Le vittime del giornalismo e il dilemma delle fonti

L’estate del 2011 si aprì con un gossip davvero succulento per i cittadini di Verona: Leonardo DiCaprio, innamoratosi della bella città veneta, aveva deciso di acquistare un attico di 400 metri quadrati proprio di fronte all’Arena. Il primo cittadino veronese Flavio Tosi, in un moto di orgoglio, si lanciò in un commento molto sentito: «È una notizia che fa piacere per varie ragioni perché testimonia l’importanza che la nostra città ha a livello internazionale, visto che una persona con grosse disponibilità e con la possibilità di vivere in qualunque parte del mondo sceglie proprio il cuore di Verona». Il divo hollywoodiano non sembrava volersi sbottonare al pubblico, e non aveva rilasciato alcuna dichiarazione ufficiale relativa all’acquisto del suo nuovo attico. Questo non fermò la stampa locale e nazionale, che in breve tempo rilanciarono la notizia con decine di articoli (molti dei quali ancora consultabili online). A nessuno sembravano interessare le fonti da cui proveniva il gossip, quasi fosse un vezzo che il giornalismo d’assalto non può permettersi. Eppure la notizia veniva da un ambiente peculiare che valeva la pena citare: la Alessandro Proto Consulting.

Essere l’impostore

Per chi non lo sapesse, Alessandro Proto è probabilmente il più grande, e sicuramente il più ingegnoso, truffatore che l’economia italiana abbia mai conosciuto. Ormai l’avrete capito: DiCaprio non ha mai acquistato nessun attico a Verona e quei 400 metri quadri in centro città neanche esistono. Eppure era una storia così affascinante che doveva essere per forza vera: DiCaprio, stella del cinema all’apice della sua carriera, proprio colui che aveva impersonato Romeo in Romeo + Juliet, rifacimento della tragedia shakespeariana, aveva deciso di comprare casa a Verona. Tutta la carriera di Proto si è basata su questo presupposto: certe storie, quando vengono raccontate bene, sono così belle che diventano automaticamente vere. Come viene raccontato nel libro autobiografia/inchiesta Io Sono l’Impostore (Il Saggiatore, 2017), la sua giornata tipo si svolgeva più o meno così: contattava una qualsiasi redazione giornalistica, proponeva un gossip scoppiettante riguardante qualche nome famoso, chiedeva esplicitamente di non essere citato come fonte ma di essere accostato al nome della celebrità di turno, e poi si sedeva nel suo ufficio aspettando l’uscita degli articoli. Nessun giornalista si prendeva la briga di controllare la veridicità della notizia, tantomeno di contattare i diretti interessati per una conferma o smentita. Nel frattempo, la popolarità del nome Proto cresceva a dismisura, e con esso anche i suoi introiti.

La pratica del debunking è un fenomeno relativamente recente, esploso nel momento in cui ci si è accorti che internet non è un luogo facile dove fare e ricevere informazione. Ma alla fine anche la tanto citata post-verità, divenuta perfino parola dell’anno per l’Oxford Dictionary nel 2015, non è un concetto molto nuovo. Nel suo saggio più famoso sulla storia dell’umanità, Sapiens, Yuvah Harari racconta di come la capacità di raccontare storie in grado di fare da collante sociale sia stato l’elemento distintivo di Homo Sapiens. Non possiamo essere sicuri che l’invenzione del Dio Fulmine ci abbia davvero dato una marcia in più rispetto ai Neanderthal, ma l’efficacia delle buone narrazioni è sotto gli occhi di tutti. Smentire una bufala (o, in linguaggio più moderno, debunkare una fake news) è difficile perché i fatti, spesso, sono molto meno avvincenti della narrazione. In quel limbo tra il detto e il non detto in cui si collocano le numerose interviste a personaggi più o meno famosi, sembra essere fin troppo facile farsi scappare un dettaglio di troppo, una cifra sparata a caso, o una laurea mai conseguita, come nel recente caso di Imen Jane. La differenza tra una storia banale e una storia interessante si cela nei dettagli, dunque diventa quasi tassativo sfruttare le falle del sistema per accrescere la propria popolarità.

Il caso Mia Khalifa

Un caso piuttosto spinoso, che non è stato praticamente affrontato in Italia, ha visto come protagonista l’ex celebrità del porno Mia Khalifa. L’attrice di origine libanesi, difatti, ha cercato negli ultimi anni di scrollarsi di dosso il peso della fama da pornoattrice, lanciandosi in numerose attività, compresa quella di streamer su Twitch. Attraverso svariate interviste, video e post pubblicati sui social network, ha enfatizzato più volte come la sua breve carriera nel mondo del porno l’abbia segnata a vita, nonostante ci abbia lavorato per soli tre mesi per un compenso totale di circa 12000$. Più recentemente ha alzato il tiro, accusando i suoi produttori di averla manipolata per firmare il contratto di lavoro e addirittura di essere stata costretta a filmare una certa scena che l’ha resa particolarmente famosa. Come se tutto questo non bastasse, per difendersi dalle possibili accuse, ha accusato la stessa BangBros, casa produttrice per cui avrebbe lavorato in quei tre mesi di contratto, di aver sfruttato il clamore delle sue dichiarazioni per pubblicizzare i contenuti relativi alla sua persona.

L’ex pornostar Mia Khalifa, ora streamer e influencer. Foto: Wikimedia.

Tutte dichiarazioni che sono state assorbite e rilanciate da giornali internazionali. Eppure durante questo lasso di tempo, nessuno ha pensato di provare a sentire l’altra campana. Anche in questo caso una semplice ricerca su Google poteva aiutare. Se guardiamo il grafico di Google Trends pubblicato da BangBros, risulta chiaro come ad ogni dichiarazione controversa di Mia Khalifa segua un incremento di ricerche per i contenuti pornografici dell’ex attrice. Come sostengono gli stessi autori del grafico «quando parla dei suoi contenuti pornografici, le persone vanno a cercare i suoi contenuti pornografici». Come se non bastasse, la stessa BangBros ha pubblicato una lunga serie di smentite su un portale dal nome particolarmente calzante: FactsBeatFiction (i fatti battono la finzione). All’interno della lista troviamo confutate punto per punto le dichiarazioni dell’ex attrice, come la durata del suo contratto o i ricavi ottenuti dal suo lavoro per i produttori, spesso presentando dati difficilmente contestabili.

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Sia chiaro, nessuno mette in dubbio che la vita da ex attrice pornografica sia difficile, e che scrollarsi di dosso il peso di una carriera nel mondo del porno non comporti notevoli difficoltà personali. Ma la questione è più generale e va ben al di là della faccenda personale di Mia Khalifa e può essere riassunta in una semplice domanda: perché alla stampa non importa controllare la fondatezza di una dichiarazione? La risposta a una domanda di questo tipo è banale e allo stesso tempo estremamente complessa. È chiaro che una storia più è clamorosa più circola bene, e una storia ben raccontata non è per forza completamente veritiera. Qui Alessandro Baricco ci aveva indubbiamente visto giusto quando parlava dell’aerodinamicità della verità nell’epoca digitale: un fatto “vero” fatica a circolare perché non ha sufficiente aerodinamicità, mentre un fatto non completamente vero, se raccontato bene, circola molto più rapidamente tra social network e stampa specializzata.

Doveri e responsabilità del giornalismo

L’altro lato del problema sta proprio nel funzionamento della giornalismo e nel suo complicato rapporto con le fonti. È davvero così naïve pensare che il giornalisti dovrebbero avere l’obbligo (morale?) di controllare la veridicità delle fonti, o perlomeno contattare i diretti interessati? Qui il discorso si fa complicato perché ci si muove su un territorio estremamente sdrucciolevole. Se Mia Khalifa accusa di soprusi i suoi produttori, andare a contattare questi ultimi equivale a non crederle sulla parola, che nel linguaggio internettiano odierno equivale al victim blaming (la colpevolizzazione della la vittima), termine divenuto di uso comune anche in Italia dopo l’esplosione del caso #Metoo. Ma se le dichiarazioni dell’ex attrice si rivelassero del tutto infondate, come il comunicato di BangBros sembra suggerire, chi è la vera vittima? Probabilmente un po’ tutti: si tratta di un danno per tutti, per le aziende che si rovinano l’immagine e per donne che devono effettivamente denunciare degli abusi. Più in generale ci perdono tutti quelli che i giornali li leggono per informarsi e, quasi paradossalmente, alla fine ci perdono anche i giornali stessi.

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È possibile immaginare un’informazione il più possibile neutrale senza incappare in questo cortocircuito etico? Il giornalismo non dovrebbe assumersi delle responsabilità nelle diatribe che esso stesso alimenta? Forse dovremmo arrenderci all’idea che ogni fatto in realtà è una narrazione, che poi altro non è che un nuovo modo di dire che non esistono fatti ma solo interpretazioni. Eppure, se da una parte i nuovi strumenti digitali sembrano favorire la circolazione di notizie più aerodinamiche di altre, ci dovrebbero anche fornire i mezzi necessari per gestire il flusso di informazione e imparare a discernere le narrazioni troppo inquinate. Se non viene fatto, non è solo per una mancanza di volontà o un’assoluta malafede, ma per problemi più strutturali. La crisi del settore giornalistico ormai non è nemmeno più una novità, ed è chiaro che per sopravvivere economicamente ci sia bisogno di titoloni sempre più grandi, scandali sempre più eclatanti e, in definitiva, qualcuno da accusare, a ragione o a torto. Senza un cambiamento strutturale a un settore in procinto di morire, sognare un’informazione neutra, in grado di scollarsi il peso delle prime pagine urlate, non può che rimanere quello: un sogno.

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