Ezio Mauro racconta Mussolini e il 1922 mese per mese

L’anno del Fascismo (Feltrinelli, 2022) di Ezio Mauro ripercorre i dieci mesi del 1922 fino all’ascesa della dittatura. Una cronaca che conduce dalle prime violenze fasciste alla marcia su Roma. L’autore racconta la metamorfosi italiana verso un Paese che perdeva via via coscienza del limite democratico della responsabilità di difesa delle istituzioni. L’incarico a Benito Mussolini fu legale, ma la costrizione che portò alla sua ascesa al governo fu fuori legge. Ezio Mauro sottolinea il disprezzo per la democrazia e il dileggio del Parlamento che avevano corroso il sistema democratico. Il 1922 fu un anno violento e complesso. In gennaio il fascismo era ancora giovane ed indissolubilmente legato a Mussolini, agitatore socialista espulso due volte dalla Svizzera, arrestato poi per vagabondaggio. In carcere a Bologna conobbe Pietro Nenni; poi assunse la direzione dell’Avanti. Cacciato dal Partito Socialista perché era favore dell’interventismo dell’Italia nella Grande Guerra, fondò dunque il giornale Popolo d’Italia e i Fasci di combattimento.

Le elezioni del 1919 videro i socialisti come primo partito con 1,8 milioni di voti. I Fasci ne raccolsero 4657: nessun deputato fascista entrò alla Camera. Ad ogni modo, ricorda Ezio Mauro, lo Stato liberale italiano era esausto e non lo sapeva. Si ritrovava incapace di fronteggiare i nuovi problemi sociali e politici dopo la Grande Guerra. Allora Antonio Gramsci teorizzava sull’Ordine Nuovo i Consigli operai come i Soviet in salsa italiana. Fu uno dei pochi che vide l’arrivo della tempesta. Molti furono ingannati da Mussolini, che presentò il Popolo come un foglio di sinistra – “quotidiano socialista”, si leggeva. Sia nel lettorato che nell’elettorato, il movimento iniziò a trovare i primi consensi, soprattutto nella pianura padana. Qui gli interessi economici erano fertili e il movimento fu puntuale, racconta Mauro, all’appuntamento degli interessi dei produttori impauriti.

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Il 6 novembre 1920 Mussolini annunciava: «Noi non daremo un solo minuto di tregua al Partito Socialista». Sin dall’inizio, il fascismo è stato violento: nato per raccogliere il rancore e trasformarlo in azione, racconta Mauro. Alla fine del 1921 il partito contava un quarto di milione di iscritti: lievitarono anche gli atti di violenza. Sezioni socialiste bruciate, cooperative distrutte, leghe contadine assaltate, camere del lavoro devastate e case saccheggiate. Lo squadrismo iniziò a seminare il terrore in tutta la penisola. Nel frattempo, lo Stato liberale italiano tramontava: si susseguirono quattro governi dal marzo 1919 al gennaio 1922. Nella soffitta della storia andarno nell’ordine Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti, Giovanni Giolitti, Ivanoe Bonomi. La polizia conviveva apertamente con le bande armate. Nel suo diario Italo Balbo scrisse: «Il fascismo può aprire la porta con la chiave della legalità, ma può anche essere costretto a sfondarla con la spallata dell’insurrezione».

In febbraio, i fascisti iniziarono le violenze sistemiche. A Sestri Levante distrussero una camera del lavoro, a Verniana picchiarono un parroco, a Mirandola spararono ad un contadino sedicenne, a Lodi devastarono una cooperativa, a Piombino gettarono il segretario del sindacato dalla finestra. I fascisti avevano erano sicuri dell’impunità. Il Governo Bonomi chiamò il prefetto Cesare Mori nella Bassa padana e autorizzò lo scioglimento delle organizzazioni paramilitari. Papa Pio XI arrivò al soglio pontificio ed era contrario alla riconciliazione con l’Italia. Per questo motivo la Chiesa non mostrò aperture verso la crisi del Paese. «È il culto della libertà che noi vogliamo invocare», disse Filippo Turati. Fece eco Anna Kuliscioff: «Ormai la borghesia non teme più la rivoluzione e si getterà in braccio al primo generale al potere». Ancora Balbo: «Noi abbiamo un destino solo: svalutare nel ridicolo, fino all’assurdo, lo Stato che ci governa, il regime attuale».

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Iniziarono le raffigurazioni simboliche del duce. «Il suo corpo, non grande, riempie tutta la piccola stanza al Popolo d’Italia», raccontò Giuseppe Bottai. «Quel che avviene quando Mussolini si presenta alla folla è indicibile», confermò Roberto Farinacci. Ogni giovedì, ricorda Mauro, Mussolini aveva un doppio appuntamento per pedicure e manicure. Nel frattempo, arrivò Luigi Facta a Palazzo Chigi – «uno dei maggiori idioti di tutti i tempi e di tutti i Paesi», secondo Gaetano Salvemini; lo scalda-sedia di Giolitti per altri. In marzo, il fascismo si fece sempre più affamato di rituali. Trovò in Gabriele D’Annunzio una figura da esaltare. Mussolini stesso disse che il poeta era un uomo di genio. Nel mirino del duce finirono i popolari, che non volevano collaborare né con i fascisti né con i comunisti. Don Luigi Sturzo, capo dei popolari, venne definito da Mussolini come segue:

«Questo piccolo, mediocre prete siciliano comincia a scocciare in modo inquietante la coscienza della nazione. Costui rappresenta un pericolo enorme per la religione in generale e per il cattolicesimo in particolare. Se continuerà ad imperversare assisteremo in Italia a un legittimo scoppio di anticlericalismo».

Giacomo Matteotti nel marzo 1922 presentò il libro nero del fascismo sugli attentati squadristi in Italia. Tra ritorsioni, bastonature, sparatorie, incendi, omicidi. In aprile, il fascismo iniziò ad attaccare la monarchia: Vittorio Emanuele III non era un re amato. Ricorda Ezio Mauro: era solo, cresciuto senza amici, annoiato dai riti di corte e invecchiato prematuramente. Il re conosceva il duce da prima della marcia su Roma. Lo incontrò quando era ricoverato in un ospedale di Cividale durante la Grande Guerra. Rimase colpito dal bersagliere Mussolini, allora direttore del Popolo. In maggio, il Paese sembrava sull’orlo di una polarizzazione politica irreparabile.

Le camicie nere si presentano come la forza che avrebbe bloccato l’arrivo del bolscevismo in Italia. A Cremona, Farinacci disse che non poteva tollerare le manifestazioni social-comuniste a meno che egli non potesse intervenire in contraddittorio; mentre a Bologna, Balbo covava nuove strategie per lo squadrismo locale. A calmare gli animi, Dino Grandi: «Il fascismo oggi deve diventare un organismo politico potente e disciplinato che agisca contro lo Stato e lo trasformi». Mussolini scelse questa linea. In giugno, alcuni parlamentari vennero aggrediti dalle violenze fasciste. Il progetto eversivo delle camicie nere, ricorda Ezio Mauro, è un anticipo di rivoluzione. Mussolini attaccò il socialismo di petto: «Pietà o schifo, secondo i gusti. Il socialismo italiano non sa cosa vuole, dà l’immagine di un paralitico che balbetta o di un ubriaco che abbraccia un fanale». Matteotti annotava che «ogni libertà è soppressa, ogni persecuzione è consumata».

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Il fascismo «sovverte l’ordine politico e amministrativo sotto gli occhi dei cittadini, scavalcando il diritto, uscendo dalla legalità, facendosi beffe delle polizie e intimidendo la giustizia», continua Mauro. Divenne chiaro che Mussolini voleva lo Stato. «Saremo con lo Stato tutte le volte che si dimostrerà geloso custode e difensore della tradizione e del sentimento nazionale. Ci sostituiremo allo Stato tutte le volte che si manifesterà incapace di combattere le cause e gli elementi di disgregazione interiore». Facta sospese tutti i permessi di porto d’armi a Firenze e Roma, ma era troppo tardi. In luglio, emersero delle voci secondo cui Turati avrebbe incontrato Sturzo per creare una coalizione antifascista di responsabilità nazionale. Poi in agosto, ricorda Ezio Mauro, «attaccando i municipi si sfigura la fisionomia politica del potere pubblico italiano, ma il bersaglio è ormai apertamente la democrazia stessa, estenuata e incapace di difendersi, abbandonata da uno Stato inerte».

In settembre, Mussolini ebbe la conferma che più la furia squadrista procedeva, più lo Stato arretrava. I popolari vedevano il pericolo solo a sinistra. I liberali, guidati da Giovanni Amendola, erano convinti che coinvolgere i fascisti nel governo potesse essere una normalizzazione minore rispetto allo spettro del comunismo. Infine, i socialisti raccoglievano ancora i cocci delle perenni polemiche attorno alla scissione di Livorno. Mussolini, nel frattempo, era sempre più stretto tra la corrente più istituzionale rappresentata da Grandi e Giacomo Acerbo e quella rivoluzionaria di Balbo, Farinacci e Michele Bianchi. Non sapeva se le forze dell’ordine erano pronte a sostenerlo e credeva che una partecipazione fascista al governo avrebbe imprigionato lo spirito fascista. In ottobre, l’insurrezione fascista doveva convergere in una marcia su Roma per occupare il governo e obbligare la corona ad affidare l’esecutivo ai fascisti. Freddi su questo, Cesare Maria De Vecchi ed Emilio De Bono.

Mussolini voleva tagliare corto: «La marcia o si fa subito, o non si farà mai più. Il tempo è maturo e il governo è marcio, lo spettro di Giolitti viene avanti pian piano». Il fascismo voleva farsi istituzionale pure compiendo la rivoluzione. Facta voleva dimettersi, ma il re lo convocò a villa Savoia. A fine ottobre si accesero fiammate di violenza spontanee. Il governo dichiarò lo stato d’assedio, ma Vittorio Emanuele lo cancellò. Era convinto che neutralizzare Mussolini sarebbe stato possibile solo tramite un governo guidato da Antonio Salandra. Intendeva coinvolgere Mussolini e ridimensionarlo, ma i preparativi della marcia su Roma avevano già ingolfato il governo. Mussolini resse le pressioni: e fu marcia su Roma. L’Italia cadde sotto l’incanto del menzognero del fascismo. Il re chiese a Mussolini di ritirare per mobilitare gli squadristi accampati a Roma, ma quello che fu smantellato fu lo Stato liberale.

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