Gli errori della Regione Lombardia, raccontati da chi era in prima linea

Durante lo scoppio della pandemia in Italia, gli occhi del Belpaese e del mondo intero erano puntati sulla Regione Lombardia. La cosiddetta “locomotiva d’Italia” infatti era ritenuta tra le migliori a livello di gestione della salute pubblica: la sanità sembrava essere una macchina ben oliata e potenzialmente in grado di affrontare il peggio. Tutto ciò, ovviamente, prima che il Covid-19 iniziasse a mietere vittime. Addirittura, il 27 gennaio, in un’intervista a Otto e mezzo, Giuseppe Conte, quando Lilli Gruber ha chiesto se l’Italia intera sarebbe stata pronta qualora il virus fosse approdato nel nostro Paese, il premier rispondeva con sicurezza dicendo: «Siamo prontissimi. […] Abbiamo adottato tutti i protocolli di prevenzione possibili e immaginabili». Si sa, il mestiere del politico prevede anche infondere fiducia nella popolazione. Ma eravamo davvero “prontissimi”? E sopratutto, la Regione Lombardia ha adottato tutti i protocolli preventivi?

La risposta è amaramente scontata. Ancora più amaro è ciò che è accaduto in Lombardia, dove inizialmente le aspettative dell’opinione pubblica erano molto alte.

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Il premier Conte durante un confronto sul tema Covid-19.

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I dati a confronto

I dati che vengono forniti dall’inizio della pandemia sul sito del Ministero della Salute sono un pugno nello stomaco. I numeri registrano attualmente un totale di 34.938 deceduti e 242.639 casi totali sull’intero territorio italiano. Un dato che salta all’occhio è quello relativo alla Regione Lombardia. Con 16.736 morti 94.905 casi accertati, la Lombardia ha effettuato più di un milione di tamponi. Un numero di certo impressionante che avulso dal contesto sembrerebbe lodevole in relazione alla gestione da parte della Regione Lombardia della sanità. Ma se rapportato ai dati della Regione Veneto, invece, c’è qualcosa che non torna.

Il Veneto infatti, ha effettuato quasi lo stesso numero di tamponi, precisamente, 1.048.535. Questa regione però ha registrato 2.039 decessi e 19.369 casi totali. Come è possibile, quindi, che il Veneto abbia effettuato una quantità pressoché identica di tamponi, registrando però circa un ottavo dei decessi rispetto alla Lombardia? La risposta non sta nella gestione della pandemia in Veneto. È bensì rintracciabile nella cattiva gestione della stessa in Regione Lombardia. E per capire che cosa è andato storto è necessario ripercorrere alcune tappe.

I dati sul Covid-19 delle regioni a confronto, aggiornati al 10 luglio. http://www.salute.gov.it/nuovocoronavirus

All’inizio di tutto

Nella prima settimana di febbraio lo Spallanzani di Roma ricovera due turisti cinesi e un italiano infetto che stava tornando dalla Cina: sono questi alcuni dei primi episodi ad oggi noti che testimoniano l’ingresso del virus nel nostro Paese. Le istituzioni pubbliche sembravano trasmettere un senso di totale controllo della situazione. Il 22 febbraio a sud della Lombardia compaiono però i primi focolai (tra cui quello di Codogno), la percezione di pericolo sale e il Governo decide di adottare una determinata misura per il monitoraggio dei casi. Si sottoporrà al test chi presenta un’infezione respiratoria acuta (tosse) per la quale è stato richiesto il ricovero presso struttura ospedaliera oppure chi presenta un “link epidemiologico”, cioè un potenziale contagio avvenuto nei 14 giorni precedenti dovuto a contatti con possibili infetti (anche dovuti alla frequentazione di strutture ospedaliere) o viaggi in Cina.

Il link epidemiologico

È questo il criterio governativo, ma solamente due giorni dopo la Lombardia cambia le carte in tavola. In una riunione con i direttori delle varie strutture ospedaliere, si decide di sottoporre al test chi presenta un’infezione respiratoria anche leggera (infoltendo quindi il numero dei test da effettuare). Non considerando, però, il link epidemiologico. Questo dato da un lato aumenta i test da effettuare ma taglia fuori tutti coloro che, in presenza del link epidemiologico, avrebbero potuto benissimo essere a rischio e rappresentare un rischio per gli altri.

C’è una precisazione da fare relativamente alla quantità di test e tamponi effettuati. In Regione Lombardia la sanità dispone solamente di tre laboratori pubblici, gli stessi sui quali si sono riversati tutti i tamponi e i test che la Regione aveva previsto di eseguire, congestionando gravemente le strutture. Il Veneto, a parità di posti letto ospedalieri per mille abitanti e numero di adulti per medico di base, conta nel suo territorio ben dieci laboratori pubblici. I soli tre laboratori in Lombardia non costituiscono quindi  un dato allarmante? O magari legato al fatto che dal 2010 al 2019 i politici in carica hanno promesso e mai realizzato 37 miliardi di euro da destinare al finanziamento della sanità pubblica?

Un’autonomia regionale potenzialmente pericolosa

Come riporta Linkiesta, dopo il 22 febbraio inizia un botta e risposta tra Ministero della Salute e Regione Lombardia, la quale continuerà a discostarsi dai protocolli statali creando sempre più confusione tra i medici e il personale sanitario in una situazione già molto tesa. Un grave problema nella gestione della pandemia in questa regione è stata proprio la contraddittorietà delle direttive. Uno dei tanti comportamenti incongruenti della regione risale al 26 febbraio. In tale data il Ministero della Sanità emana un comunicato secondo il quale, a fronte del fatto che nelle zone rosse dopo un vasto numero di tamponi effettuati il 95% di essi risultava negativo, non era quindi scientificamente giustificabile continuare a eseguirne così tanti. Ma la Regione Lombardia, di nuovo, si discosta da tutto ciò, continuando a testare chi riportava tosse ma ignorando il link epidemiologico.

Assenza di linearità nelle direttive, assenza di comunicazione con le strutture ospedaliere e infine assenza di protocolli da seguire: una confusione totale che ha destinato il personale sanitario lombardo a navigare a vista tra le morti e i contagi. Abbiamo avuto la possibilità di parlare con alcuni medici che hanno prestato servizio durante la pandemia in Lombardia, i quali ci hanno raccontato come in regione la sanità sia collassata durante il Covid-19.

La testimonianza di Giuseppe, specializzando di Pavia

Una di queste testimonianza è quella di Giuseppe (nome di fantasia), giovane laureato in medicina e tuttora specializzando in rianimazione al secondo anno presso l’ospedale di Pavia. La rianimazione non è un reparto facile, e affrontarlo durante la pandemia è stata un’esperienza che non dimenticherà facilmente.

«A Pavia a febbraio è arrivato il paziente uno. In concomitanza con il suo arrivo, la disponibilità di posti letto in rianimazione si è velocemente saturata. Abbiamo quindi creato un’altro reparto, chiamato di terapia sub-intensiva per supportare il reparto di malattie infettive. Perché rianimazione non è solamente il posto letto che puoi fornire, ma è tutta la complessa strumentazione annessa: lo spazio per il posto letto lo si trova, la strumentazione no. In Regione Lombardia la sanità è considerata un’eccellenza, ma è un’eccellenza delle strutture private che ha depauperato il pubblico».

L’importanza degli specializzandi

»I malati hanno poi iniziato ad aggravarsi velocemente, e penso che noi specializzandi, in questa situazione, abbiamo dato un apporto davvero significativo». Eppure, come spiega Giuseppe, la figura dello specializzando non può contare su tutele significative a livello contrattuale. «Non siamo né medici né studenti, siamo considerati un ibrido degno di poche tutele. Un esempio? Il governo stava prevedendo, per tutto il personale sanitario che ha lavorato durante il periodo Covid-19, un’indennità di rischio tagliando però fuori gli specializzandi. Per questo a giugno, assieme agli infermieri, abbiamo protestato» aggiunge, riferendosi alla manifestazione del personale sanitario lombardo presso la sede della regione.

Giuseppe continua a parlare della sua esperienza durante la pandemia. «I contagiati arrivavano a frotte, sembrava un esercito di malati. Tutti uguali, con gli stessi sintomi, ma senza nessun protocollo che potessimo seguire per curarli. Pochissimi davano segni di miglioramento, e questo ci ha provocato grande frustrazione. Abbiamo inoltre dovuto fare delle scelte su chi ricoverare, dando precedenza a chi aveva più speranze. Dopo poche settimane dall’inizio di tutto la situazione è precipitata velocemente. I dispositivi di protezione hanno iniziato a scarseggiare, per cui abbiamo dovuto scegliere a chi destinarli tra noi, considerando che in una situazione di queste se i dispositivi sono pochi chi sta in reparto ci deve rimanere il più possibile, senza poter bere, mangiare o andare in bagno».

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Alcuni infermieri con i dispositivi di protezione.

La testimonianza del dottor Guerroni, medico di famiglia dal 1978

Se la testimonianza di Giuseppe è toccante, lo è altrettanto quella del dottor Alessandro Guerroni, medico di medicina generale dal 1978. Il dott. Guerroni è quello che viene considerato, in linguaggio colloquiale, un medico di base, la cui carriera alle spalle parla da sé. Laureato in medicina e chirurgia nel 1978, è inoltre specializzato in oncologia ed è iscritto all’albo regionale dei ricercatori. Si occupa inoltre di patologie mammarie e terapia del dolore.

I medici di medicina generale sono coloro che sono si sono ritrovati davvero nell’occhio del ciclone, perché hanno dovuto confrontarsi con un impressionante incremento di persone potenzialmente malate di Covid-19 che si recavano nei loro studi, senza avere mezzi o direttive per poterle assistere. Per loro la confusione e il senso di solitudine causati dalla pessima gestione della Regione sono stati più che mai deleteri. «Ricevevamo mail contraddittorie ogni giorno dai vari enti preposti a sovraintenderci. La conflittualità non è stata solamente tra Stato e Regione, ma anche tra Regione e ATS [Agenzia di Tutela della Salute, ex ASL, N.d.R]. Nel frattempo notavo che tutte le attività commerciali dei cinesi chiudevano i battenti. Vedendo cosa stava succedendo in Cina, in quel momento ho avuto il sentore che il pericolo fosse più che mai presente».

Il dott. Guerroni si trova concorde con le parole di Giuseppe riguardo ai tagli di fondi in favore delle strutture private. «La medicina sul territorio è stata privata di risorse in favore di strutture non pubbliche, e qual è stato il risultato? Il fatto, ad esempio, che all’inizio dell’epidemia io e i miei colleghi lombardi abbiamo lavorato per un mese senza avere direttive comuni e omogenee, mettendo in piedi procedure con mezzi anche a distanza per tenerci in contatto con i pazienti e capirne le condizioni. Ci veniva detto di incoraggiare i malati a stare nelle proprie case per evitare lo spargimento del contagio, ma come è possibile evitarlo quando mediamente ogni italiano vive con due o più persone nella stessa abitazione?

Durante la pandemia in Regione Lombardia la sanità è stata gestita in modo pessimo. Il mio studio, come quello di molti altri colleghi, è sempre rimasto aperto al pubblico durante l’emergenza e per il primo mese ho lavorato avendo a disposizione due mascherine acquistate in autonomia. Ad oggi per me, che ho prestato servizio in piena pandemia, nessuno ha richiesto alcun tampone per appurare le mie condizioni di salute. Noi medici non potevamo nemmeno richiederli per i pazienti o per i loro conviventi: era appannaggio dell’ATS decidere a chi “concedere” il tampone e a chi no».

Come a Chernobyl

Alla domanda che chiedeva cosa, a parere di Guerroni, avrebbe potuto dare un apporto significativo in questa critica situazione, la risposta è puntuale e precisa. «Sarebbe stata molto utile una formazione su come utilizzare i dispositivi di protezione, perché anche su quello ci hanno abbandonati. Indossare la tuta che avete visto in televisione non è assolutamente semplice: è necessario essere in due per avere supporto nel metterla e nel toglierla».

Qual è stata la più grave mancanza per i medici durante il Covid-19? «È mancata la regia, la cabina di comando, e tutto ciò ha avuto ripercussioni gravissime. Gran parte delle morti sono avvenute perché i malati arrivavano in ospedale troppo tardi. E con le corrette direttive e protocolli, e ovviamente la disponibilità nelle strutture ospedaliere. questo si sarebbe potuto evitare. Sa come mi sono sentito? Mi sono sentito come quei pompieri che, dopo l’esplosione di Chernobyl, sono stati mandati a raccogliere con le loro mani le macerie e i resti della centrale nucleare. Stavamo avendo a che fare con qualcosa di pericolosissimo senza conoscerlo adeguatamente, e che ha fatto morire molti colleghi, e ciò deve pesare sulla coscienza dei politici che, a inizio pandemia , ostentava un impavido ottimismo» dice Guerroni riferendosi ai 171 medici deceduti a causa del virus: in questa lista i medici di medicina generale sono parecchi.

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Coloro che dovevano salvare vite, nella pandemia da Covid-19, sono stati totalmente abbandonati. La Regione, le ATS e i vari organismi di sovraintendenza non hanno saputo fornire il corretto supporto a chi stava rischiando la vita per salvare quella degli altri. Ad oggi la “retorica dell’eroe” è una propaganda trita e ritrita ma sopratutto comoda. L’essere umano ha la tendenza, durante vicende sconvolgenti e conflittuali, a dover individuare subito i “buoni” e i “cattivi” per attribuire colpe e meriti. Ma la questione, post-coronavirus, è ben diversa. Se il virus tornerà (perché sappiamo che è probabile che accada) chi ci salverà la vita avrà i giusti strumenti per farlo? Stiamo, in sostanza, facendo qualcosa per essere più preparati dell’ultima volta?

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