Il punto della situazione nell’America del dopo Trump

«Catch your bear before you sell its skin», non vendere la pelle dell’orso prima di averlo preso. Joe Biden farà bene a tenere a mente questo proverbio.

La situazione politica americana si sta pian piano normalizzando. Dopo l’intensa campagna elettorale terminata pochi mesi fa – non senza strascichi – il neoeletto presidente degli Stati Uniti ha assunto definitivamente l’incarico con la cerimonia di insediamento dello scorso 20 gennaio. Il giorno dopo, in nemmeno ventiquattro ore, Biden aveva già firmato diciassette ordini esecutivi.

Tra questi, il blocco immediato del ritiro degli Stati Uniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, con la nomina dell’odiatissimo (da Trump) Anthony Fauci quale capo delegazione, e l’avvio della procedura di reintegro degli Stati Uniti nella più importante azione internazionale mai messa in campo per la salvaguardia dell’ambiente, i famosi accordi di Parigi da cui Trump aveva ordinato di uscire. Sul solco della svolta green anche il blocco dell’oleodotto Keystone XL, di cui Trump aveva autorizzato la costruzione nonostante le conseguenze previste in Montana, South Dakota e Nebraska.

Sul versante immigrazione, chiodo fisso del precedente inquilino della Casa Bianca, Biden ha cancellato il travel ban di Trump che bloccava il rilascio di visti ai cittadini di determinati Paesi a maggioranza musulmana, nonché il rafforzamento del DACA, il programma che si occupa degli immigrati irregolari arrivati negli Stati Uniti da bambini con le loro famiglie, precedentemente depotenziato da Trump. Tutto questo (e molto altro) in un solo giorno.

Foto: Gage Skidmore.

A cosa punta Joe Biden?

Una netta sterzata che riporta il timone della nazione nella direzione che Trump aveva provato a invertire. Compito non semplice, per il quale il nuovo presidente si è circondato di una squadra d’ispirazione chiaramente obamiana. Responsabile del programma economico di Joe Biden è Janet Yellen, già presidente della Federal Reserve durante il secondo mandato Obama. Secondo i piani del neo presidente l’obiettivo è riportare l’asse dell’economia americana dalla ricchezza al lavoro, con un piano di riforma fiscale che vada a «ricostruire la classe media».

Il piano prevede stimoli per 1.900 miliardi di dollari, l’aumento del salario minimo a quindici dollari e l’obiettivo dichiarato di sollevare dalla povertà dodici milioni di americani. Sulla stessa lunghezza d’onda anche altri componenti della squadra di governo. Jake Sullivan, dopo aver assistito Obama durante il negoziato sul nucleare iraniano, ora prende le redini della Sicurezza Nazionale. Merrick Garland, già nominato da Obama per la Corte Suprema, è ora Procuratore Generale. Anthony Blinken, è il nuovo Segretario di Stato, già collaboratore di Biden quando era vice di Obama. Tutte nomine che non solo indicano la volontà di circondarsi di persone con una profonda esperienza alle spalle, ma messe una in fila all’altra sono un chiaro ritorno all’era pre-Trump. Evidenziano la volontà della nuova presidenza di cambiare passo e chiudere rapidamente quella che in molti si augurano sia stata solo una parentesi.

Il che, però, non è così scontato. I tentativi del Partito Democratico di rottamare rapidamente l’era Trump si infrangono contro i due falliti impeachment nei suoi confronti, cartina tornasole di quanto questa eventualità sia tutt’altro che scontata e di quanto Trump goda ancora di un sostegno più che sufficiente in parlamento. Il mondo ha potuto constatare in più occasioni quanto Donald Trump non sia certo uno che molla l’osso e non è affatto scontato che tornerà a vita privata senza colpo ferire. Anzi.

Foto: Gage Skidmore.

Quali prospettive per Donald Trump?

Finita (per ora) l’esperienza presidenziale, Trump ha comunque davanti a sé varie grane. Nel breve periodo l’insidia più grande viene dal fatto di non godere più dell’immunità presidenziale. Non a caso c’è già la fila di procuratori pronti ad accoglierlo col coltello tra i denti. Si va dalla frode elettorale, ipotizzata in seguito alle pressioni esercitate da Trump nei confronti del segretario di Stato della Georgia durante lo spoglio dei voti, all’utilizzo indebito dei fondi della sua campagna elettorale per comprare il silenzio di due pornostar, fino alle molestie sessuali di cui lo accusa una ex concorrente del reality show The Apprentice.

Ma la grana più grossa viene senza ombra di dubbio dalla procura di New York che lo cita per frode fiscale. Dopo solo una settimana dalla decadenza dell’immunità gli investigatori sono tornati alla carica con un’ordinanza per ottenere dalla società dell’ex presidente i documenti necessari a proseguire l’indagine. L’accusa è di aver gonfiato i propri asset prima della presidenza al fine di ottenere sgravi fiscali non dovuti e prestiti su basi fasulle. «Follow the money», segui i soldi, diceva Gola Profonda in Tutti gli uomini del Presidente. La stessa catchphrase che nel 2016 utilizzava a sua volta la campagna di Donald Trump contro Hillary Clinton. Quando si dice il karma.

Il red mirage

Altro paio di maniche sono le conseguenze della strategia di Trump durante e dopo le scorse elezioni presidenziali. Fin da subito un Trump conscio di partire in severo svantaggio ha puntato sulla delegittimazione del voto sfruttando un fenomeno che gli analisti avevano ampiamente previsto, il red mirage: una falsa partenza che avrebbe visto Trump in forte vantaggio nelle prime fasi dello spoglio dei voti per poi ribaltarsi mano mano che il conteggio fosse andato avanti. Questo fenomeno, che si è effettivamente realizzato, ha significato ritrovarsi all’indomani del voto con una mappa per la maggior parte rossa, il colore del Partito Repubblicano. Questo perché il conteggio dei voti è molto più rapido dove c’è meno gente (in provincia, nelle zone montane, nelle zone rurali) di quanto lo sia dove c’è più gente e quindi più voti da contare (grandi città, contee ad alta densità abitativa).

Non a caso l’elettorato è spaccato esattamente in questo modo. Nelle zone rurali e in provincia hanno la meglio i repubblicani mentre nelle grandi città e nei grandi agglomerati i democratici. Si tratta di una dinamica ormai consolidata e rafforzata dallo spoglio dei voti per posta (preferito dagli elettori democratici per via della pandemia) effettuato successivamente a quello dei voti al seggio (preferito dai repubblicani). Questo è bastato a Trump per gridare al complotto e chiedere con insistenza e con svariate cause legali di bloccare il voto durante il conteggio, finché era ancora in vantaggio. Nessuno di questi tentativi ha portato a qualche risultato, se non quello di piantare un seme molto velenoso: aver delegittimato l’elezione di Biden può non aver intaccato la solidità delle istituzioni, che seppur con qualche scossone hanno retto il colpo, ma è certamente servito a preparare il terreno per la prossima battaglia.

Donald Trump ha infatti ancora un paio di frecce ben appuntite nella sua faretra. Da una parte ha quattro anni di tempo per fomentare la parte più facinorosa dell’elettorato americano. Può contare sull’aiuto delle molte associazioni legate all’alt-right e al mondo complottista di QAnon, pronte a fargli da megafono e battere sul chiodo della delegittimazione di Biden. Questo gli permetterà di rimanere sulla cresta dell’onda e tenere alta la sua popolarità ancora a lungo, polarizzando ulteriormente l’elettorato conservatore in corso d’opera.

Dall’altra si trova ad avere a che fare con un Partito Repubblicano particolarmente molle nei suoi confronti. Sebbene alcuni esponenti, anche importanti, si siano apertamente schierati contro il tycoon (tra questi Mitt Romney e George W. Bush), al momento la maggioranza rimane cauta sulla possibilità di mollarlo. Finché in molti nel Partito saranno convinti che ci sia più da perdere che da guadagnare nello schierarsi contro Trump lui continuerà ad avere il coltello dalla parte del manico. Trump è stato abile a mettere il Partito Repubblicano in una classica situazione lose-lose. Rimanere con lui significa perdere voti tra l’elettorato moderato, lasciarlo significa perderli tra quello più conservatore e legato alle frange più estreme.

E forse, sotto sotto, il vero grande sconfitto di tutta questa vicenda è proprio lui, il Grand Old Party.

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