Il business degli stracci: il mercato dei vestiti usati

La fripes, in francese, significa stracci. E così sono chiamati quegli abiti che troviamo sulle bancarelle dell’usato, proprio perché buttati lì come stracci consunti. Uno di quei cenci usurati una volta era una maglietta di cui qualcuno ha deciso di liberarsi. Quale percorso ha fatto per giungere fin lì? Quando scegliamo di dare via un nostro indumento, questo finirà probabilmente per essere messo in un sacco e gettato nel cassonetto adibito alla raccolta dei vestiti usati, sparsi ovunque nella nostra penisola.

Per un moto di solidarietà, crediamo che quella maglietta possa andare a rendere meno fredde le notti di un senzatetto, che vada quindi direttamente ai più bisognosi, ai più poveri, salvandoci dallo sforzo di doverla consegnare personalmente. La realtà dei fatti è che solamente il 2% dei vestiti e degli indumenti che doniamo servirà a vestire un connazionale in situazione di difficoltà. Nel 2016, il volume della raccolta dei vestiti usati in Italia, secondo gli ultimi dati disponibili, è stato di 133.000 tonnellate, circa 2,2 Kg per ogni abitante del Paese. La filiera degli indumenti di seconda mano ha dimensioni enormi, e quella maglietta che abbiamo abbandonato affronterà un viaggio che la porterà molto lontano dalle nostre città, a migliaia di chilometri di distanza dall’Italia.

La filiera: dal cotone al commercio dei vestiti usati

Innanzitutto, il mercato dell’usato è strettamente dipendente dal mercato del nuovo, che a sua volta ne è influenzato. Per esempio, il costo del cotone negli Stati produttori è un fattore in grado di determinare i volumi e i prezzi dell’offerta dell’usato e la capacità che ha il mercato di assorbirli. La produzione mondiale del cotone è localizzata per l’83% in sei Paesi: Stati Uniti, Cina, India, Uzbekistan e Brasile. Seppur la scelta di fibre sintetiche sia in crescita, il cotone resta tuttora il materiale più utilizzato nella produzione di abbigliamento.

Il tessile è il settore globalizzato per eccellenza. Dal trasporto, allo stoccaggio e lavorazione, l’indumento può arrivare a visitare tra i dieci e i quindici siti differenti, sparsi per il mondo. Gli Stati Uniti sono leader nella produzione ed esportazione del cotone, soprattutto grazie a ingenti sussidi governativi che permettono di mantenere una migliore qualità del prodotto, ed elevati livelli di meccanizzazione che consentono una più alta produttività. Il primo importatore è invece la Cina, che siede sul podio dei produttori di capi d’abbigliamento, soprattutto considerando il basso costo della manodopera cinese. Nonostante questo, la Cina negli ultimi anni ha delocalizzato la sua produzione del 40% in Vietnam, Mongolia, Sri Lanka e alcuni Paesi africani, in altre parole laddove il costo della manodopera è ancora più basso che in patria.

Eppure, il modello statunitense, seppure più redditizio in termini di volume, risente dell’utilizzo di prodotti chimici e OGM, elemento che va ad aggiungersi alla desertificazione del terreno, incidente in produzioni monoculturali e intensive come quella del cotone. Per dare comunque un’idea delle differenti scale di produzione e concentrazione della proprietà, basti pensare come in Cina venticinque milioni di coltivatori di cotone producano trentatré milioni di balle di cotone l’anno, mentre negli Stati Uniti venticinquemila coltivatori producono circa quindici milioni di balle. Inoltre, un produttore statunitense produce mediamente quattrocento volte la quantità di cotone prodotta da un africano.

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Macchina per la raccolta del cotone. Foto: Wikimedia Commons.

Il prezzo e le modalità di produzione della materia prima sono strettamente correlate al mercato dell’usato. Gli indumenti nuovi sono in diretta concorrenza con quelli di seconda mano, e la scelta del singolo consumatore è fondamentale. La crescita negli acquisti di vestiti usati degli ultimi anni è così forte da preoccupare le multinazionali del fast-fashion, come Zara e H&M, il cui business rischia di essere superato da quello dell’usato. Negli ultimi trent’anni, l’ammontare di vestiti comprati da ogni persona nell’Unione Europea è cresciuto del 40%, guidato da un crollo nei prezzi e un incremento dei redditi pro-capite nei Paesi occidentali. È stimato che ogni cittadino europeo consumi tredici chili d’indumenti l’anno; quindi 5,7 milioni di tonnellate che diventano rifiuto.

Il consumatore che sceglie oggi di indirizzarsi verso gli abiti di seconda mano preferisce orientarsi verso una decisione concretamente più sostenibile. Secondo l’università di Copenaghen, per ogni chilo di vestiti usati raccolti si producono in media 3,6 kg di CO2 in meno, si consumano seimila litri di acqua in meno, e l’uso di fertilizzanti e pesticidi diminuisce rispettivamente di 0,6 e 0,3 kg. Una nuova sensibilità dei cittadini riguardo all’impatto ambientale delle loro azioni ha contribuito alla crescita nelle pratiche del riciclo e del riutilizzo. Grazie anche al lavoro del Parlamento Europeo nell’ambito dell’economia circolare, sul quale si è espresso nel 2018, questi comportamenti hanno trovato finalmente delle linee guida.

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L’origine dei vestiti usati è generalmente una cessione gratuita o, come negli Stati Uniti e in Francia, una possibilità di dedurla dalle tasse. I principali canali di raccolta sono quindi enti di solidarietà che, come dicevamo, redistribuiscono una minima parte ai bisognosi, come fanno la Caritas in Italia e i Charities Shop in Gran Bretagna e Stati Uniti. Di tutto ciò che resta, una parte è venduta al mercato locale dell’usato, un’altra è dedicata all’esportazione ai fini del riutilizzo, o a varie possibilità di riciclo. Tutto ciò che non è trasformabile è avviato a smaltimento. In Italia, il 25% del recupero è utilizzato per il riciclo delle fibre, il 68% nel riutilizzo (locale o da esportazione), e solo il 7% è smaltito come rifiuto.

Le attività di esportazione sono delegate dalle associazioni di volontariato a degli intermediari, che gestiscono ogni aspetto organizzativo. La filiera dell’usato, che globalmente ha un valore di quattro miliardi di euro, non è solo una scelta sostenibile ma anche un mercato che dà lavoro a 355.000 persone nel continente africano. In I Viaggi di una T-Shirt nell’Economia Globale, l’economista Pietra Rivoli intervista il proprietario di Trans-America, il principale compratore statunitense di vestiti frutto di donazioni, e anche il principale esportatore verso l’Africa.

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Mercato dei “mitumba”, come sono noti in Kenya i vestiti di seconda mano. Foto: Flickr.

Egli le spiega che in questo settore è fondamentale possedere un know-how che richiede la capacità di identificare in un secondo il valore di una varietà pressoché infinita d’indumenti. In questo mercato, riporta la Rivoli, chi sa produrre le offerte più adeguate è chi ha maggiore visione e rapporto con tutti i passaggi della filiera. In Italia, uno dei principali protagonisti della filiera è HUMANA People to People, che tramite il commercio dell’usato raccoglie fondi per progetti sociali o di cooperazione internazionale. Dopo la raccolta, i vestiti sono inviati in Bulgaria e in Turchia, dove sono classificati, per poi essere venduti in Mozambico o in Malawi.

La stessa HUMANA, che fa della trasparenza un valore cardine, pone l’accento su un problema che esiste in tutta Europa e sfugge alle analisi: il trattamento illecito di rifiuti tessili. Le inchieste della Direzione Nazionale Antimafia e delle Direzioni Distrettuali Antimafia descrivono un dominio del mercato italiano degli indumenti usati da parte dei clan camorristici, e della direttrice che li unisce a Tunisi, principale destinazione dell’export italiano. Per questo, nonostante si siano fatti grandi passi avanti in termini di legislazione dell’usato in Europa, la sicurezza della filiera dipende dalla tracciabilità del rifiuto: dalla donazione dell’indumento, al suo arrivo sui mercatini dell’usato in giro per il mondo.

Il mercato dell’usato in Africa

L’Africa importa un ottavo dei vestiti già utilizzati nel resto del mondo. Secondo uno studio dell’agenzia americana USAid, il mercato dell’usato raggiunge i 200 milioni di euro di profitti nel continente. In Tunisia, il 90% della popolazione ricorre agli indumenti di seconda mano per vestirsi. Secondo le dichiarazioni del Ministero del Commercio tunisino, le cinquantaquattro aziende che distribuiscono i vestiti usati nel Paese forniscono lavoro a circa centomila famiglie.

Nonostante questo, la legge doganale, che autorizza il possesso di nove tonnellate di merce per ogni grossista, crea enormi problemi ai piccoli imprenditori di questo mercato, che si trovano spesso nell’illegalitàIl disaccordo tra i sindacati del settore e la dogana ha generato uno stop nelle esportazioni degli abiti usati, ferme dal 20 dicembre del 2019. L’attuale dialogo tra tutti gli interessati del settore, per una riforma coerente del quadro legislativo, è di fondamentale importanza per la Tunisia. Delle ottantamila tonnellate di vestiti in entrata nel Paese, solo dieci sono destinate al mercato locale, mentre il resto continua il suo viaggio nel continente.

In Senegal, nel mercato di Colobane, nel cuore di Dakar, i mercanti della fripes si riuniscono all’alba per essere i primi a mettere mano alle “occasioni”, che a loro volta cercheranno di vendere ai propri clienti. L’economista Ahmadou Aly Mbaye, professore dell’Università UCAD di Dakar, fa notare come dagli anni ottanta le tariffe doganali siano state considerevolmente abbassate e le restrizioni quantitative soppresse, un fatto che ha aperto la porta a un’importazione massiccia di abiti usati. Allo stesso tempo, le industrie del settore tessile e dell’abbigliamento sono in pratica scomparse dal Senegal.

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Paul Kagame, presidente della Repubblica del Ruanda, al World Economic Forum sull’Africa a Cape Town, Sudafrica, 11 giugno 2009. Foto: Wikimedia Commons.

Stesso discorso per il Ruanda, che nel 2016 importava l’equivalente di quindici milioni di dollari in vestiti di seconda mano. Proprio per questo motivo, il governo ruandese guidato da Paul Kagame, di comune accordo con il Kenya, l’Uganda e la Tanzania, ha deciso di negare progressivamente l’ingresso nel Paese ai vestiti provenienti da occidente. Moltiplicando per dodici i dazi in materia, l’ambizione è di far rivivere il settore tessile ruandese, nonché l’industria del cotone. Il cotone, in Africa, rappresenta il 10% della produzione mondiale, e la materia prima è di buona qualità, poiché raccolta a mano.

Questo tipo di guerra commerciale ha scatenato le reazioni dei più grandi esportatori di vestiti usati, gli Stati Uniti in testa. Le pressioni economiche esercitate da Washington hanno convinto il Kenya, l’Uganda e la Tanzania a tradire l’accordo con il Ruanda, lasciandolo da solo a fronteggiare i dazi americani. Il Paese dovrà accettare il fatto che i 25.600 posti di lavoro dell’industria locale di abbigliamento non possono reggere il confronto con le trecentomila persone legate alla catena di distribuzione dei vestiti di seconda mano. Ciononostante, sostenere la valorizzazione dei prodotti locali è l’unica strada per liberarsi dalla dipendenza delle importazioni e far rivivere l’industria tessile in Africa. Questa guerra non potrà però essere vinta senza una reale volontà dei consumatori africani a privilegiare il vestito prodotto localmente, lasciando a casa il rifiuto creato dall’occidente consumista.

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