Livio Senigalliesi: fotografare gli effetti collaterali della guerra

La narrazione diffusa attraverso media, testi storici e manuali dei conflitti che hanno segnato il Novecento
e che stanno segnando il nostro secolo tende a concentrarsi sugli eventi bellici come momenti caratterizzati
da un inizio e da una fine, privi di reali strascichi. In verità, la violenza non è mai esente da effetti collaterali sul piano economico, sociale e individuale. Effetti Collaterali è infatti il titolo della recente mostra di Livio Senigalliesi.

Esempio evidente di questi effetti devastanti a lungo termine è l’agent orange o agente arancio, un erbicida ampiamente utilizzato dall’esercito statunitense durante la guerra del Vietnam, i cui effetti, come tumori e problemi nello sviluppo psicofisico, sono ancora visibili sulla popolazione a distanza di anni dal conflitto. Strascichi di questo tipo possono essere raccontati e denunciati dal fotoreportage. La fotografia infatti può essere intesa come documento storico da cui partire per analizzare criticamente i fatti, ma anche come efficace mezzo comunicativo per denunciare la guerra e promuovere la cultura della pace.

livio senigalliesi
Doboj/Republika Srpska, 1995. Foto: Livio Senigalliesi.

Oggi theWise Magazine ha incontrato Livio Senigalliesi, giornalista e fotografo specializzato in fotoreportage di guerra.

Come ha iniziato a fotografare?

«La macchina fotografica è stata un sogno nel cassetto da quando ero un ragazzo. Non me la potevo certo permettere con i problemi che c’erano in famiglia per arrivare alla fine del mese. Sono cresciuto in una povera famiglia operaia dell’hinterland milanese e non avevo grilli per la testa. Tornato dal servizio militare andai a lavorare in fabbrica. La prima reflex, una Canon manuale, arrivò con un bacio, all’improvviso, quale regalo di compleanno della mia fidanzata d’allora… ancora non sapevo che con quella reflex mi sarei guadagnato da vivere e avrei girato il mondo. Gli anni della gavetta sono stati duri, com’è giusto che sia. Non mi ha regalato niente nessuno e i galloni me li sono dovuti guadagnare sul campo».

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Per lei la fotografia ha una valenza politica e sociale?

«L’impegno politico mi portò a collaborare con quelle testate della sinistra che davano spazio alle tematiche sociali. Crescere all’interno del collettivo del quotidiano il manifesto mi ha dato tanto. È stata una vera scuola di giornalismo dove ho imparato giorno dopo giorno la passione per l’inchiesta e l’approfondimento, a capire le ragioni degli uni e degli altri. Lezioni che mi sono servite anni dopo per comprendere scenari complessi come quello jugoslavo, dove ci voleva tanta voglia di capire le origini dell’odio. Il mio motto è: studiare il passato per comprendere il presente».

C’è una foto a cui è particolarmente legato?

«Ho vissuto a Sarajevo i tre lunghi anni dell’assedio in mezzo a carneficine e sofferenze di ogni tipo. In mezzo a tanto dolore, spunta come un raggio di sole la storia della bella Sanja, giovane top model di Sarajevo. Figlia di un colonnello dell’Armjia Bosniaca, Sanja, prima ancora di conoscere l’amore, aveva imparato a sparare e ad uccidere. A soli sedici anni faceva il cecchino nelle trincee del monte Igman. Catturata dai nemici e sottoposta per mesi a ogni violenza, venne scambiata con altri prigionieri ed ebbe salva la vita. Non fu facile ricucire le sue ferite fisiche e psicologiche, ma la sua voglia di vivere la aiutò a rinascere.

La incontrai in una cantina buia nella sua casa nel quartiere di Dobrinja, vicino alla prima linea. Poche candele, musica a palla per coprire le esplosioni delle bombe, sfilava con le sue amiche, con un libro sulla testa, sognando di fare l’indossatrice. Le foto che le scattai furono pubblicate da numerosi settimanali italiani e stranieri e Sanja ne andava orgogliosa. Alla fine dell’assedio, Sanja e le sue amiche coronarono il sogno. La guerra aveva distrutto la loro giovinezza ma non il loro futuro. Divennero le modelle più famose della Bosnia».

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Sarajevo/Bosnia, 1996 (Sanja Risvanovic). Foto: Livio Senigalliesi.

Quali sono i vantaggi di un fotoreportage, rispetto a un testo scritto?

«La fotografia è un documento capace di sostituire più di mille parole e in più ha una vita molto più lunga di qualsiasi articolo. Per spiegarmi, faccio sempre il seguente esempio. Il giorno dello sbarco in Normandia il fotografo Robert Capa e lo scrittore americano Ernest Hemingway erano impegnati nella documentazione dello sbarco alleato. Nessuno ricorda cosa scrisse Hemingway in quella occasione ma tutti ricorderanno per sempre le immagini scattate da Capa sulla spiaggia di Omaha».

Ha mai corso dei rischi, anche molto seri, pur di riuscire a scattare una fotografia?

«I rischi fanno parte del mestiere. Inutile raccontare aneddoti. Se non hai fegato e nervi saldi è meglio che cambi lavoro. Ci sono operai di un’acciaieria che rischiano la vita ogni giorno e non diventeranno mai né ricchi né famosi».

Lei afferma che per fare un buon reportage è indispensabile conoscere la cultura di un popolo. Come si fa?

«Raccontare grandi storie implica alcune regole che ritengo fondamentali. Approcciarsi al tema con modestia e senza idee preconcette. Studiare cultura, lingua tradizioni della zona in cui saremo chiamati a operare. Tutti questi aspetti ci aiuteranno a sviluppare empatia con le persone e familiarità con il contesto. Parlare la lingua locale aiuta a rompere il ghiaccio e più di una volta mi ha salvato la vita in situazioni critiche. Credo che non si possano raccontare i Balcani, l’Afghanistan, il Medio Oriente o il Congo senza conoscerne la storia, le tradizioni e i motivi dello scontro. Il giornalismo dei nostri giorni impone velocità e superficialità, fattori che stridono con la qualità».

Cosa consiglia a un aspirante giornalista o fotoreporter?

«Come sappiamo, l’editoria vive una grande crisi che deriva dal contesto generale ma anche da una decennale sudditanza al mezzo televisivo. Col passare del tempo sono venute a mancare testate importanti ma ciò che manca sono le idee, i contenuti, una visione più ampia del mondo. Il nostro giornalismo è troppo concentrato sulle questioni di casa nostra. C’è molta concorrenza e non si trova un direttore disposto a finanziare un progetto… ma il reportage non è morto. Le grandi storie si possono trovare anche dietro l’angolo di casa!

Se dovessi dare un consiglio direi che vale la pena di provarci, con grande impegno e determinazione, diversificando il prodotto in modo da renderlo più duttile al mercato. Quindi non solo foto, ma anche video e testi per il web. E soprattutto cercherei contatti e collaborazioni con media stranieri: spesso sono più seri e pagano meglio».

Tutte le foto in questo articolo sono state gentilmente concesse dall’autore, Livio Senigalliesi, che ne detiene tutti i diritti.
Immagine in copertina: ritratto di Livio Senigalliesi scattato durante la recente inaugurazione della mostra “Effetti collaterali”.

Ringrazio Paola Panciroli, con cui ho condotto questa intervista.

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