Dogman: il cappio del male

Il cinema italiano torna vittorioso dal Festival di Cannes 2018. Lazzaro felice di Alice Rohrwacher si è aggiudicato il premio per la miglior sceneggiatura (in ex-aequo con Three Faces di Jafar Panahi) e Marcello Fonte, volto protagonista di Dogman di Matteo Garrone, ha vinto come miglior attore. Per quest’ultimo sembra un sogno. Custode nel centro sociale romano Nuovo Palazzo Cinema e appassionato alla recitazione, si è trovato catapultato da un sostanziale anonimato ai lustri di Cannes. Viene scovato per caso dal responsabile del casting di Garrone, che andò a vedere uno spettacolo del centro, dove Fonte sostituiva un attore morto all’improvviso. Non era nuovo al set cinematografico: aveva fatto una serie di ruoli minori e comparsate nel cinema e nella televisione, ha anche co-diretto e scritto Asino Vola (2015), presentato al Locarno Festival. Tuttavia questa è di gran lunga la sua prima grande occasione, sfruttata a meraviglia.

La versione di Garrone del delitto del Canaro

Dogman era un progetto in cantiere da ben dodici anni. Si basa su un noto fatto di cronaca, il delitto del Canaro della Magliana, avvenuto nel 18 febbraio 1988. Pietro De Negri, chiamato “er canaro” per la sua attività di toelettatura nella suddetta via romana, si rese colpevole del brutale omicidio di Giancarlo Ricci, un pugile dilettante. De Negri era pregiudicato per una rapina avvenuta nel 1984, fatta con Ricci e da cui non ha mai avuto la parte di refurtiva. A giudicare dalla sua testimonianza, non si vendicò per un regolamento dei conti legato al furto, ma per via di tutte le angherie subite nel corso del tempo, come tangenti imposte con minacce e violenza fisica. L’assassinio di Ricci, però, è stato ben più truce, tanto che i giornali al tempo parlarono di uno scontro tra Davide e Golia, tra una personalità apparentemente mite, ben rispettata e un mostro locale, da cui tutti si tenevano lontano nel quartiere. Il cadavere del pugile è stato ritrovato la mattina seguente alle 8:30, carbonizzato e con vari segni di tortura, i cui dettagli cruenti scossero l’opinione pubblica.

Non è la prima volta in cui il regista Garrone si fa ispirare da un fatto di cronaca. Il suo quarto film, L’imbalsamatore (2002), prendeva spunto dalle vicende del «nano di Termini», Domenico Semeraro. Il caso di De Negri però lo portava a esitare già nella fase di scrittura. Dice a Vanity Fair: «Ho avuto un rapporto altalenante con questa storia. Ero affascinato ma, più passava il tempo, più i dettagli sanguinolenti mi respingevano. La sceneggiatura [scritta con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, N.d.R.] è cambiata di continuo, non so contare quante volte». È stato proprio l’incontro con Fonte a suggerirgli in quale direzione andare. Non è la dimensione del raccapricciante, del dettaglio splatter a interessare il regista, ma l’umanità irradiata dal volto dell’attore e personaggio Marcello, che pure racconta un rapporto con il maligno sempre più soffocante.

Dogman
Foto: rep.repubblica.it

Come nelle vite di borgata pasoliniane, Garrone si cala in un’altra storia ai margini del paese. Sin dai primi due capitoli della trilogia di stile amatoriale, Terra di mezzo (1996), Ospiti (1998), passando poi per L’imbalsamatore, e Gomorra (2008), si esce dai luoghi del progresso per mostrare invece la periferia desolata e degradata. Spesso questi quartieri popolari nel paesaggio urbano, lontani dagli occhi dei turisti e lasciati a sé stessi, come gli edifici fatiscenti che vi si ergono, danno la sensazione che le ventate di novità che investono la metropoli arrivino solo con una debole eco, o addirittura che il tempo si sia arrestato. Dogman amplifica molto tutto ciò, tanto che è difficile dare collocazioni geografiche e temporali. Le riprese sono state fatte nel Villaggio Coppola di Castel Voturno, ma l’ambientazione rimane imprecisata. Il villaggio di Marcello sembra una dimensione a parte, dove i segni della contemporaneità urbana si mescolano ad uno sfondo western, complice la tonalità gialla della fotografia di Nicolaj Brüel. Come nelle piccole e isolate comunità di frontiera, le tacite leggi da rispettare per essere integrati e ben accetti non hanno a che fare tanto con la legalità, ma con leggi di strenua e fisica difesa, territori demarcati a cui dare fedeltà. La realtà presentata però non è l’anticamera del processo di civilizzazione, non c’è una forza avveniristica pronta a sconvolgere il destino comunitario, ma sembra uno scarto grigio di un presente di possibile co-esistenza. Attorno al largo centro desolato, c’è lo spaccio di cocaina, sale slot, compro-oro, bar con insegne vecchissime. I suoi abitanti impegnano le proprie energie per la semplice sopravvivenza quotidiana. L’orizzonte di Marcello assomiglia allora a proprio a quello dell’Accattone di Pasolini: è chiuso nel proprio raggio periferico, ingolfato in un contesto precario, senza sconti e sulla via di un destino irrimediabile e logorante. Sandro Onofri in Fattacci di Vincenzo Cerami, che parla anche del delitto del Canaro, descrive così le dinamiche della Magliana: «Esistevano i ruoli, eterni, di capi e di gregari, di padrone e di vittima, e se per una volta capitava di trovarsi tra i secondi, ciò significava essere considerati delle pappe molli, gente senza spina dorsale, femminucce. Determinazione e forza fisica erano le qualità indispensabili per essere accettati in quel mondo. Se le si possedeva, allora, e solo allora, si otteneva il passaporto per entrare in quella città che poteva offrire anche amicizia vera e autentica solidarietà». Marcello però non è affatto intimidatorio. La scena di apertura, che inquadra un cane aggressivo e pronto a mordere se toccato, mostra in contrapposizione la figura ben più modesta del toelettatore, che con la pazienza e un affettuoso tono di voce riesce a mitigare uno dei suoi pupilli a quattro zampe. Dal fiabesco del precedente Il racconto dei racconti (2015) Garrone mantiene non solo una certa atmosfera sospesa, ma anche l’essenzialità del costume e della forma fisica per definire un personaggio. Tutta la bontà, la cura e la tenerezza di Marcello si infonde nei cani, che non sono affatto la vera minaccia violenta di Dogman. Di piccola statura, la corporeità di Fonte assomiglia a quella di Keaton non solo nella malinconia del vivere in un mondo circostante ostile, ma anche nel fronteggiare enti fisici sempre più grossi, di movimenti pericolosi. Il piccolo addomestica la ferocia tutta animale con destrezza, ma non riesce a replicare con altrettanta padronanza di sé quando si tratta dell’amico Simone. Simoncino (Edoardo Pesce) è il gigante Golia, cioè il personaggio ricavato da Giancarlo Ricci. Come accadeva anche nelle comiche americane del muto, la diversità tra i due è fisica e simbolica: Simone è robusto, grosso e con un volto feroce, ruvido e già segnato da anni di criminalità, mentre Marcello non soltanto è di statura ben differente, ma è più esile, più incerto, animato da una sensibilità e una debolezza psicologica che lo pongono in una posizione di inferiorità. Marcello ha addosso il suo camice da lavoro di toelettatore, un lavoro che identifica al meglio la sua parte benefica e il suo inserimento nella comunità, Simone invece indossa sempre la sua tenuta sportiva sporca, come la sua persona e la sua condizione di reietto. Se Simoncino è un’ombra che grava su tutto il gruppo con il suo carattere irruento e rissoso, è Marcello a pagare più cara la sua influenza, essendo quello più assoggettabile. Marcello si ritrova in una pericolosa crepa al centro di due forze, interessato alla stima e all’affetto del suo circolo, ma incapace di separarsi davvero da Simone. Il pugile incombe come un’entità maligna e cannibale: Garrone sottolinea la sua incombenza fagocitante ancora con la predominanza fisica di Edoardo Leo su Fonte, la sua presa muscolare, un peso di piombo addosso, che chiude la visione circostante e adombra ancora di più l’inquadratura.

Dogman
Fonte: mymovies.it

Come Valerio ne L’imbalsamatore, però, Marcello subisce anche il fascino dell’amico parassita. La dipendenza dalla droga è un elemento che Garrone attribuisce più a Simone che a Marcello, discostandosi dal fatto di cronaca, però i vizi dell’amico lo seducono, costituendo un ulteriore motivo di oscillazione tra un polo e l’altro. Non si tratta solo delle promesse offerte da un beneficio artificiale, che sia la polvere bianca oppure un grosso bottino, ma anche il passo accettabile per compiacere e farsi accettare anche dall’amico, per riuscire ad accordare una doppia benevolenza con sincerità emotiva. Di nuovo come in Pasolini, i volti di questi attori, presi non per la garanzia della propria carriera professionale ma per l’immediatezza di un viso che racconta già una storia, sono la risorsa su cui imperniare la drammaticità della parabola discendente, tanto che talvolta non serve far altro che guardarli esistere e vivere, come accade in alcune scene dove la macchina da presa si ferma, magari dietro le persiane, e osserva degli eventi privati. È il primo film di Garrone dove trova spazio un certo candore, una certa luce tenera e ingenua che pure fa parte dell’umano. La sua convivenza sempre più rovinosa con la voracità del degrado ricorda l’innocenza recisa nei ragazzi di Gomorra, che cercano di continuare a vivere con cieca tenacia. Se ne L’imbalsamatore l’animale era un’estensione simbolica delle strano e del grottesco di Peppino, qui invece è un ritaglio di benessere e dolcezza, che è fuori posto nella desolazione dei muri grigi confinanti, come del cielo che grava su tutta la piazza oltre gli interni, e proprio per questo sembra avere vita contata. I cani di Dogman sono creature piombate dal fantastico, come la personalità ancora intaccata del protagonista, messa in un campo minato. La persona e il mondo del reietto sono infettivi, un morso vampiresco che non si accontenta del sangue succhiato via, ma muta la propria vittima. Fonte non aliena lo spettatore nel suo mutamento, ma è la gamma espressiva così naturale e pregnante che permette di comprendere la sensazione di intrappolamento di portata sempre più vasta, vedendolo dimenarsi con crescente disfatta. Agiscono in egual misura la compiacenza verso il maligno, che annerisce un poco anche il suo animo remissivo e la sua mente, ma anche la sopraffazione, la sensazione di essere stati cacciati in una strada a senso unico, rendendo impossibile riemergere a galla.

Il cinema italiano che vale

L’eccelsa interpretazione di Fonte dunque ha ricevuto giusti riconoscimenti, e non dispiacciono per nulla neanche i dieci minuti di applausi a Cannes al film di Garrone. Dogman dimostra che il suo creatore è in grado di far valere i propri punti di forza, racconti asciutti e oscuri ai margini cittadini, senza però ripetere sé stesso, offrendo al contrario motivi nuovi, integrando sfumature umane ancora inespresse grazie alla centralità del cast. Garrone allora pugnala lo spettatore e regala un’ottima opera cinematografica per l’annata italiana, che ne esce di nuovo rinvigorita, forte di un altro esempio di qualità rispetto alla sconsolante media dell’industria locale.

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