1899, la recensione della nuova serie dei creatori di Dark

Dopo aver sfidato i loop temporali e i mondi paralleli con Dark, Jantje Friese e Baran bo Odar firmano 1899, altra serie intricata, oscura e indecifrabile che appare indissolubilmente legata, fin dalle prime immagini, con la sua illustre precedente. Non solo perché rivediamo Andreas Pietschmann, già ammirato in Dark con il suo magnetismo scenico, ma soprattutto perché le atmosfere, la musica e le sensazioni che ci evoca 1899 fin dai primissimi istanti ci riportano alla mente le stesse sensazioni di straniamento e contorsione mentale che avevamo provato nel corso delle tre stagioni di Dark.

La storia, apparentemente, non potrebbe essere più diversa: ci troviamo su un piroscafo diretto in America nel mezzo dell’oceano e siamo, appunto, nel 1899. Questo dicono gli arredi di bordo e gli abiti dei pittoreschi passeggeri, un cast internazionale e multilingua che ci fa capire fin da subito che una delle tematiche portanti di 1899 è l’incomunicabilità. Poi, come immaginiamo presto, la realtà è tutt’altra cosa e non passa molto prima che cominciamo a dubitare del tempo, dello spazio e delle persone. Quando la nave Kerberos, in cui è salita la misteriosa Maura Franklin (Emily Beecham), protagonista intensa e misurata, intercetta la comunicazione di una nave dispersa da quattro mesi, la Prometeus, capiamo che niente è come sembra.

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Maura, così come gli altri personaggi (il playboy spagnolo omosessuale, la finta geisha cinese, la maitresse, la coppia francese in crisi, la religiosissima famiglia di contadini danesi, il clandestino e lo spalatore di carbone), hanno qualcosa da nascondere: una lettera che li avvisa di non fidarsi di nessuno, con allegato un ritaglio di giornale sulla scomparsa del Prometeus ma, soprattutto, un segreto. Per comprendere l’incomprensibile catena di eventi che si innesca con la scoperta della nave dispersa dovranno sondare gli abissi senza fine della mente umana.

Una delle tematiche di 1899, come dicevamo prima, è l’incomunicabilità: i personaggi recitano quasi sempre nella loro lingua madre, con pochissime concessioni a quel meccanismo narrativo per cui, anche se non ci si dovrebbe capire, ci si capisce comunque benissimo. Non sono unicamente le parole a cambiare da lingua a lingua, rendendo difficile la comunicazione: solo le emozioni e i ricordi delle persone che li intrappolano in un loop da cui è impossibile uscire. A meno di non perdere la propria identità, e allora a questo punto che cosa ci resta di noi?

1899, come Dark, è una serie imbevuta di simbologia e simbolismo: fin dalle prime immagini è impossibile non notare la presenza del simbolo del triangolo, con la punta rivolta in basso e attraversato da una linea. La pervasività di questo simbolo, così come della piramide e dello scarabeo verde, parlano al nostro inconscio di spettatori a un livello epidermico tale per cui non riusciamo a toglierci di dosso la sensazione che ci sia qualcosa che non va in ciò che vediamo e sentiamo.

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E non è solo merito della fotografia, straordinaria nel suo alternare immagini di ponti di navi spazzati dalla pioggia e disperse nell’immensità dell’oceano ad assolati campi di grano in cui il tempo appare immobile ed eterno e che, proprio per questo, ci trasmettono subito ansia e terrore. E non è neanche solo merito della musica, come in Dark tappeto onnipresente che mescola suoni naturali e artificiali, voci umane e ticchettii in modo da immergerci totalmente in una sensazione costante di disagio e straniamento.

Qualcosa non va perché se la mente umana, come dice Maura, è l’oceano più sconfinato e inabitabile che esista, si devono trovare per forza anche i mostri. E se la realtà è unicamente ciò che la nostra mente è in grado di sintetizzare, non sapremo mai distinguere ciò che è reale da ciò che è una simulazione. Proprio come in un videogioco, i personaggi di 1899 sono manipolati e sacrificati per far vivere a colui (o colei) che muove i fili la sensazione di non essere più sé stesso per qualche ora. La speranza e la promessa costante di resurrezione, di rigenerazione e di ascensione che gli elementi simbolici del triangolo, della piramide e dello scarabeo veicolano è, come tutte le altre cose, un’illusione: non c’è salvezza all’interno di un loop che non ha né inizio né fine.

I passeggeri sono portati a dubitare della realtà attraverso il processo aristoteliano della retorica articolata in tre fasi: tesi, antitesi e sintesi, appello all’etica, appello all’emozione e appello alla logica. Lo straniamento che porta scoprire che la propria realtà è una manipolazione viene compensato con la promessa dell’eternità e della rinascita, rappresentate dalla piramide e dallo scarabeo. L’uomo deve aspirare alla verità, a trascendere la realtà ingannevole e le ombre proiettate sul fondo della caverna del mito di Platone per vedere la realtà per ciò che è: illusione, gioco di luci e ombre. La vera luce (portata agli uomini da Prometeo, che è anche il loro Creatore nella mitologia greca) è un dono riservato solo a chi ha attraversato gli Inferi (presidiati da Cerbero, il cane a tre teste di Ade).

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Ma non ha senso rifugiarsi nella promessa di rinascita che trasmettono le facce aguzze di una piramide o il dorso sfavillante di uno scarabeo, non se ci troviamo all’interno di un ciclo infinito, un loop nel quale è impossibile individuare inizio e fine. Un cerchio, che abbia l’aspetto rassicurante e innocuo di un anello o quello alienante di una stazione spaziale che vortica facendo perdere la concezione di alto e basso, sotto e sopra, prima e dopo.

1899 porta dunque a un livello successivo le indagini psichiche cominciate da Dark, proponendo questa volta un viaggio che mescola sempre i piani temporali ma alza il livello inserendo le tematiche dell’incomunicabilità, della manipolazione dei ricordi, di ciò che effettivamente è un ricordo. Un sedimento, un’immagine che ti basta grattare un po’ per accorgerti di quanto sia fragile e ingannevole.

Una sovrapposizione di tematiche che, nonostante sia già stata recepita positivamente dagli spettatori di Dark, in 1899 risulta soffrire proprio del confronto con l’ingombrante predecessore. C’è una certa smania, in 1899 così come in tutte le serie che mescolano il paranormale con la realtà, di dover accumulare misteri che non sembrano trovare una soluzione per tenere incollato alla sedia lo spettatore. In 1899, inoltre, c’è la sfida di doppiare il successo di una serie come Dark e a volte abbiamo la sensazione che si sia esagerato, aggiungendo troppi dettagli non sufficientemente spiegati.

L’auspicio è che una seconda stagione di 1899, se è già in programma (ma crediamo di sì: non solo per l’accordo pluriennale che Baran bo Odar e Jantje Friese hanno siglato per Netflix ma soprattutto perché i loro progetti sono sempre concepiti dall’inizio alla fine), soddisferà alcune questioni lasciate in sospeso. Non troppe, però: così come in Dark è impossibile aver capito tutto, anche in 1899 ci aspettiamo che i Creatori si riservino di lasciare qualche frammento di mistero qua e là. La bellezza della narrazione è proprio questa: un intrico indistricabile di informazioni dal quale lo spettatore si sente avvinto e nel quale gli sembra quasi di affogare. Ma quanto è dolce naufragare in questo oceano sconfinato che è la mente umana.

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