Turchia, Siria e l’offensiva su Afrin

Il separatismo curdo è una questione con cui la Turchia sta facendo i conti sin da quando la capitale era a Istanbul e i turchi non erano cittadini, ma sudditi dell’imperatore. A oggi la soluzione è ancora molto lontana dall’essere raggiunta e questo provoca continui conflitti sia all’interno dell’Impero Ottomano prima e delle Turchia poi, che a ridosso delle sue frontiere. Il popolo curdo è infatti a tutt’oggi diviso in cinque paesi differenti (oltre alla già menzionata Turchia vi è la Siria, l’Iran, l’Iraq e Armenia) le cui aree occupate da genti di etnica curda sono, nel loro complesso, dette Kurdistan. Tra gli stati “ospitanti” indubbiamente la Turchia è quella che più ha faticato nel trovare un accordo con la minoranza ed è il più strenuo oppositore di ogni progetto statuale che coinvolga i curdi, si sviluppi esso all’interno delle proprie frontiere o all’esterno: è il caso della Siria federale che i ribelli vorrebbero creare intorno a Raqqa e alla sua provincia, con la possibilità di includervi il Rojava (il Kurdistan siriano) e altre aree del paese al momento in mano a forze ostili alla Siria di Damasco. Per prevenire ciò Ankara ha sempre cercato di mettere i bastoni tra le ruote alle forze curde impegnate di volta in volta contro lo Stato Islamico o contro il governo centrale siriano: i bombardamenti sono iniziati nel 2014 e di tanto in tanto vi sono state rapide incursioni di mezzi meccanizzati oltre il confine o altre operazioni più strutturate come la Euphrates Shield, ma un’operazione di vasta scala come quella di questi giorni su Afrin rimane sena precedenti.

Il Rojava è diviso in quattro cantoni: l’offensiva turca si sta concentrando prevalentemente sul cantone occidentale di Afrin, che è separato dal resto del Kurdistan siriano dalle zone occupate dai ribelli supportati direttamente da Ankara e che hanno ricevuto in eredità tali zone in seguito all’operazione Euphrates Shield. La regione occupata ha la forma di un triangolo con vertici al-Bab, Jarabulus e al-Zaz. L’offensiva, che con una certa dose di ironia è stata chiamata Ramo d’Ulivo dagli alti comandi turchi, è iniziata venerdì 19 gennaio con il bombardamento di diverse zone di confine tra il cuneo occupato dai ribelli di Ankara che fungono da forza di contatto con le forze curde dell’YPG: l’esercito turco sta conducendo l’offensiva secondo le modalità tipiche della guerra per procura. Questo modo di condurre la guerra prevede bombardamenti intensi delle posizioni avversarie con l’obiettivo di facilitare il compito dei reparti delle forze alleate che giungono a fissazione con il nemico.

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Bandiera del Kurdistan Siriano, altrimenti detto Rojava. Wikipedia Commons

Nei primi giorni di febbraio l’offensiva era giunta a uno stallo causato da una serie di fattori: il primo e più importante è dovuto al meteo, date le forti piogge che hanno caratterizzato la zona in quei giorni e bloccato l’avanzata dei reparti meccanizzati. I bombardamenti sono proseguiti a mezzo servizio in quanto la pioggia, la paura dei missili antiaereo a spalla e le cortine fumogene generate dai roghi di copertoni hanno contribuito a tenere i cieli sgombri. Proprio i bombardamenti aerei sono stati, nei primi giorni dell’offensiva, uno dei grattacapi maggiori per la resistenza curda, sebbene dopo l’abbattimento di un Sukhoi-25 russo a Idlib le tensioni con la Turchia siano salite fino a portare il Cremlino a bloccare lo spazio aereo sopra Afrin, pregiudicando così l’andamento dell’offensiva turca. Il SU-25 è stato colpito da un MANPADS (Man-portable Air-Defense System, missile antiaereo a spalla) di fabbricazione russa, lanciato dagli islamisti affiliati ad Al Qaeda di Hayat Tahrir Al-Sham mentre l’aereo viaggiava a bassa quota a causa dei danni a un motore. Questo avvenimento, insieme alla notizia più recente del jet israeliano abbattuto presso Harduf, contribuisce a far passare il messaggio ai governi (e per converso, anche agli stati maggiori) che la superiorità aerea a oggi sia un vantaggio tattico sopravvalutato: l’abbattimento di un aereo da combattimento genera un notevolissimo impatto mediatico, ancora prima che tattico o economico.

Dal momento dell’inizio dell’offensiva l’esercito turco ha “neutralizzato” (termine spesso utilizzato nel corso delle conferenze stampa indette dall’esercito turco per indicare con un solo termine gli uccisi, i catturati e coloro i quali si sono arresi) oltre un migliaio di combattenti sia dell’YPG (una delle sigle che compongono la resistenza curda) che affiliati allo Stato Islamico. Il portavoce dello stato maggiore turco si è premurato di assicurare che sono stati neutralizzati solo elementi legati al terrore, ma tale circostanza è piuttosto difficile da ritenere come attendibile, dato che i bombardamenti dei primi giorni hanno colpito anche villaggi curdi pieni di civili, dove si stima siano rimasti sul terreno almeno cento morti.

Le forze di Damasco, che hanno a più riprese condannato l’iniziativa in quanto lesive della sovranità nazionale siriana, hanno cercato di intervenire preventivamente su Afrin arrivando nei pressi della città nella giornata di martedì. Per tutta risposta l’esercito turco ha applicato un consistente fuoco di sbarramento per impedire alle forze di Assad di entrare in città, circostanza che avrebbe messo in seria difficoltà le forze di Ankara costrette a quel punto a battersi contro un avversario pur sempre alleato dei russi. Come risultato le forze di Assad hanno dovuto battere in ritirata verso sud. Lo stato maggiore turco si sta orientando anche su un attacco alla città curda di Manbij, dove risiedono i centri d’addestramento delle forze dell’YPG e dove sono presenti i consulenti militari statunitensi: la diplomazia americana e quella turca stanno cercando un accordo, ma Erdogan ha già fatto sapere di volere la città sgombra da forze dell’YPG.

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Bombardamento in corso nei pressi di Idlib. Reuters

Statistiche risalenti a due settimane fa prodotte dall’OCHA (l’Ufficio di Coordinamento degli Affari Umanitari – Office for Coordination of Humanitarian Affairs) stimano il numero di rifugiati in circa trentamila persone: nonostante tali circostanze, la Turchia continua a ribadire la necessità di portare avanti l’operazione in quanto la sola presenza dell’YPG in loco è una vera e propria minaccia per l’integrità dello stato turco (sorvolando sul fatto che i fucili dei curdi non sono mai stati rivolti verso il confine con la Turchia) in quanto estensione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Partiya Kerkerei Kurdistan), i terroristi separatisti che da decenni richiedono l’indipendenza dellle zone turche abitate da curdi.

L’eco dell’offensiva si è fatto sentire anche all’estero dato che segna l’ingresso di un’altra potenza nel conflitto. La Russia approccia la questione con una sana dose di circospezione: se da un lato vede di buon occhio una riduzione degli oppositori di Assad, dall’altro il Cremlino teme che Ankara possa tenere per sé quanto guadagnato in guerra, facendo diventare “Turchia” la regione di Afrin. Tale timore è confermato dal fatto che Ankara sembra stia appuntando capi di stazioni di polizia, magistrati e altre figure rappresentanti il governo centrale nelle zone già sotto il proprio controllo. A gettare ulteriore benzina sul fuoco c’è la circostanza già esposta dell’abbattimento del Sukhoi-25 russo, apparentemente abbattuto da un missile proveniente dalle zone occupate dai turchi. D’altro canto l’YPG è stato abbondantemente finanziato e armato dagli americani in chiave antifondamentalista, per cui Mosca ha avuto gioco facile nel rovesciare la colpa dell’offensiva su Washington.

Il sospetto che attanaglia buona parte dei commentatori internazionali è di quelli terribili: alcune agenzie d’intelligence occidentali sono venute a sapere, tramite fonti ex-Isis, che Ankara sta reclutando tra i prigionieri dello Stato Islamico e cercando di sfruttare il nome dell’FSA (ormai “dirottato” dagli islamisti) per poter impostare una guerra per procura: dopo un training, effettuato con l’intento di cambiare le tattiche d’assalto verso una guerriglia più convenzionale che non preveda il solito schema di attacco complesso (ovvero autobomba più assalto, che renderebbe la cooperazione troppo evidente a livello internazionale), le truppe vengono nuovamente mandate al fronte.

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Guerriglieri dello Stato Islamico. AP

Il conflitto che sta coinvolgendo turchi e curdi rischia di revitalizzare lo Stato Islamico o, quantomeno, permettergli di sopravvivere in altre forme e magari diffondersi con maggior facilità in zone destabilizzate dove è possibile far partire una nuova insurrezione e un nuovo califfato. Alcuni paesi lo stanno capendo ora: un diretto interessato è la Francia, colpita a ripetizione da attentati poi rivendicati dallo Stato Islamico. Parigi è intervenuta diplomaticamente nell’area e, in caso di gravi violazioni del diritto internazionale, si dice pronta a intervenire. Macron si è messo in contatto con l’omologo russo al fine di porre un freno all’invasione turca, ma questi non sembra essere troppo intenzionato a collaborare, dato che il principale interesse russo è dato dalla preservazione di Damasco e del litorale costiero in mano a una forza “amica” (sia essa capeggiata da Assad o meno). Se tale obiettivo può essere raggiunto senza pestare i piedi ad Ankara nella sua guerra santa anticurda, tanto meglio. Le preghiere dell’Eliseo di non aggiungere guerra a guerra sembrano dover rimanere inascoltate.

L’offensiva turca rischia di prendere una pessima piega per entrambi gli schieramenti: se da un lato l’YPG e l’intero progetto di Siria federale rischiano di vedersi privati di un terzo dell’intero territorio, dall’altro il discorso relativo a una vittoria “facile” rischia di non avverarsi e anzi, di condannare Ankara a un impegno di mesi (forse anni) e a un “impantanamento” nel conflitto parecchio costoso in termini di risorse economiche, umane e di consenso interno. L’operazione Ramo d’Ulivo sembra essere un’operazione in cui tutte le forze in gioco hanno solo da perdere.

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