Egitto e Italia scambiano valori – intervista ad Andrea Dessì (IAI)

Patrick Zaki rischia ancora il carcere. La verità su Giulio Regeni sembra un miraggio nel deserto. Nonostante ciò, i rapporti commerciali fra Egitto e Italia vanno a gonfie vele, tanto che due fregate FREM da circa due miliardi di euro sono salpate nel 2021 verso il Paese delle piramidi. 

Dal 2019, inoltre, SACE (società controllata dallo Stato italiano che si occupa di commercio estero) ha aperto la propria sede nordafricana proprio a Il Cairo. Lontano dai riflettori, l’obiettivo è tirare via dalle secche una relazione diplomatica ed economica che, dopo il caso Regeni, sembrava destinata ad arenarsi. 

Per una panoramica dei rapporti fra i due Paesi abbiamo intervistato Andrea Dessì, responsabile di ricerca nell’ambito del programma Mediterraneo e Medio Oriente dello IAI, direttore editoriale della collana in inglese IAI Commentaries e Non-Resident Scholar presso lo Strategic Studies Implementation and Research Centre dell’Università di Başkent di Ankara.


Che interessi legano Egitto e Italia?

«L’Egitto è uno dei Paesi più importanti del Medio Oriente, uno Stato con 100 milioni di abitanti. In posizione strategica tra Nord Africa e vicino Oriente, ha una posizione influente su tutta la regione, sia in ambito ideologico che di commercio internazionale e politico-militare. Questa fama di “cuore del Mondo Arabo” è scemata negli ultimi anni, ma l’Egitto rimane strategicamente importante per Europa, Stati Uniti e Russia. 

Grazie al trattato di pace con Israele (Camp David, 1979), l’Egitto ha inoltre un ruolo di chiave di stabilizzatore in Nord Africa. Ha mantenuto saldi i rapporti di sicurezza e intelligence con lo stato ebraico, cooperando con i Paesi occidentali nella lotta alla radicalizzazione e al terrorismo. Tutto questo rende l’Egitto molto importante a livello geopolitico, ma anche un Paese alle prese con fortissime pressioni e sfide interne. La criticità maggiore riguarda la tutela di diritti e libertà, al momento labile. 

Per quanto riguarda i rapporti bilaterali, questi sono solidi da sempre. Per l’Italia, l’aspetto economico ha sempre avuto la precedenza su aspetti geopolitici e/o di sicurezza. Tuttavia, tale interesse include anche una dimensione di sicurezza: lo testimonia il recente acquisto, da parte de Il Cairo, di armamenti e materiale bellico da imprese italiane. Queste trattative sarebbero impossibili se l’Egitto non fosse considerato un “alleato” dell’Occidente in vari campi geopolitici, a partire dalla stretta alleanza con gli Usa per via del già citato trattato di pace con Israele.  

L’Italia ha da sempre stretti rapporti commerciali con l’Egitto, giovando della sua collocazione geografica mediterranea e di una politica estera poco interventista e militarista nella regione araba da parte nostra. Con il passare degli anni, il Paese è diventato un nodo centrale per gestire i rapporti commerciali anche con altri Stati arabi della regione, ma anche con l’Africa sub-sahariana e il corno d’Africa.

Siamo visti un po’ come una porta verso il Vecchio Continente, così come l’Egitto è visto come una porta verso il Medio Oriente dall’Italia: c’è quindi un interesse reciproco nel coltivare buoni rapporti».

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Qual è la storia recente delle relazioni Italia–Egitto?

«Nell’ultimo decennio ci sono stati avvenimenti molto importanti nella zona. Le Primavere Arabe del 2010-2011 e la caduta del regime di Mubarak hanno avviato una nuova fase geopolitica in tutta la regione. Invece di portare alla democrazia, però, le proteste hanno dato il via a uno scontro molto accesso tra diverse potenze regionali, portando al contempo a un inasprimento della repressione e dell’autoritarismo politico, specialmente in Egitto. Dopo la destituzione di Mubarak nel 2011, l’Italia ha tenuto una politica di basso profilo verso il Paese, cercando di proteggere i propri interessi economici. Obiettivo, mantenere i buoni rapporti con qualsiasi nuovo esecutivo si sarebbe formato. 

Durante il regime era raro sentire dall’Italia, come da altri Stati europei, critiche verso Mubarak per via della mancanza di libertà e/o le continue violazioni dei diritti umani in Egitto. Poi è arrivato il colpo di stato militare del 2013 che ha portato al potere il generale al-Sisi e all’arresto del presidente Morsi, il primo eletto democraticamente. Un colpo di stato sostenuto da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, nel silenzio generale dell’Occidente. Si è preferito salvare il salvabile, specialmente i forti legami commerciali ed energetici con le aonarchie Arabe del Golfo. L’ascesa di al-Sisi ha riportato l’Egitto nella sua tradizionale condizione di autoritarismo». 

Come ha influenzato i rapporti commerciali questo cambio di regime?

«Nonostante l’arresto, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni del 2016, i rapporti commerciali con l’Italia sono man mano aumentati. Questo grazie alla scoperta – nel 2015 – di un enorme giacimento di gas naturale nelle acque egiziane, a Zohr, seguita poi da altre importanti scoperte nel golfo di Suez nel 2019. Questi pozzi sono gestiti da Eni e rappresentano un asset strategico molto importante per l’Italia. 

Dopo il caso Regeni, l’Italia ha ritirato il proprio ambasciatore, cercando di fare chiarezza sull’accaduto, ma senza risultati concreti. L’ambasciatore è stato rimandato a Il Cairo nel 2017, con la promessa di una svolta nelle indagini. Purtroppo però è cambiato poco o nulla. Tuttavia, i rapporti politici ed economici sono proseguiti senza intoppi, nonostante crescenti contrasti sulla strategia egiziana in Libia, dove Italia e Egitto si sono trovati su sponde opposte».

Come si inquadra il Caso Regeni nel contesto egiziano? E il caso Zaki?

«L’omicidio di Giulio Regeni è sintomatico – se non fisiologico – del regime autoritario di al-Sisi, di gran lunga peggiore di quello di Mubarak. L’interesse primario del regime è la sua sopravvivenza: questo viene prima di qualsiasi altro aspetto politico, economico o sociale. Aspettarsi che il generale ci possa consegnare uno dei propri ufficiali, accusandolo dell’omicidio di Giulio, equivale a chiedergli di rischiare la stabilità interna del regime per un cittadino straniero. Difficilmente si arriverà mai a tale scenario, ma non per questo l’Italia dovrebbe desistere. 

Purtroppo non ci sono opzioni “buone” da perseguire. La società civile e le opposizioni italiane fanno benissimo a lanciare l’allarme sulla vendita di armamenti all’Egitto, ma le due navi non sono la prima e non saranno neanche l’ultima commessa militare italiana all’Egitto: sono in ballo troppi interessi e troppi soldi.

Non bisogna perdere di vista le criticità interne dell’Egitto. L’aumento del disagio socio-economico e della repressione sono sintomi che la stabilità autoritaria di al-Sisi, come di Mubarak prima di lui, non durerà in eterno. Bisogna quindi prepararsi a nuove ondate di protesta. L’Italia non può avere giustizia da sola: c’è bisogno di una politica europea comune, sia in ambito di vendita di armamenti e dialogo politico-geostrategico, che (ancor di più) per la questione dei diritti umani e le richieste di giustizia per Regeni, Patrick Zaki e tutte le migliaia di altri come loro». 

Egitto Italia

Perché gli stati democratici appoggiano le dittature?

«Siamo oramai ritornati al periodo pre-2011, in cui si sostengono i governi autoritari (sia a Il Cairo sia nel resto del mondo nel mondo arabo) per non correre il rischio di avere instabilità nella regione e di veder dilagare il terrorismo, mentre si stringono affari importanti per le commesse nazionali. Questo è il gioco che fanno i regimi, a cominciare da quello di al-Sisi. 

Non bisogna però cadere nella trappola della dicotomia fra autoritarismo e sicurezza da una parte e instabilità e terrorismo dall’altra. Come abbiamo visto nel 2011, anche l’autoritarismo può portare all’instabilità quando la popolazione non ce la fa più e decide di scendere in strada». 

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Come si può cambiare rotta? Il nostro ruolo privilegiato può avere un peso?

«L’Italia da sola può fare poco. C’è bisogno di una politica comune europea per sperare di avere il peso necessario per influenzare le scelte dei regimi di questi Paesi. In ambito comunitario, però, vi sono profonde divisioni. È in atto una specie di gara fra Italia e Francia in molte zone del Nord Africa e del Mediterraneo orientale. È una competizione economica ed energetica, ma lo è anche a livello politico e, se vogliamo, ideologico. 

La Francia si è sempre più allineata con le monarchie del Golfo e quindi con Il Cairo e anche con Haftar in Libia; questo perché Parigi dà la precedenza alla lotta alla radicalizzazione e il terrorismo. L’Italia, di contro, cerca di favorire una politica più equilibrata, ma per questa ragione a volte perde in chiarezza e decisione. Per ciò che concerne l’Egitto, l’Italia non vuole perdere il proprio posizionamento economico, specie se questo potrebbe essere rimpiazzato da quello francese». 

Fra Italia ed Egitto prevale quindi la logica economica su quella dei diritti?

«Tornando al caso della vendita delle navi militari – e di molte altre commesse militari imminenti – questa è una decisione presa dagli esecutivi italiani non di certo a cuor leggero. In politica si deve sempre bilanciare l’interesse materiale con quello valoriale: in questo caso hanno vinto l’interesse economico (miliardi di euro, impiego per i lavoratori italiani) e la possibilità di un avanzamento geostrategico italiano nel Mediterraneo, da sempre uno dei punti cardine della politica estera italiana insieme all’Alleanza Atlantica e all’integrazione europea. 

Difficile però pensare che queste commesse possano portare verità e giustizia per Regeni e Zaki. Anzi, è probabile che questo scambio commerciale sia frutto dell’interesse egiziano nel ricucire i rapporti con l’Italia. Con questo non voglio giustificare l’operato dei nostri governi, ma in politica internazionale sono pochi i casi dove i valori vincono sugli interessi economici».

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