Vivere all’estero durante la pandemia globale: come se la sta cavando il resto del mondo?

L’Italia è stata una delle prime nazioni a essere colpita dalla pandemia globale. Dopo la Cina, quando nel resto del mondo hanno iniziato a circolare le immagini delle nostre zone rosse e delle città deserte a causa della quarantena, gli altri Paesi stavano a guardare, un po’ scettici e un po’ sconvolti. A oggi, molti mesi dopo lo scoppio del virus, alcuni tra questi Stati stanno attraversando difficoltà simili a quelle che hanno messo il nostro Paese in ginocchio.

Cosa sta accadendo, quindi, nel resto del mondo? In che modo la pandemia globale ha intaccato il tessuto economico e sociale di Paesi diversi dal nostro? Noi di theWise Magazine ci siamo fatti raccontare che cosa sta accadendo in quattro nazioni profondamente diverse tra loro, il tutto con gli occhi di quattro italiani espatriati all’estero che hanno analizzato punti di forza e di debolezza del Paese dove vivono attualmente.

Lo sterminio USA, dove avviene un decesso al minuto

Dopo la nota copertina del New York Times la cui prima pagina commemorava i decessi avvenuti fino a maggio, oggi negli USA si stimano circa 154.000 morti, con 1400 decessi registrati nella giornata di mercoledì 29 luglio, una frequenza media di quasi uno ogni minuto. Di fronte a un’emergenza del genere è evidente che almeno una parte del problema è il sistema sanitario privato, il quale include o esclude l’accesso alle cure mediche in base alle capacità economiche dei singoli. Ma oltre a questa grave falla nel sistema americano ce ne sono molte altre. Joao, ragazzo italiano che da quattro anni vive e studia a San Francisco, ci racconta la situazione negli USA. Joao attualmente lavora in un drug store, negozio che rivende alcolici, dove il contatto col pubblico è costante. Il suo lavoro gli permette anche di osservare l’atteggiamento e la postura di molte persone di estrazione sociale diversa di fronte a questa pandemia.

«Ciò che ho notato anche qui in California è la differenza di approccio che le persone hanno verso la pandemia globale. Inizialmente, quando il virus ha iniziato a diffondersi, notavo persone totalmente in preda al terrore e all’ansia da contagio. Poi c’era chi, invece, sottovalutava pericolosamente la portata di questa malattia, per esempio non indossando mascherine quando veniva chiesto. Ho notato questo sopratutto in persone non statunitensi che provengono da Paesi difficili. Molti di loro non conoscono la lingua, hanno poche possibilità di informarsi e di conseguenza mancano di sensibilizzazione verso tutto ciò che è il distanziamento sociale. Mi sono trovato spesso a disagio di fronte alla noncuranza di alcuni, perché sono conscio del fatto che possa rappresentare un pericolo per me», racconta.

Lavorare nel retail durante la pandemia globale

Joao, come moltissime altre persone, lavora nel retail. Di conseguenza è a stretto contatto con il pubblico, cosa che lo espone maggiormente al virus. Come riporta il Washington Post, negli ultimi mesi le associazioni nazionali di categoria dei lavoratori nel retail hanno lanciato l’allarme. Oltre al contatto con le persone che è di per sé fattore di rischio, i lavoratori nei retail hanno a che fare con molti clienti che non vogliono saperne di indossare i dispositivi di protezione, e il cui atteggiamento è spesso violento. Queste associazioni hanno anche ribadito che è dovere del datore di lavoro garantire spazi lavorativi sicuri, cosa che molto spesso non accade.

«Il problema», continua Joao, «è che il cittadino americano appartenente alla classe media spesso non può permettersi di essere prudente e di salvaguardare la sua salute. Mi spiego meglio: se io che lavoro in un negozio non mi sento sicuro nel continuare a lavorare, non posso smettere di farlo perché mi serve denaro. E mi serve non solo per provvedere alle spese quotidiane, ma anche per pagare la mia assicurazione sanitaria che in un momento come questo di certo non posso farmi mancare. Se non lavoro non pago l’assicurazione, quindi continuo a lavorare. Però poi magari contraggo il virus, e comunque l’assicurazione che mi posso permettere non mi fornisce le cure adeguate. È un circolo vizioso che mette in pericolo non solo me come lavoratore, ma anche la salute di chi vive con me, sicuramente più a rischio se un membro del nucleo familiare si espone in tal modo. Questo rischio si riversa anche sugli eventuali clienti, perché se devo venire a lavoro sospettando di essere malato potrei contagiarli».

La situazione negli USA si fa ogni giorno più grave. E le perdite in termini di vite umane si moltiplicano. Dopo un’esperienza come la pandemia globale, la speranza è che gli USA possano rivoluzionare radicalmente il loro sistema sanitario aprendo le cure a tutti, indipendentemente dal tipo di assicurazione che ognuno si può permettere.

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L’esempio virtuoso del Vietnam

A raccontarci che cosa accade in Vietnam è Stella, ragazza di origine veronese che da un paio d’anni insegna inglese in questo Paese. Il Vietnam è il quindicesimo Stato più popoloso al mondo, con 97 milioni di abitanti. Questo potrebbe far pensare che affrontare un problema come la pandemia globale avrebbe causato grandi difficoltà, ma invece questa nazione ci stupisce. Il Vietnam infatti è stato considerato da testate internazionali tra cui il Financial Times come modello di risposta efficace alla pandemia globale.

«Dobbiamo ricordare che è un Paese che ha già affrontato la SARS e l’aviaria», aggiunge Stella. A metà dicembre, infatti, quando la Cina dichiarava il primo morto a causa di Covid-19, il Vietnam rafforzava i controlli negli aeroporti iniziando a misurare la temperatura corporea. Chi presentava potenziali sintomi veniva monitorato e sottoposto a test. Il Vietnam inoltre ha adottato misure di prevenzione e contenimento – le stesse che ha messo in atto l’Italia, ma molto dopo e con un numero di contagi maggiore – come la chiusura delle scuole e il razionamento delle mascherine già a febbraio. Il governo ha imposto tali restrizioni in modo graduale e flessibile, non dall’oggi al domani. Il Vietnam, in sostanza, è arrivato alla pandemia globale più preparato e ha agito con maggiore prontezza. Inoltre questo Paese ha prontamente creato centri di isolamento per chi doveva affrontare la quarantena e il soggiorno in tali strutture era completamente gratuito. Tutto ciò nonostante questo Stato abbia un sistema sanitario semipubblico, nel quale le cure sono assicurate ma dove comunque si paga un’assicurazione sanitaria.

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Il paziente 17

«Nel mio Paese c’è stato anche il caso del paziente 17, cioè una donna che viaggiando è stata in Inghilterra e in Italia e si pensa possa aver portato il virus in Vietnam. La popolazione vietnamita sa che il virus è stato portato qui attraverso turisti o persone che hanno viaggiato in zone particolarmente infette, e nonostante l’atteggiamento di generale apertura ha iniziato a essere più diffidente nei confronti dei turisti. Allo stesso modo, vivere qui è diventato più difficile per chi, come me, non è originario di questo Paese. Lo Stato ha aumentato il costo del visto, che prima pagavo settanta dollari ogni tre mesi. Ora sono invece diventati trecento», racconta.

Recentemente la situazione è peggiorata. Il 27 luglio le autorità hanno evacuato 80.000 turisti da Danang a causa di un focolaio sviluppatosi nella città. Dopo cento giorni senza che il Vietnam rilevasse alcun caso positivo, il virus è tornato.

L’Olanda, un Paese che può permettersi di sostenere i cittadini olandesi e non solo

L’esempio dell’Olanda, Paese non poi così lontano dal nostro, è interessante soprattutto per quanto riguarda il sostegno economico dello Stato alla popolazione. Diletta, italiana ma residente in Olanda da quattro anni, ci racconta la sua esperienza. Prima dello scoppio della pandemia globale e del conseguente lockdown lavorava come chef presso un rinomato ristorante ad Amsterdam. Nonostante inizialmente il premier Rutte avesse deciso di chiudere solamente le attività che implicavano uno stretto contatto fisico – tra cui il sesso a pagamento – successivamente la situazione è peggiorata. Anche Diletta quindi si è ritrovata senza lavoro e senza reddito.

«Il mio caso è un po’ particolare, e non posso negare che la fortuna è stata dalla mia parte. Prima del lockdown avevo un contratto a zero ore, tipologia molto diffusa qui. Quando il datore ha bisogno ti chiede di lavorare, ma non ha nessun obbligo nel garantirti un numero minimo di ore lavorate settimanalmente. Quando ho smesso di lavorare per i primi mesi ho percepito una sorta di cassa integrazione (che però veniva pagata nelle stesse tempistiche dello stipendio) calcolata sulla media del reddito degli ultimi tre mesi: consisteva nel 90% dello stipendio. Questa cassa integrazione però non va di diritto a tutti, ma bisogna aver lavorato almeno sei mesi negli ultimi nove».

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Il Tozo, l’aiuto che ha salvato molti durante la pandemia globale

«Il lockdown però è proseguito, e non avevo più diritto a questo sussidio. Qui è subentrata la mia fortuna. Ancora prima della pandemia globale avevo fatto richiesta per aprire quella che in Italia è considerata la partita IVA, cioè sarei diventata libera professionista freelance. Questo ha fatto sì che potessi usufruire di un aiuto statale consistente chiamato Tozo. Il Tozo è un sostegno ai piccoli imprenditori. Se si soddisfano determinati requisiti la quantità di denaro di cui si può risultare beneficiari è un enorme aiuto. Considerando che ad Amsterdam il costo degli affitti è sempre alle stelle, se non avessi potuto beneficiare del Tozo avrei perso il mio appartamento e sarei dovuta tornare in Italia», chiarisce Diletta.

Senza giri di parole il Tozo, che ovviamente si differenzia per reddito e tipo di impiego, può arrivare ad ammontare anche a tre o quattromila euro. Indubbiamente la vita in Olanda è molto più costosa, ma un sostegno come il Tozo è forse paragonabile ai seicento euro che i lavoratori partita IVA italiani hanno ricevuto durante la pandemia globale?

L’Australia, un paese aperto ma severo verso l’immigrazione

Il giro del mondo durante la pandemia globale termina in Australia, ed è Carla a raccontarci cosa sta succedendo. Carla è una ragazza sarda che lavora in Australia all’interno di un negozio di abbigliamento sportivo con punti vendita in tutto il mondo. Attualmente vive in Australia proprio perché il suo posto di lavoro le ha dato la possibilità di fare un’esperienza all’estero.

«Ho la fortuna di vivere in un Paese meraviglioso, ma molto selettivo. E la pandemia globale ne è stata la prova», esordisce Carla. «Mi sono resa conto che gli australiani hanno beneficiato di molti aiuti. Al contrario i non australiani – e ce ne sono moltissimi – sono stati abbandonati a sé stessi, nonostante siano una grande forza lavoro. Un esempio? L’Australia ha pagato il job keeper, un sussidio economico destinato sia alla perdita di lavoro sia ad altre situazioni, anche agli australiani che non avevano perso il lavoro durante la pandemia globale. Gli stranieri invece pagano di tasca propria il visto, ma non possono essere beneficiari di job keeper. Il loro unico diritto, in questo caso, è chiedere la liquidazione della loro annuation, cioè una sorta di mini-pensione che accumulano durante il periodo di lavoro qui e che verrebbe liquidata al cessare della loro permanenza in Australia».

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Come la pandemia globale ha fatto prendere una decisione drastica riguardo ai visti

«C’è un altro problema che ho riscontrato qui durante la pandemia globale: il malfunzionamento della burocrazia. Mi recavo in uffici pubblici per chiedere informazioni, per esempio in merito al mio visto, ma nessuno sapeva rispondermi. Anche quello dei visti per gli stranieri è stato un problema. È vero che lo stato ha deciso di prolungarne la durata, ma se nel frattempo perdi il lavoro a causa della pandemia non hai più risorse e diritto di rimanere in Australia, quindi devi tornartene a casa».

Il visto australiano per motivi di turismo non viene più concesso durante la pandemia globale. La stessa cosa però vale per molti visti per motivi di lavoro. Come è successo a Carla, l’Australia non le ha concesso un ulteriore visto per continuare a lavorare e quindi a breve dovrà tornare in Italia. La ratio di questa decisione, che tocca moltissimi expat residenti in Australia, è togliere la possibilità di rimanere e quindi lavorare a chi non è cittadino australiano per liberare posti di lavoro per i cittadini di questo Paese. Un decisione che suscita polemica, e che non si sa se in ottica futura potrà davvero aiutare la nazione.

Scoprire come il resto del mondo sta gestendo la pandemia globale è occasione di confronto e riflessione. Indubbiamente l’Olanda spicca tra i Paesi che hanno fornito sussidio ai cittadini olandesi e non, mentre il Vietnam è un ottimo esempio di come uno Stato possa arrivare preparato a una pandemia globale. Si potrebbe dire che l’Italia abbia gestito discretamente questa emergenza, ma anche che ha molto da imparare.

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