Brunilde ha cantato e, al netto di eventuali sorprese derivanti dai conteggi e dai vari ricorsi che gli avvocati che il presidente uscente Donald Trump presenterà nelle corti statali e (a quanto dice) alla Corte Suprema, Joe Biden sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti. L’ufficialità arriva dopo quattro interminabili giorni durante i quali gli occhi del mondo sono stati puntati su Nevada, Pennsylvania, Arizona, Carolina del Nord e Georgia, gli ultimi cinque Stati a definire il vincitore. I postumi delle elezioni presidenziali hanno visto il partito repubblicano disunirsi e, mano a mano che le ore passavano, la cerchia intorno a Trump ridursi sempre più. Per capire le ragioni di questo risultato, è necessario partire da due casi particolari.
I dettagli che fanno la differenza
La contea di Maricopa, Arizona
La contea di Maricopa si trova in Arizona. Vi abitano 4,5 milioni di persone (buona parte concentrate nella città di Phoenix) che nella loro vita hanno praticamente sempre votato repubblicano. L’ultimo voto a favore dei democratici da queste parti avvenne a favore di Truman nel 1948. È la contea dell’ex sceriffo (repubblicano) “più duro degli Stati Uniti” Joe Arpaio e della comunità di cattolici più grande dell’Arizona, organizzati dalla diocesi di Phoenix in 99 parrocchie.
Nel giro di dieci anni la contea è passata da roccaforte repubblicana a vedere una Hillary Clinton sconfitta per soli tre punti percentuali nel 2016 alla vittoria democratica di queste elezioni. Una delle ragioni sta nei forti flussi migrativi per la maggior parte composti da Latinos originari del Messico (da 365.000 a 1.300.000 tra il 2000 e il 2020) che sono entrati in città e sono stati attirati dalle posizioni democratiche.
La ragione di tale infatuazione politica risiede nelle pratiche antimigratorie in voga all’inizio del decennio, con i raid sul posto di lavoro e l’atteggiamento piuttosto discriminatorio verso gli immigrati dall’America Centrale, a prescindere dalla regolarità della loro posizione. L’ansia degli immigrati (in particolare modo quelli di seconda generazione) è evoluta in un florido movimento di base che è stato in grado di convogliare le proprie forze a sostegno dei democratici ribaltando così la tendenza di lunghissimo periodo della contea. Qui, prima ancora che le politiche di Trump, hanno inciso le decisioni statali contro gli immigrati.
La contea di Miami-Dade, Florida
Altro caso particolare da esaminare per capire meglio la mappa degli USA dopo lo spoglio dei voti che ha consacrato Biden è la contea di Miami-Dade in Florida. Anch’essa contea più popolosa del proprio Stato, anch’essa fortemente influenzata dal voto dei Latinos che però hanno votato in modo opposto rispetto a quelli dell’Arizona. Qui Trump ha preso 12 punti percentuali in più rispetto al 2016, insufficienti per vincere nella contea ma abbastanza per limitare Biden laddove si è dimostrato più forte, ovvero nelle aree urbane.
In questa contea Trump ha puntato forte, sapendo che la Florida era la conditio sine qua non per tenere la presidenza. Ha stretto rapporti con gli elementi notabili della comunità di Little Havana tra cui Lilian Tintori, attivista venezuelana moglie di un leader dell’opposizione (Leopoldo Mendoza) incarcerato nel 2015. L’ex conduttrice radio è stata anche invitata alla Casa Bianca. Il presidente uscente ha poi a più riprese agito e parlato contro la tyranny troika composta da Cuba, Nicaragua e Venezuela, ha lanciato gli Evangelicals for Trump da una chiesa di Miami e ha a più riprese affibbiato a Biden l’etichetta di castro-chavista. Sebbene tale etichetta sia un errore di classificazione anche per uno studente al primo anno di scienze politiche, ha fatto leva a sufficienza sull’immaginario degli esuli cubani per vincere lo Stato.
Campi di battaglia
La battaglia per la presidenza è passata da diversi altri battleground states come North Carolina e Ohio (vinti da Trump) e Nevada, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin. Biden ha fatto molto bene sia nelle città che nei suburbs, considerati da molti il vero campo di battaglia dove si sarebbe decisa la contesa elettorale, per il loro carattere di confine tra città e campagna e soprattutto come test delle (non) politiche di contenimento della pandemia di Covid-19 messe in atto da Trump. In particolare, la zona dei Grandi Laghi è stata decisiva per l’assegnazione della presidenza, con il Wisconsin guadagnato grazie all’ampio margine (ben 53 punti) nella contea di Dane che ospita Madison e l’Università del Wisconsin.
I democratici hanno ottenuto un risultato altrettanto importante nella contea di Wayne, con oltre 33.000 voti in più rispetto al vantaggio della Clinton nel 2016. Nel caso in cui vi chiedeste quanto questi numeri contino, vi basti sapere che Trump vinse lo Stato per circa 11.000 voti. Si sono potuti osservare comportamenti simili a Milwaukee, a Detroit e a Philadelphia. In questi stati Biden ha aumentato i margini di vantaggio percentuali della Clinton e l’aumento dell’affluenza ha moltiplicato notevolmente i benefici.
L’arrocco
A oggi, Trump non ha ancora riconosciuto la vittoria a Biden, un passaggio non obbligatorio ma rituale della politica americana. Al contrario il presidente uscente ha aperto un’offensiva legale laddove i margini (e le finanze del comitato elettorale, ormai costretto a far girare il cappello tra i sostenitori) glielo permettono. Le accuse sono pesanti e variano dall’inserimento nelle liste dei votanti morti o con data di nascita nel diciannovesimo secolo (in realtà misura precauzionale per tutelare le vittime di violenza) in Michigan e Georgia al mancato accesso degli osservatori repubblicani alle stazioni di spoglio in Pennsylvania.
Le prove portate a sostegno di tali accuse, tuttavia, sono piuttosto esigue. Una procedura è già stata rigettata da una corte in Michigan per la mancanza non solo di prove ma di documenti per l’apertura del processo. In Pennsylvania, al contrario, il procuratore generale federale Barr (fedelissimo di Trump) ha autorizzato l’avvio di un’investigazione sulle operazioni di voto e di spoglio nonostante le prove pressoché nulle. Il termine per la fine dei procedimenti e per i riconteggi è l’8 dicembre. Il risultato delle elezioni verrà poi certificato dai grandi elettori.
La strategia di Trump al momento è tutt’altro che definita. Non è chiaro se stia solo prendendo tempo o se intenda forzare una grazia presidenziale, dato che dal 21 gennaio non sarà più presidente e lo attendono diverse cause pendenti, senza contare i problemi col fisco. Altra ipotesi, la più grave, è che intenda interferire con le opzioni di voto dei grandi elettori, in particolar modo in quegli degli Stati che non hanno vincolo di mandato. Il presidente uscente è il primo responsabile di una nazione spaccata a metà e dell’aver condizionato terribilmente una delle due parti che giostrano la politica americana da sempre. È probabile che dopo quattro anni di governo Biden gli Stati Uniti si saranno dimenticati di Trump, ma si dimenticheranno anche del trumpismo?