Calenda spacca tutto: perché ha rotto con il PD?

Domenica da Lucia Annunziata si è presentato un Calenda privo della sua consueta sicumera. Lo sguardo è basso, gli occhi vagano irrequieti in cerca di risposte alle incalzanti domande della presentatrice. Ogni tanto un sorriso fa capolino ma è rassegnato, stanco, deluso.

Calenda è lì, che sta per far saltare la grande coalizione a cui sta lavorando Enrico Letta. Si tratta dell’unica compagine che secondo i sondaggi è in grado di reggere l’urto della destra. Ma dal campo largo al campo santo il passo è breve.

Il segretario di Azione ha la bomba in mano, la miccia è accesa, sta per lanciarla ma sembra che sia l’ultima cosa al mondo che vuole fare.

Sembra.

Lo storytelling di Calenda

A guardare l’intervista viene da fargli una carezza. Pare aver realizzato d’un tratto che essere un uomo di principi e al contempo guidare un partito politico è un anacronismo al giorno d’oggi. Sono finiti i tempi in cui l’ideologia marciava davanti alle esigenze della real politik; ora viviamo tempi molto più pragmatici e, per certi versi, cinici. Tempi non adatti a persone per bene. Com’è lui, ovviamente.

Quello che vuole comunicare è che nella sua ingenuità di persona tutta d’un pezzo è stato fregato, che «la scelta è stata del Partito Democratico».

Dice di aver offerto a Letta di accontentarsi del dieci per cento delle candidature invece del trenta, pur di non aprire la coalizione a sinistra. Sostiene che secondo lui l’ingresso di altre liste nella coalizione prevedesse l’adesione anche al programma. Ripete più volte che l’accordo imponeva che i nomi divisivi dovessero rimanere fuori dalle liste.

Eppure, nulla di tutto questo è scritto nell’accordo che ha firmato. Quantomeno, non nei termini in cui l’ha raccontato da Lucia Annunziata. Il testo integrale del patto è disponibile qui. È molto breve e vale la pena leggerlo, soprattutto perché arrivati alla fine si comprende con facilità che la narrazione di Calenda ha molti buchi. Forse troppi.

Le omissioni di Calenda

Va dato atto al segretario di Azione di essere un bravo storyteller tanto quanto un narratore smemorato.

Alcune piccole inesattezze messe qua e là, infatti, dipingono un quadro ben diverso dalla realtà. In un passaggio ad esempio afferma che l’accordo con il Partito Democratico prevedeva di non candidare gente come Di Maio o Frantoianni, ma omette di dire che quell’accordo era valido solo per i collegi uninominali e non per il proporzionale. È una differenza sostanziale.

Quella è l’unica cosa su cui ha senso che ci sia condivisione: il candidato all’uninominale è automaticamente scelto da chiunque voti un partito della coalizione, mentre al proporzionale questo non avviene. O forse Calenda vorrebbe mettere bocca su chi gli altri partiti possono o non possono candidare nelle loro liste? Se è così, avrebbe dovuto scriverlo nell’accordo, ma nessun leader sano di mente avrebbe accettato.

Poi fa il finto tonto nei confronti di Letta che va alla ricerca di altri componenti da aggiungere alla coalizione, sostenendo che secondo lui gli accordi erano altri. Ma basta leggere, è scritto nero su bianco:

«La totalità dei candidati nei collegi uninominali della coalizione verrà suddivisa tra Democratici e Progressisti e Azione/+Europa nella misura del 70 per cento (Partito Democratico) e 30 per cento (Azione/+Europa), scomputando dal totale dei collegi quelli che verranno attribuiti alle altre liste dell’alleanza elettorale

Non solo, durante la conferenza stampa Calenda era spalla a spalla con Letta mentre quest’ultimo diceva che la coalizione era aperta ad altri partner, con cui avrebbero fatto accordi elettorali in seguito (minuto 1:20).

Calenda pertanto sapeva benissimo cosa sarebbe successo, e non c’è alcun dubbio su chi sarebbe entrato dato che si tratta degli unici a poterlo fare, a causa del veto incrociato sui Cinque Stelle tanto di Azione quanto del Pd: non potevano essere che Europa Verde e Sinistra Italiana.

Accordo elettorale…

In merito all’obiezione di Calenda sull’incompatibilità tra l’accordo del Pd con Azione e quello con la sinistra c’è un concetto che è cruciale avere ben presente, ovvero la differenza tra un accordo elettorale e uno programmatico.

Il primo riguarda la convenienza politica di correre insieme in coalizione per le elezioni, poi ognun per sé. Questo è incentivato dal Rosatellum, l’attuale legge elettorale che prevede una soglia di sbarramento al tre per cento per chi corre da solo. Un accordo elettorale quindi avvantaggia tutti i partecipanti: i partitini possono superare la soglia, mentre i grandi partiti acquisiscono voti per i collegi uninominali, nei quali si corre in coalizione e ogni singolo voto può davvero fare la differenza.

Questo è il tipo di accordo che il Pd ha sottoscritto con Sinistra Italiana ed Europa Verde (con alcune convergenze di idee già in essere, quindi nessuna novità dal punto di vista del programma a differenza di quanto sostenuto da Calenda). La versione integrale, anche questa molto agile da leggere, è disponibile qui.

… e accordo programmatico

Di converso, un patto programmatico è un’alleanza stretta, che non si limita alla convenienza elettorale ma prevede una condivisione di valori comuni e di punti programmatici ai quali attenersi.

Questo è il tipo di accordo stipulato tra Pd e Azione/+Europa: si tratta di una vera proposta progettuale, di governo, basata su atlantismo, europeismo, sull’esperienza del governo Draghi e su una posizione netta a favore dell’Ucraina e contro la Putin.

Per inciso, l’ha scritta di pugno lo stesso Calenda, che da Lucia Annunziata fa un colpevole minestrone tra queste due tipologie di accordo: è evidente come cerchi di far credere agli spettatori che il patto sottoscritto dal Pd con Europa Verde e Sinistra Italiana sia in disaccordo con quello tra Pd e Azione/+Europa.

Ma basta leggere i due testi per rendersi conto che è una fesseria: Enrico Letta puntava a incamerare voti utili negli uninominali pescandoli a sinistra con un accordo elettorale, ma la partnership programmatica rimaneva quella con Azione/+Europa.

Lo strappo con +Europa

Tra i fautori dell’accordo con il Pd c’erano (e ci sono) Benedetto Della Vedova ed Emma Bonino, principali esponenti di +Europa. Lo strappo quindi si è consumato anche con l’altra metà di quella mela che era la federazione tra Azione e +Europa.

A tal proposito un post pubblicato dal presidente di +Europa Riccardo Magi è esemplificativo del metodo di Calenda, che si è prima di tutto premurato di garantirsi lo spazio in televisione dove fare l’annuncio affinché la sua versione dei fatti fosse la prima a finire sui giornali, per poi comunicare agli alleati la rescissione dell’accordo a mezzo messaggino solo poco prima di andare in diretta.

https://www.facebook.com/100044432979387/posts/pfbid02UD5YeRwZt4qTjQFh3GKFSw1KzmBwALN4is99N5R6XBKGzQBkdn8YCrVGZWmhpeZnl/

Non solo, Magi conferma che all’interno di Azione/+Europa tutti sapevano che la coalizione sarebbe stata allargata, ma che al contempo l’accordo programmatico del Pd rimaneva una loro esclusiva, sbertucciando quindi le parole di Calenda.

Da Telese Emma Bonino, riferendosi al segretario di Azione, ha detto a chiare lettere che «io su questa strada non lo posso seguire»: la fine della federazione Azione/+Europa appare quindi consumata.

L’obiettivo di Letta

Il cambio di opinione di Calenda è comunque in parte comprensibile.

Enrico Letta guarda ai sondaggi, e la sua priorità è di arginare la destra. Per fare questo è disposto ad allargare la coalizione a chiunque possa portare più voti di quanti ne faccia perdere. Motivo per cui ha cercato di mettere sulla stessa barca liberali e sinistra, soluzione che secondo i sondaggi avrebbe portato il maggior numero di voti alla coalizione.

Un obiettivo sensato, per il quale il cervello trova una logica, ma il cuore di un liberale dice ben altro.

Letta avrebbe dovuto fare meglio i conti: ora si trova con una coalizione azzoppata, priva di quella spinta riformista che i liberali gli potevano garantire.

Nella testa di Carlo

Ci sono un altro paio di ipotesi sul perché di questa inversione a U.

Durante l’intervista, Calenda ha più volte ribadito come lui puntasse non tanto a un campo largo quanto a un’alleanza tra socialdemocratici e liberali, nella quale lui avrebbe rappresentato il centro moderato e il Pd la sinistra. Su questo aspetto, ovvero che il Pd dovrebbe concentrarsi sull’essere di sinistra, ha calcato la mano più volte durante l’intervista.

Il suo sogno bagnato era quindi un’alleanza esclusiva, nella quale sarebbe riuscito ad accaparrarsi i voti dei liberal democratici, confinando definitivamente il Pd al di fuori del centro, area su cui avrebbe messo lui la bandierina.

In questo senso l’opinione dei sondaggisti gli dava ragione. Qui sotto Giovanni Diamanti (Youtrend) individua nel Pd la princpale fonte di voti per un terzo polo di orientamento liberale, cioè l’area di riferimento di Azione.

Calenda era riuscito a strappare a Letta un ottimo accordo ma l’apertura a Europa Verde e Sinistra Italiana avrebbe alterato quell’equilibrio: nel campo largo lui non avrebbe rappresentato il centro dello schieramento quanto la sua ala destra, lasciando al Pd il ruolo di perno centrale.

Così si è tirato indietro e nel tentativo di mettere in piedi un improvvisato terzo polo in stile Macron si è bruciato la sua credibilità politica, e rischia di fare la fine di tanti illustri predecessori, da Rutelli ad Alfano.

La teoria del cerino in mano

In un post su Facebook il noto esponente radicale Alessandro Capriccioli ha avanzato un’altra teoria, ovvero che Calenda si sia trovato a sottoscrivere un accordo che non voleva fare e che appena ha potuto ha stracciato.

È probabile che entrambe le cose abbiano influito. Che +Europa abbia spinto per l’accordo con il Pd è un dato di fatto tanto quanto che Calenda non fosse molto favorevole.

Dopo l’accordo, la base di Azione – soprattutto quella più giovane e che sperava molto in un terzo polo – è esplosa in maniera molto rumorosa sui social, sconfessando il segretario. Forse è bastato questo a far tornare Calenda sui suoi passi, forse aveva solo bisogno di una piccola spinta, sta di fatto che nonostante abbia cercato di vendere al pubblico l’idea di essere la vittima di una macchinazione la scelta è stata sua, e sua soltanto.

Quanto vale la parola di Carlo Calenda?

In pochi giri di orologio il segretario di Azione ha deluso tutti, sia chi voleva l’accordo con il Pd sia chi non lo voleva, e molti ora si chiedono se Carlo Calenda abbia davvero compreso cosa significhi fare politica.

Firmare e stracciare un accordo nell’arco di quattro giorni non è certo un esempio di affidabilità, e l’affidabilità in politica è moneta di scambio sia nei confronti degli elettori che degli alleati. Anche la sua incapacità di scendere a compromessi lo rende un interlocutore ostile, con il quale il dialogo risulta molto difficile.

Ne sa qualcosa Enrico Letta, che cercando in tutte le maniere di tessere un’alleanza quanto più larga possibile ha voluto prendere in contropiede Calenda concedendogli tutto quello che chiedeva pur di non lasciargli dire di no.

Il confine tra coerenza e volubilità

Cambiare idea è un segnale di maturità e della capacità di comprendere i propri errori, ma cambiarla troppo spesso è sintomo di incostanza.

La volubilità con cui Calenda si approccia alla politica ricorda per certi versi quella di Donald Trump, che basa le proprie decisioni sul sentiment che percepisce dalle reazioni dei suoi sui social più che su un progetto politico strutturato.

Ne è una drammatica dimostrazione la facilità con cui Calenda ha tirato lo sciacquone sul progetto federale con +Europa. Sarebbe interessante sapere quanto questa decisione sia stata condivisa con la base di Azione e quanto invece si sia trattato di una decisione di pancia del segretario.

Forse è anche per questo che Calenda ha lasciato il Partito Democratico. Nel Pd un verticismo del genere avrebbe generato un copioso numero di coltellate nella schiena (coff coff, Renzi…), cosa di cui non preoccuparsi in un partito che è la diretta emanazione del suo leader.

Bene o male purché se ne parli?

Quel che è certo è che Calenda è sulla bocca di tutti. Da giorni, se non addirittura da settimane, non si parla quasi più della destra. Dal punto di vista del marketing è un punto a favore di questa strategia, se così si può chiamare: i media sono saturati di notizie sulle vicende di questo sgangherato centrosinistra, mentre la destra sembra non riuscire a dettare l’agenda del giorno. Cosa che, fino all’uscita di scena di Morisi, a Salvini riusciva molto bene.

Ora è cominciato il balletto tra Calenda e Renzi e di nuovo i giornali pendono dalle labbra del segretario di Azione. Ma, salvo ripensamenti, la frittata è fatta.

Che questo terzo polo veda la luce o meno (parliamo pur sempre di due personaggi noti per non essere mostri di lealtà, Enrico Letta – di nuovo – ne sa qualcosa) gli ultimi sondaggi danno Azione crollata al due per cento, sotto la soglia di sbarramento. Segno che il suo elettorato non è solo quello che alza la voce sui social, ma è anche composto da liberali silenziosi, che speravano in un progetto politico che arginasse la destra populista e ora sono delusi dal naufragio dell’accordo con il Pd.

Lo spauracchio dietro l’angolo

I sondaggi post rottura restituiscono anche un altro dato importante: la destra è vicinissima alla maggioranza assoluta. Considerando che in questo momento si stima che abbia in mano anche l’ottanta per cento degli uninominali, si avvicina sempre più a quel sessantasei per cento di seggi che permette di modificare la Costituzione da soli, senza dover chiedere il parere del popolo tramite referendum. Una situazione inedita per l’Italia, nella quale il post-fascismo non aveva mai davvero attecchito, soprattutto con questi numeri, soprattutto con la possibilità di modificare le fondamenta dello Stato.

Da questo punto di vista Calenda ha distrutto l’unica vera opportunità di ostacolarla e questo è innegabile, i dati parlano chiaro. Nonostante questo, molti commentatori sostengono che non ci sia un reale rischio per lo Stato, che le istituzioni sono solide e che l’attuale destra non ha mire antidemocratiche.

Questa però non è nemmeno la destra che abbiamo visto fino a pochi anni fa, non facciamoci illusioni. A tal proposito, il 27 ottobre ricorrerà il centenario della marcia su Roma e quella che si profila all’orizzonte potrebbe esserne la riedizione. Nessuno ha la palla di cristallo per sapere cosa accadrà, se questa destra si rivelerà una forza genuinamente democratica o meno.

Diceva Marx: «La Storia si ripete sempre due volte, la prima volta come tragedia e la seconda come farsa».

Speriamo si sia sbagliato anche su questo.

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