Don’t Look Up è un disastro ben peggiore di quello che racconta

Mossi dall’enorme dibattito intorno a questa ambiziosa produzione originale Netflix, che è stata anche distribuita nelle sale cinematografiche, in modo da poterla candidare ai prossimi premi Oscar, la redazione di theWise Magazine ha deciso di guardare Don’t Look Up. Attenzione, la recensione conterrà spoiler.

Gli abbonati a Netflix sono ormai abituati al fatto che nel catalogo delle serie TV originali ci sono pochi capolavori, ma molti prodotti sono comunque interessanti. Per quanto riguarda i film, invece, le produzioni Netflix sono per la maggior parte banali e mediocri, anche per dei blockbuster senza pretese. Don’t Look Up di pretese e ambizioni invece ne ha eccome, grazie anche al suo budget da 75 milioni di dollari. Ciò ha creato delle aspettative che sono state, in larga parte, deluse. Non basta un cast eccezionale a salvare un film che non riesce nemmeno a essere mediocre.

Cosa non funziona di Don’t Look Up

Sul piano tecnico c’è ben poco da dire: la regia è dozzinale (anche a causa della scelta di riprendere i monologhi degli attori di profilo, non permettendo di sfruttare tutto il potenziale artistico di Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence), la fotografia è senza infamia e senza lode, la colonna sonora è usata in modo così anonimo che è come se non ci fosse e gli effetti speciali sono così mal riusciti che certe scene metterebbero in imbarazzo persino la grafica delle console per videogiochi della scorsa generazione (e ci riferiamo al primo finale dopo i titoli di coda).

Nonostante tutto, è nella sceneggiatura in sé che troviamo il vero disastro. I personaggi sono tanti ma nessuno è degnamente caratterizzato, anzi, sembrano basati su stereotipi triti e ritriti che spesso non trovano corrispondenza nella realtà. Soltanto i due protagonisti hanno un minimo di evoluzione.

Leonardo di Caprio in Don't Look Up
Ci piace pensare che la disperazione portata in scena sia derivata dalla qualità dello sceneggiato.

Il lavoro peggiore è stato fatto con Kate (interpretata da Lawrence) che prova a rendere l’ansia un fenomeno pop, svalutando il serio problema della salute mentale dei dottorandi: fuma erba perché è quello che lo spettatore medio di Netflix si aspetta, abusa dello Xanax come se fosse un qualcosa di trendy, non riesce a gestire il suo panico senza perdere il suo status di donna forte e indipendente, pur se messa costantemente alla berlina in quanto donna, nonostante i suoi colleghi la trattino con tutto il rispetto che merita.

Su Randall (DiCaprio) c’è poco da dire: il suo arco narrativo sembra voler rappresentare un personaggio umano e imperfetto, ma la sua evoluzione diventa sempre meno credibile nel corso del film. Viene da chiedersi se gli sceneggiatori abbiano mai davvero incontrato un fisico. L’unico personaggio che sembra essere scritto bene, dati gli scopi della pellicola, è quello di Peter Isherwell (interpretato da Mark Rylance), l’eccentrico imprenditore del colosso tecnologico Bash, le cui capacità scientifiche sono dai più sopravvalutate e la cui eccentricità è in realtà solo una scusa per creare un personaggio macinasoldi e senza alcuno scrupolo.

Una critica banale e vaga

In tutto ciò il sottotesto sulla crisi climatica diventa del tutto secondario rispetto ai più facili paragoni con l’attuale pandemia: l’espediente narrativo della cometa è solo una cornice utile a mettere in scena un film che dovrebbe indagare il lato umano della vicenda, ma lo fa con le capacità di analisi di un ragazzino delle medie.

Anche sul piano politico il film si rivela cerchiobottista: Janie e Jason Orlean (rispettivamente interpretati da Meryl Streep e Jonah Hill) sarebbero delle evidenti parodie di Donald e Ivanka Trump (con la differenza che Ivanka, in realtà, è tutto tranne che una persona stupida). Ma il film strizza anche l’occhio alla destra – inserendo una presidente donna del tutto inetta – e ai complottisti, dipingendo un sistema che è talmente colluso da non avere speranza di redenzione. Mostrando un lato populista quanto meno non necessario, sembra che il film identifichi il problema non nelle dinamiche di potere e della comunicazione, ma nell’intera classe politica.

Un altro problema riguardante la componente politica è l’Usa-centrismo: in una produzione pensata per un pubblico globale, gli unici altri Stati citati al di fuori degli States sono i suoi diretti rivali, che ovviamente fanno una magra figura. Non è nominato neppure un Paese europeo, forse perché gli sceneggiatori sanno che l’Unione Europea è molto più assennata degli Stati Uniti e che non avrebbero fatto una bella figura nel farlo notare.

Le critiche al mondo dei media – per quanto condivisibili – sono anch’esse poco originali e per nulla sagaci, adatte più a spingere un sottotesto che critichi i media tradizionali e metta la stessa Netflix in virtuoso contrasto. Il punto più basso della pellicola è forse la breve parodia di un’intervista che srotola supercazzole falsamente impegnate e inconcludenti, che servono solo a lucrare: qui Netflix sta parlando di sé stessa, come se volesse proteggersi dalle critiche che sarebbero arrivate dicendo: «Ma questo l’abbiamo anche parodiato».

Gli altri personaggi televisivi sono così poco caratterizzati da non meritare di essere citati. L’unica eccezione è quella di Ariana Grande, che fa una parodia di sé stessa ed è forse l’unico personaggio a portare avanti una critica un minimo interessante quando canta il singolo Just Look Up mandando a quel paese la precedente battaglia animalista perché non frutta più consensi.

In sostanza, parliamo di un film che con l’intento di raggiungere un pubblico molto ampio finisce per insultare l’intelletto dei più. Oppure, forse, come ha commentato il comico Filippo Giardina, lo scopo era quello di far sentire tutti più intelligenti ma senza voler veramente dire qualcosa che potesse portare a un cambiamento.

Lawrence e DiCaprio, stessi protagonisti ma diversa retribuzione

Come detto in precedenza, Netflix cerca di sfruttare questo film per rappresentarsi come un’alternativa valida e onesta rispetto al tradizionale panorama mediale. Tuttavia, non sono mancate le polemiche relative proprio a questo film: nonostante Jennifer Lawrence sia la protagonista di Don’t Look Up, ha guadagnato molto meno rispetto alla controparte maschile, Leonardo DiCaprio.

Durante i titoli di apertura, il nome dell’attrice appare prima (anche se solo di mezzo secondo) rispetto al suo collega in quanto ricopre il ruolo di top billing. Questo termine identifica la persona che, anche in un film con molti altri co-protagonisti, veste un ruolo principale ed è presente sullo schermo per più tempo.  La protagonista è stata infatti la prima a essere contattata e ad aver ricevuto la sceneggiatura.

Eppure, un’indagine sugli stipendi degli attori di Hollywood pubblicata ad agosto 2021 da Variety ha rivelato che DiCaprio ha guadagnato circa 30 milioni di dollari statunitensi, mentre Lawrence ne ha ricevuti 25. In un periodo storico in cui il gender pay gap (la differenza di salario tra uomini e donne che ricoprono un ruolo simile all’interno di una stessa azienda) è un argomento molto dibattuto, questa notizia ha attirato molte critiche verso Netflix. Critiche che la stessa attrice ha cercato di placare con una dichiarazione distensiva: «DiCaprio permette a un film di ottenere maggiori incassi rispetto a quanti ne faccia ottenere io. Sono estremamente fortunata e mi reputo felice di questo accordo commerciale. Ma in altre situazioni […] è estremamente scomodo chiedere la parità di retribuzione. Quando si mette in dubbio qualcosa che sembra disuguale, la risposta che si riceve è che non si tratta di disparità di genere, ma poi non è dato sapere di cosa si tratti esattamente».

Sebbene la questione potrebbe non sembrare delle più importanti, è esemplificativa del disastro compiuto durante la realizzazione di questo film. Don’t Look Up avrebbe dovuto essere una tagliente satira contro i negazionisti, il capitalismo, il sistema politico e ai media, ma alla fine è solo una banale critica realizzata sfruttando gli stessi meccanismi che vorrebbe denunciare.

Di Michel Bellomo e Gabriele Lazzari

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