In principio era l’uso. Sulla coincidenza di ciò che è utile e ciò che è giusto

I movimenti di protesta sorti in seguito alla morte di George Floyd hanno riacceso il dibattito filosofico-politico sulle “narrative dominanti” e sul ruolo svolto dal linguaggio nel supportare, mantenere o contrastare la configurazione di realtà messa in campo dalle suddette. Le “narrative”, per come vengono qui intese, svolgono nel senso comune il ruolo di storie, di miti moderni se si vuole, grazie alle quali i membri della specie gestiscono l’incertezza e praticano la vita quotidiana. Tuttavia, una simile efficacia pone un limite alla precisione con cui si tenta di descrivere la complessità del mondo, il quale risulta spezzato in maniera dicotomica in ciò che è normale e in ciò che non lo è. In questo contesto, la riflessione sul linguaggio svolge un compito critico nei confronti del modo in cui si costruisce ciò che poi viene narrato. Non sempre, però, questa critica coglie la fragilità entro cui essa stessa viene prodotta. La considerazione di un discorso che promuove o danneggia gli altri a seconda che lo si scriva o lo si pensi selezionando attivamente le parole, le desinenze e le espressioni usate è fuorviante e riduttiva. Questa riduzione del discorso ai suoi elementi ortografici e lessicali non tiene in conto la valenza pratica e ordinaria del linguaggio, il quale – nell’uso, nel procedere – può fare di qualsiasi parola un’arma o un balsamo. 

Le “narrative dominanti” e il linguaggio per Ludwig Wittgenstein

«Il linguaggio è una forma di vita» scrive il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein nelle sue Ricerche filosofiche, la sua ultima opera, edita postuma. Con questa frase, Wittgenstein intende spostare l’attenzione del lettore verso quella che è una nuova concezione di espressioni come “pensare”, “parlare”, “credere” e “discorrere”. In questo modo egli riprende e critica quella che era stata la sua impostazione originaria in merito al linguaggio, che si trova articolata nel Tractatus logico philosophicus, sua opera prima. 

Se il Tractatus sostiene una condizione di perfetta corrispondenza tra linguaggio e fatti, per cui a ogni fatto corrisponde una proposizione “vera” nel linguaggio, non si può dire lo stesso nel caso delle Ricerche. A fronte della ricorrenza, nella vita quotidiana, di innumerevoli occasioni per cui la corrispondenza di cui sopra salta, Wittgenstein si vede costretto ad avanzare una proposta rivoluzionaria: il linguaggio non è una mera immagine del mondo, ma un complesso sistema di convinzioni, credenze e usanze che va a intessere quella che ingenuamente viene osservata come un dato di fatto, la realtà. 

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A questo proposito, il filosofo si vede costretto a riconsiderare un’altra delle conclusioni cui giungeva il Tractatus, ovvero quella per cui l’unico uso sensato del linguaggio, in quanto descrittivo dei fatti, era il discorso articolato dalle scienze naturali. Non esiste un uso sensato del linguaggio e uno insensato, quindi, ma una varietà infinita di usi rispondenti a regole implicite che Wittgenstein denomina “giochi linguistici”. La pratica di questi giochi è alla base della vita quotidiana e la scienza osserva a questa pratica il primato sul mondo allo stesso modo in cui un bambino impara a sedersi senza il bisogno di conoscere scientificamente che cosa sia una sedia. Da questo momento in poi, occuparsi dello studio e della distinzione dei diversi giochi linguistici diventa condizione imprescindibile se si vuole raggiungere un cambiamento radicale del mondo.  

Non più, quindi, una sterile constatazione e classificazione dei dati di fatto, ma un apprendimento di quelle che sono le regole che, se rispettate, finiscono per configurare quelli che poi vengono ritenuti “dati di fatto”. A ciò si aggiunge la possibilità di descrivere queste regole e allo stesso tempo si accompagna la possibilità di osservare quali usi del linguaggio aprano la via a determinate ricadute pratiche. Proprio come accade per la varietà di attività che richiedono l’utilizzo di una palla, sono le regole del gioco a definire il significato dello strumento che viene impiegato, non lo strumento in sé.

Traslato a livello linguistico ciò si traduce nell’iniziare a considerare, quando si opera con il discorso, il “come si dice” e il “come si scrive” in favore di “cosa viene detto” o di “cosa viene scritto”, perché ciò che viene detto o scritto assume un significato diverso rispetto al contesto in cui viene espresso. Il “come” governa e direziona l’impiego del linguaggio, ovvero il “cosa”. Non si può fare affidamento sul lessico utilizzato, perché il lessico è uno strumento e non accade che da una modifica strutturale dello strumento derivi una modifica delle regole del gioco. Nella metafora, non è sostituendo a una palla sferica una bottiglia di plastica accartocciata che il gioco del calcio viene impedito.

Ritratto del filosofo Ludwig Wittgenstein. Foto: Wikimedia Commons.

Comunità LGBT+, Black Lives Matter e una riflessione sul linguaggio

La riflessione sul linguaggio proposta da Wittgenstein sembra venire sistematicamente tralasciata proprio da quegli ambienti che potrebbero evidenziarne le potenzialità. Nell’ambito delle questioni che si focalizzano su tematiche di genere e nell’alveo della produzione filosofica di stampo femminista, ad esempio, figurano spesso questioni che trattano il linguaggio in termini lessicali e di contenuto, distinguendo fra discorsi che favoriscono la diffusione della vision proposta e altri che la ostacolano. Anche la comunità LGBTQIA+ e organizzazioni come il Black Lives Matter, nell’articolare le proprie argomentazioni, sembrano interessarsi più a una particolarizzazione degli spazi discorsivi (svolgere una classificazione in merito agli orientamenti di genere, ad esempio) che a una messa a punto pratica e descrittiva di un obiettivo. In questi ambiti, ad esempio, il focus si sposta su di una critica a quelle che sono le desinenze del maschile e del neutro – coincidenti nella lingua italiana – e su questioni grammaticali e lessicali.

Si sostiene che con un cambiamento di linguaggio possano cambiare le prassi e di conseguenza il mondo, ma quelli che si propongono sono cambiamenti interni alla lingua, non variazioni nell’uso del linguaggio. Si pensi alla filastrocca di Fosco Maraini Il Lonfo, dove la varietà lessicale non mina in alcun modo il procedere del senso dell’opera, il quale ci permette di immaginare il Lonfo nella maniera più disparata pur non sapendo di che cosa si tratti. 

Riportando Wittgenstein, dal libro Della certezza:

22.4. C’è sempre il pericolo di voler riconoscere il significato considerando l’espressione e lo stato d’animo in cui la si usa, invece di pensare sempre alla prassi. Per questo, ci si ripete spesso l’espressione, perché è come se in essa, e nel sentimento che si prova, non si potesse fare a meno di vedere quello che si cerca.

Quanto indicato dalla citazione mostra quella che è una tendenza comune dell’agire quotidiano, dove le parole assumono una valenza spropositata nel determinare l’impatto di ciò che viene detto e sembrano raccogliere in sé un potere magico. In questo modo la parola viene elevata a origine e conclusione del discorso, quando essa non è che uno strumento votato alla situazione, alla pratica entro cui la si colloca. 

Come il linguaggio racconta la cronaca

Quando accade che qualcuno venga attaccato o discriminato nella modalità in cui vive la propria identità, il primo sguardo del pubblico si volge al “che cosa è accaduto veramente”, cosa raccontano i giornali, quale lessico viene utilizzato. Quanto riportato rispetta o sminuisce la complessità dell’accaduto? Sostiene o non sostiene le mie teorie? Ci si muove verso una caratterizzazione della vittima o dell’aggressore, prevenuti rispetto a ciò che si è configurato, ovvero facendo collimare ciò che già si pensa con ciò che sta accadendo (o che è accaduto). Il sentiero entro cui la comunità dapprima si muove è quello che instaura il dibattito a risposta dicotomica: è giusto, è sbagliato; è tollerante, è intollerante; è omofobia, è buonsenso. Dibattito che non può che rivelarsi sterile, dato che ognuno lo gioca seguendo le proprie regole e attestandosi su di un livello orizzontale, aggiungendo voci al coro più che fermarsi a chiedere da che presupposti queste voci parlino, quali giochi stiano mettendo in campo. In seconda battuta, si passa “all’azione”, organizzando manifestazioni che mirano a offrire supporto o che remano in senso contrario rispetto alla vicenda del momento, ma sempre dal punto di vista contenutistico, con slogan e frasi lapidarie che chiudono il discorso dando per vere delle premesse che non sono state minimamente chiarite. In questo si legge la cecità al gioco linguistico, l’incapacità di considerare quanto il copione appena descritto sia parte integrante del problema, continuando così a ripeterlo nella speranza che ciascuno lo reciti nel modo che si ritiene più consono.

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Il dibattito viene ridotto a una serie di assunti “evidenti di per sé”, mulini costruiti su fondamenta incerte a cui portare acqua. Eppure “rispetto”, “libertà”, “desiderio” non assomigliano per niente a capisaldi immediatamente spendibili, ma sono a loro volta elementi secondari di un gioco le cui regole non vengono esplicitate. Implicitamente, certo, si sa di cosa si sta parlando. Ma non rendere chiare le regole entro cui si dice ciò che si dice consente a chiunque di usare i termini di cui sopra nell’accezione che crede più adatta a supportare la propria posizione. In questo modo, se mai un cambiamento si produrrà, lo si potrà far risalire a una raccolta di consensi più che alla forza consolidata di un movimento di pensiero.

Alejandro Jodorowsky. Foto: Wikimedia Commons.

Perché non riusciamo a sensibilizzare?

Le operazioni di sensibilizzazione o le manifestazioni di piazza difficilmente ottengono i risultati sperati, proprio perché partono dal presupposto che all’opposizione manchino pezzi del puzzle, libri da leggere, informazioni, sani principi o valori che siano. Si sorvola, quindi, su quella che è l’importanza delle occasioni di dialogo nella messa a punto di un obiettivo. Se l’obiettivo non risulta chiaro e condivisibile non ci si può appellare a un presunto deficit di chi non lo vuole perseguire, ma bisogna guardare al modo in cui è stato posto. Quale scopo si vuole raggiungere e come lo si può raggiungere? Sono chiarite nei minimi dettagli le premesse che lo animano o sono lasciate all’incertezza della libera interpretazione? Si conoscono le premesse epistemologiche di quanto viene sostenuto, così da poterle esplicitare a terzi, così da poterle rendere condivisibili? 

Se il linguaggio è una forma di vita che interessa l’intera comunità dei parlanti non possiamo pensare che un trapianto di discorsi possa darsi senza un monitoraggio costante di quella che è l’intera attività dell’organismo. Nell’intreccio incerto di costumi e modalità discorsive che caratterizzano la nostra esistenza, è di vitale importanza saper delineare con precisione il proprio campo d’azione e così condividere le regole del gioco. Il modo in cui si sceglie di agire nei confronti di ciò che si presta all’attenzione e di narrare ciò che si fa avanti non deve essere dato per scontato. Il modo con cui si narra, cioè il processo – e non la “narrativa”, che è il prodotto terminato – configura attivamente la realtà e non si limita a confermarla. Se quello che accade fosse un semplice dato di fatto, da confermare o rifiutare, la distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato risulterebbe evidente di per sé. Ma la premessa di ogni risposta è appunto la domanda che l’ha sollecitata, come sostiene Alejandro Jodorowsky. Ed è appunto la domanda che, se lasciata inespressa, priva di direzione e di efficacia la portata rivoluzionaria di ogni nuovo racconto. Quindi: «Qual è la domanda?» e non: «Questa è la risposta!».

Bibliografia

Jodorowsky, A. (2011). La risposta è la domanda. Mondadori.

Lyotard, J. (2008). La condizione postmoderna: Rapporto sul sapere. Feltrinelli Editore.

Turchi, G. P., & Celleghin, E. (2010). Logoi. Psicologia Delle differenze culturali E clinica Della devianza. Occasione peripatetica per un’agorà Delle politiche sociali. Upsel Domeneghini.

Wittgenstein, L. (2009). Tractatus logico-philosophicus E Quaderni 1914-1916. Einaudi.

Wittgenstein, L. (2014). Della certezza. L’analisi filosofica del senso comune. Einaudi.

Wittgenstein, L. (2017). Ricerche filosofiche. Einaudi.

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