La Siria oltre lo Stato Islamico

Con il progressivo crollo dello Stato Islamico la guerra civile in Siria si avvia, se non alla sua fine, a una più facile risoluzione. Il progressivo ritorno del territorio siriano nelle mani dei due attori riconosciuti a livello internazionale (da un lato il regime di Damasco supportato dall’Iran e dalla Russia, dall’altro l’opposizione divisa tra le sue varie anime supportata dagli Stati Uniti) riduce la corsa ai territori e, dopo la presa di Raqqa, legittima ulteriormente anche come polo di dialogo l’opposizione siriana. La domanda che i commentatori internazionali si pongono da oltre 4 anni è: quale volto avrà la Siria dopo la caduta dello Stato Islamico? Sebbene chi commenta solitamente questo genere di avvenimenti non abbia doti divinatorie, ma sia costretto a basarsi su dati empirici, è comunque lecito cercare di tratteggiare i confini e gli assetti della regione al termine del controllo territoriale del califfato.

La situazione attuale al tempo della scrittura vede il regime di Assad in possesso di un’ottima parte del paese, coincidente con la regione di Damasco, di vasta parte di quella di Aleppo e di buona parte della Siria Centrale. Le forze di Assad, supportate da Teheran e Mosca, hanno recentemente completato la riconquista di Deir Ezzor, sebbene alcuni quartieri (al-Hamidiyah) vedano ancora scontri in corso. Lo Stato Islamico è confinato nelle aree rurali del sudest siriano e al confine con Israele presso Tasil.

I ribelli, dall’altro lato, hanno preso la città di Raqqa durante il mese di ottobre: questa era la capitale dello Stato Islamico e la sua perdita ha rappresentato un colpo molto duro per l’organizzazione, dato che ha segnato l’indebolimento del dominio dei terroristi sulla valle dell’Eufrate, controllo poi definitivamente annullato con la presa di Deir Ezzor. La maggior parte degli assedianti dell’ex capitale dell’Isis fa parte delle SDF (Syrian Democratic Forces), solo una delle molte sigle che compongono la galassia della resistenza ad Assad, e sono composti prevalentemente da miliziani curdi, arabi e assiri: secondo stime del governo statunitense (che li supporta), l’SDF è composta al 40% da curdi e per la restante parte da arabi. Altra sigla di notevole importanza è l’FSA (Free Syrian Army), principalmente composta da ex elementi dell’esercito siriano, che nel 2011 costituì una forza antagonista ad Assad nel momento in cui fu mandato a schiacciare le varie insurrezioni che si erano sviluppate in giro per la Siria.

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Soldati delle Syrian Democratic Forces. BBC

Un’altra consistente fetta della resistenza ad Assad è composta da ribelli islamisti che cercano di portare la Siria verso diversi gradi di islamizzazione del paese: la maggior parte di queste sigle origina da gruppi sunniti che hanno ricevuto (e ricevono tutt’ora) risorse da fondazioni religiose di marca spiccatamente conservatrice sparse in giro per il Medio Oriente. Alcuni di questi gruppi (il vecchio al Nusra, ora Jabhat Fateh al Sham su tutti) presentano forti legami storici con Al Qaeda. Tali legami, nel corso del tempo, si sono indeboliti in parte per trarre d’impaccio i militanti (che si sono visti attaccare contemporaneamente da tutte le forze in campo e con la ristrutturazione speravano di sottrarsi almeno al fuoco statunitense) e in parte per l’indebolimento progressivo che Al Qaeda sta vivendo come network nel suo complesso, a beneficio di altri attori nella galassia dei gruppi terroristici sunniti come lo Stato Islamico e la relativa rete.

La progressiva perdita di terreno delle formazioni islamiste, a beneficio delle forze legittimate al discorso politico, alleggerisce di molte tensioni e semplifica il puzzle siriano, conducendo a una maggior facilità di dialogo tra ribelli e regime. La perdita dell’elemento territoriale per lo Stato Islamico costituisce una questione piuttosto seria, considerando la proclamazione del califfato avvenuta nell’aprile del 2013 a Mosul. Secondo i canoni dell’ortodossia sunnita, infatti, la visione del mondo è manichea: il califfato costituisce la Dar al Islam (terra dell’Islam), mentre al di fuori di esso vi sono le tenebre e le terre degli infedeli, la Dar al Harb (terra della guerra). Per ovviare a questa perdita, Al Baghdadi (ammesso che sia ancora in vita) e soci stanno cercando di implementare concetti presi da scuole diverse da quella hanbalita (la scuola giuridica che forniva supporto giurisprudenziale a larga parte dell’ideologia ortodossa), come il concetto che vi è Dar al Islam (e, per converso, il califfato) ovunque viva un credente: in tal caso lo Stato Islamico e i suoi affiliati finirebbero per percepire come parte del califfato l’intera umma (comunità dei credenti). Scenario alternativo è quello in cui Al Baghdadi riesca a fuggire dal Levante e a ricreare lo Stato Islamico da un’altra parte nel mondo. I teatri possibili sono molteplici: si va dall’area a cavallo tra Pakistan e Afghanistan alla Nigeria, dalla Somalia allo Yemen e via dicendo.

Un detto anglosassone recita: «One man’s loss is another man’s gain» e questo si rivela essere particolarmente vero nal caso di Raqqa. Se la perdita della capitale è stato il segnale che più di altri ha dimostrato il declino irreversibile dello Stato Islamico nell’area levantina, la città rappresenta ora una possibile capitale per uno stato siriano democratico. Il portavoce della SDF, nei giorni seguenti al termine dell’assedio, ha rimarcato il fatto che Raqqa sarà la futura capitale della Siria Federalista e che la stessa SDF avrebbe cercato di neutralizzare ogni minaccia esterna al territorio dell’ormai ex provincia di Raqqa.

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Soldati russi nei pressi di Deir Ezzor. Reuters

La strada per la creazione di una Siria federalista è certamente molto lunga e la stessa Raqqa necessita di una vera e propria bonifica: dopo oltre tre anni di dominio dello Stato Islamico la città è per quasi il 90% rasa al suolo, mentre ciò che è rimasto in piedi deve essere sminato e le eventuali trappole esplosive piazzate dallo Stato Islamico durante la fuga devono essere eliminate. Il nuovo stato dovrebbe vedere ricompreso all’interno dei propri confini quasi tutta la Siria orientale con l’eccezione di Deir Ezzor: buona parte del Rojava e tutta la provincia di Raqqa vi dovrebbero essere incluse e l’assetto federalista verrebbe assunto proprio per permettere sufficiente spazio di manovra ad anime tanto diverse come quella curda e quella araba.

Il ministro della riconciliazione nazionale Ali Haidar ha affermato che il futuro di Raqqa potrà essere discusso solo all’interno di uno stato siriano unito, così come Bashar Al Assad ha rimarcato che Damasco recupererà tutti i territori persi. In seguito alle affermazioni da parte del regime, tuttavia, resta da chiedersi con che atteggiamento, dopo la definitiva sconfitta dello Stato Islamico, SDF e ribelli da un lato e governo siriano dall’altro rivolgeranno nuovamente le armi l’uno contro l’altro.

Non si tratta più, infatti, di combattere forze proxy come fece Assad con l’FSA (meramente supportato a livello di risorse tra armi, expertise e denaro dagli Stati Uniti), ma si troverebbero di fronte soldati americani, russi ed iraniani, finora impegnati principalmente nell’eliminazione degli effettivi dello Stato Islamico i primi, e dei ribelli i secondi. Una situazione di questo tipo porrebbe l’uno di fronte all’altro russi ed americani, entrambi presenti con uomini e attrezzature in loco.

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Un technical spara contro un caccia del regime siriano. AFP

In secondo luogo, un ulteriore elemento che suggerirebbe una fine rapida del conflitto è la durata della guerra civile: gli scontri vanno avanti da oltre sei anni ed è presumibile che dopo aver sconfitto l’avversario maggiormente temibile e risoluto, quello che per un anno abbondante ha minacciato le capitali di ben due paesi, le due fazioni possano spogliarsi delle uniformi per indossare giacca e cravatta e presentarsi di fronte alle persone che fino al giorno precedente si trovavano nel mirino del proprio fucile per accordarsi su un futuro, condiviso o meno, della Siria.

Tra i motivi che probabilmente condurranno a una Siria pacificata e condivisa in breve tempo, quello più forte è probabilmente il ragigungimento di tutti gli obiettivi in gioco da parte della due potenze leader delle due coalizioni: mentre la Russia preserva all’interno di una potenza alleata le sue due basi di Laodicea e Tartus, unico sbocco sul mediterraneo, gli Stati Uniti ottengono la riduzione del potere a livello territoriale di un nemico tradizionale come Assad. Tra gli obiettivi secondari gli Stati Uniti ottengono la distruzione a livello territoriale dello Stato Islamico, mentre la Russia riuscirebbe ad arginare in parte il rientro dei propri foreign fighters, che potrebbe originare problemi di ordine interno molto seri. Lo scenario peggiore per la Russia in tal senso vedrebbe l’esplosione della terza guerra cecena, fomentata dai combattenti con passaporto russo nelle fila dello Stato islamico.

È pertanto lecito aspettarsi che al termine del conflitto con lo Stato Islamico entrambe le potenze che fanno da “padrino” a questo scontro pongano una mano sulla spalla dei rispettivi contendenti e intimino di smettere. Dopo sei anni di conflitto, infatti, appare drammaticamente chiaro che l’input per la pace non può provenire da Assad o dalle forze ribelli, ma è necessario che “i grandi” si mettano in mezzo. La situazione vedrà quindi la Siria separata in due, con la parte occidentale sotto il regime di Assad e quella orientale organizzata secondo i canoni di uno stato federale. Gli ultimi avvenimenti hanno dimostrato una volta di più come il fulcro del conflitto sia l’annientamento dello Stato Islamico e alla sua sparizione dal levante è lecito attendersi una fine del conflitto entro poche settimane.

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