbandonato +Europa – ci sono diverse interpretazioni: chiaramente ognuno tende a dare la colpa all’altro. C’è chi dice che Calenda spingeva troppo per una fusione, chi dice che invece la Bonino non voleva neanche la federazione; ci sono tantissime ipotesi e io non so quale sia la verità. Di solito la verità sta sempre in mezzo, e personalmente credo che si sia verificata una combinazione di tempistiche un po’ sbagliate, probabilmente accelerate, inasprite da retaggi del passato presenti nei protagonisti. Non ho una risposta precisa, ma la mia speranza è che si cominci il prima possibile un percorso di avvicinamento: ciò non vuol dire arrivare a ridosso delle elezioni e unirsi, perché questo gli elettori giustamente non lo apprezzano. Sarebbe necessario fare un percorso più lungo e, visto che in teoria c’è tempo, sarebbe bene iniziare da adesso».

Credi che la personalità dei leader ostacoli la scelta di un nuovo leader, semmai più giovane, che possa unire i due campi? Potresti essere te questo nuovo leader?

«Personalmente non ho mai trovato ostacoli a mie prese di responsabilità. In +Europa sono cresciuta politicamente senza mai essere messa in un angolo a causa della mia età. Ugualmente in Azione: sono nel comitato promotore che è l’organo dirigenziale del partito e non ho mai incontrato ostacoli strutturali a prendere posizioni di responsabilità. Oltretutto un cambio di leader non é necessariamente auspicabile come mossa. Che senso avrebbe mettere da parte leader credibili come Calenda o Bonino in favore di qualcuno purché giovane? Certo, dipenderebbe tutto dalle caratteristiche di un nuovo ipotetico leader giovane, ma c’è un punto ulteriore. E’ triste dirlo, ma in un Paese come l’Italia generalmente si ha la tendenza a dare più fiducia a persone più anziane. Mi domando quindi se avere un leader giovane avrebbe lo stesso effetto trascinante e dirompente che ha avuto in Finlandia, in Canada e in altri paesi del mondo. Non sento quindi la necessità di un cambio di leadership – in fondo Calenda non si è ancora mai testato come leader principale in una forza politica di governo – ma allo stesso tempo non credo che ci saranno ostacoli di alcun genere se mai verrà il momento di qualcuno con caratteristiche diverse.
Poi, lo ripeto spesso e ci tengo, Azione non è solo Calenda: lui è il leader, ma c’è anche molto altro – e molte altre persone validissime – in Azione».

Però pubblicamente è semplice percepire Azione come un partito basato principalmente sulla personalità e sulle proposte di Calenda.

«Certamente Calenda è molto più pubblico di chiunque altro in Azione, forse anche più di Richetti che pure è senatore e ha una storia politica di tutto riguardo: quindi capisco e ammetto che è un aspetto potenzialmente critico del partito. Per questo credo che nei prossimi mesi bisognerà capire se c’è la volontà di una leadership più plurale, che magari metta in primo piano più facce diverse, più persone».

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