Giro di vite. Il realismo del soprannaturale

The Turn Of The Screw (1898), Giro di vite, è un romanzo da centellinare davanti al camino nelle fredde notti d’inverno. L’atmosfera gotica tratteggiata dal suo autore, Henry James (1843-1916), si può apprezzare pienamente solo circondati da un silenzio un po’ cupo, in perfetto isolamento e senz’altro pensiero al mondo che voltare la pagina successiva. Ma l’incantesimo funziona solo se si è disposti a rinunciare per qualche ora all’abituale realismo, che deve lasciare il posto all’istinto e al gusto per la suspence. La storia narrata da James è sì una storia di fantasmi, ma il suo enorme potenziale non si esaurisce qui: questo racconto è lo specchio della condizione umana e della continua lotta per l’autoconservazione.

Giro di vite
Deborah Kerr in The Innocents (1961), primo adattamento cinematografico del racconto.

Londra, estate 1898. Miss Giddens, giovane istitutrice di umili origini e di rette intenzioni, accetta il suo primo impiego presso un enigmatico gentiluomo. Questi la incarica di prendersi cura dei suoi due nipoti, Miles e Flora, residenti in un’austera dimora di campagna nell’Essex. Miss Giddens, cui non difetta l’intuito, capisce subito che c’è qualcosa di strano nei modi di quell’uomo e nella natura dell’incarico che le offre. Tuttavia, decide di cimentarsi nell’impresa e parte per Bly, la grande tenuta padronale avvolta nella brughiera inglese, in cui vivono i bambini in compagnia della servitù. In fin dei conti la paga è buona, e c’è solo una condizione da rispettare: il misterioso datore di lavoro, restio al contatto diretto coi nipoti, ha imposto alla ragazza di occuparsi in prima persona di ogni cosa, diffidandola dal coinvolgerlo in qualunque vicenda li riguardi. Miss Giddens, che ha preso l’incarico come una sfida personale, arriva a Bly carica di belle speranze. In effetti, nei giorni immediatamente successivi al suo arrivo tutto procede per il meglio. Il clima è mite; Mrs Grose, l’anziana governante a capo della servitù, si rivela affabile e bendisposta; quanto ai bambini, sono un tripudio di bellezza e rispettabilità – educati, studiosi e a modo, forse un po’ troppo per la loro giovane età. Ben presto, l’idillio si trasforma in un incubo: la giovane istitutrice inizia ad avere visioni di un uomo, prima, e di una donna, poi, vestiti in modo dimesso e dall’aria minacciosa. Sebbene convinta di non averli mai visti, Miss Giddens non può fare a meno di notare che i due hanno un’aria familiare. Oppressa dal peso di quella visione, impossibile da dimenticare – e anzi, destinata a ripetersi – la ragazza si confida con la governante e le descrive i due figuri. È allora che Mrs Grose, con un fremito di orrore, riconosce in quell’identikit Mr Quint e Miss Jessel – il cameriere e l’ex istitutrice dei bambini –, entrambi morti mesi prima in circostanze mai chiarite.

Da qui in poi, il romanzo è un crescendo di terrore. La narrazione si avvita su sé stessa in una spirale di tensione, destinata a concludersi con una strozzatura inaspettata che lascia l’amaro in bocca. Un capitolo dopo l’altro, il confine tra i vivi e i morti si fa sempre più labile. E diventa sempre più difficile capire se ci si trova al di qua o al di là di questa linea invisibile, sfumata, a tratti onirica. Già Ovidio, nel I secolo a.C., osservava: «Che è il sonno, se non l’immagine della gelida morte?». Ed è infatti in questa dimensione sospesa tra sonno e morte che Grace, giovane vedova, ritrova suo marito in The Others (2001), celebre film di Alejandro Amenábar liberamente ispirato al romanzo di James. Le due opere presentano trame diverse, ma sono molti i punti in comune: due bambini apparentemente perfetti che nascondono un terribile segreto, una donna chiamata a difenderli contro le invincibili forze del Male, un’anziana signora dall’aria sibillina; e soprattutto l’atmosfera gotica, data dal contesto bucolico e isolato di un tetro maniero avvolto nella nebbia. Ma il vero comune denominatore è il gioco terribile tra Vita e Morte, due facce della stessa medaglia che tendono a confondersi l’una con l’altra. Si crea così un andamento ondivago, altalenante, che non ci fa capire chi sia davvero l’estraneo: se noi stessi o the others, gli altri. E se è vero che, come affermava Sartre, «L’enfer c’est les autres», è proprio dinanzi a questo Inferno che ci si scopre privi di difese.

Giro di vite
Nicole Kidman è Grace Stewart in The Others (2001).

The Turn of The Screw è un’allegoria, dalla prima all’ultima parola. Del resto, lo è già dal titolo: chi vuole sopravvivere deve sforzarsi, dare un «giro di vite» alla propria capacità di resistenza. È l’unico modo per non cedere alla paura: stringere la vite, serrare le difese, esercitare la resilienza che ci permette di affrontare ogni sfida. Solo così, del resto, Miss Giddens riesce a mantenere il controllo di sé e ad arrivare in fondo a quel tunnel narrativo in cui James, senza pietà, la costringe. La poveretta, per quanto sempre più esausta, sempre più indebolita dal precipitare degli eventi, resta consapevole – persino nell’ora più buia – che tutto dipende dalla sua «ferma volontà», e che la «prova mostruosa» che è chiamata ad affrontare va intesa «come una spinta verso una direzione insolita, ovviamente, e sgradevole, ma che dopo tutto non richiedeva, per farvi fronte serenamente, che un altro giro di vite alla comune virtù umana». Tutto andrà bene, sembra ripetersi Miss Giddens – e così pure Grace Stewart, protagonista di The Others – se si resta sereni e determinati, e se si ha un buon piano. In effetti, l’arco narrativo delle due opere è una serie di disperati tentativi, da parte delle protagoniste, di mantenere il controllo della situazione, magari ricavandone una certa soddisfazione personale: «ero capace di ricavare perfino del piacere», confessa Miss Giddens tra le pagine del suo manoscritto, «dall’impulso eroico che una situazione di quel tipo esigeva da me». Capita a tutti, nei momenti più difficili, di sentirsi fieri delle proprie capacità di resistenza; eppure, nonostante la loro encomiabile risolutezza, la vittoria di Miss Giddens e Miss Stewart sulle forze del Male resta sempre effimera. A rendere il tutto ancora più grottesco, c’è il fatto che non sempre si è certi di trovarsi dalla parte giusta: James rende magistralmente questa ambivalenza servendosi del tema del doppio. In uno dei passaggi più celebri e suggestivi del romanzo, la giovane istitutrice vede il fantasma di Mr Quint al di là della finestra che dà sul soggiorno; spaventata, ma decisa a risolvere la situazione, corre all’esterno per affrontarlo, ma nel giardino non c’è nessuno. Allora, presa da un impulso irrefrenabile, si avvicina alla finestra, occupando esattamente lo stesso punto in cui poco prima si trovava il fantasma; è allora che Mrs Grose, la governante, entra in soggiorno e vede Mrs Giddens attraverso il vetro, proprio come lei, pochi istanti prima, aveva visto Mr Quint. Espediente narrativo dall’impatto devastante, e perfetta metafora dell’ambiguità tra Bene e Male, Vita e Morte che fa da perno all’intero romanzo.

A questo punto, è spontaneo chiedersi cosa rimane di sé dopo un viaggio così travagliato in abissi così remoti. Ammesso che qualcosa resti. Sicuramente, resta un grande insegnamento: i demoni più spaventosi, gli esseri più orripilanti non sono lontani, ma vicini. Molto vicini. Li pensiamo sempre “al di là” – del lago, della torre, della finestra – e invece sono nelle nostre stanze, nelle nostre vite, tra le strade. E talvolta, in fondo all’anima. Ciò che conta allora è sforzarsi di tenerli fuori: non c’è salvezza per chi assorbe il Male. Per non finire come Miles e Flora occorre imparare a difendersi quanto basta per restare vivi, e per sapere di esserlo ancora. È qui, infatti, che si cela l’insidia: «A un certo punto cominciai a dubitare di essere viva io», dirà Miss Giddens in un momento di sconforto. È questo il tranello in cui non si deve mai cadere: finché restiamo convinti di essere vivi, lo siamo davvero. Quel che conta è non diventare i fantasmi di sé stessi.

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