Un amore (non corrisposto) per le definizioni o l’arte di imprigionarsi

Muovendosi entro un contesto di social networking, quale potrebbe essere il mondo di racconti e interazioni messo a disposizione dalla piattaforma Instagram, può capitare di notare come le tematiche di genere e LGBTQIA+ si stiano velocemente ritagliando il loro spazio discorsivo. Post, storie e “spiegoni” rappresentano solo una minima parte di quello che ogni giorno viene messo a disposizione dagli attivisti del settore, o da chi in generale offre il proprio contributo agli ambiti citati.

La fucina di idee e narrazioni che si presenta allo sguardo dell’osservatore esterno può sorprendere o spaventare, in quanto la mole di informazioni e contenuti sembra non smettere di accumularsi. Da una parte, dal lato di chi condivide e promuove i temi di cui sopra, questo è un chiaro segnale di cambiamento rispetto al senso comune, indice di un lavoro incessante che è proiettato alla trasformazione e alla distruzione di stereotipi secolari e scomodi. Dall’altro lato si situano i difensori del buon costume e dei “veri” valori promossi dalla tradizione. Come spesso accade, le due sponde sembrano affrontarsi a viso aperto in una lotta per l’affermazione o la confutazione e, in questo entusiasmo, si perde la riflessione critica, che è la premessa a ogni cambiamento che possa dirsi condiviso e chiaro. In poche parole, si perde la possibilità di generare un cambiamento nel lungo termine.

Prendiamoci qualche minuto, quindi, per esplorare questa terza via. Se non adeguatamente presa in considerazione, essa rischia di giocare a sfavore di chiunque la tralasci. Per poter arrivare a destinazione, tuttavia, è necessario fare qualche passo indietro per poter riconoscere la linea di partenza.

La ricerca di un ordine

Il furore e la passione con cui gli intellettuali illuministi ripulirono e riorganizzarono la conoscenza per emancipare la ricerca scientifica da un background di superstizioni e ignoranza culminò nella realizzazione di uno degli artefatti più noti e utilizzati dalle scienze naturali: l’Enciclopedia. Il libro, simbolo e portavoce delle conquiste illuministe, offrì il calco a tutti quei manuali che si sarebbero posti l’obiettivo di incasellare e classificare il mondo. Inoltre, la messa a punto di criteri razionali illuministi volti a ordinare e stratificare lo scibile permise di operare una serie di riflessioni che potessero stare a fondamento della gestione del tessuto sociale in periodi di crisi.

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I due modelli operativi che fino a quel momento avevano permesso un governo dell’incertezza erano il modello medico e il modello giuridico. Essi erano pensati per indirizzare, punire o premiare i membri di una comunità nel momento in cui questi avessero deviato dal tracciato comune, dalla normalità. Entrambe le strade, per poter raggiungere l’obiettivo, si sono dotate nel tempo di un valore (o di un intorno delimitato di valori) di norma. Il modello giuridico osserva una devianza rispetto al codice (civile o penale che sia), che si esplicita in un insieme di leggi blindato e condivisibile. Il modello medico osserva una devianza rispetto a una serie di parametri statistici di riferimento (numero di globuli rossi in un millimetro cubo, ad esempio). Nel primo caso si possono avere delle infrazioni rispetto alla normalità giuridica, ovvero dei reati. Nel secondo caso abbiamo un rottura con la norma anatomica, fisiologica e genetica, ovvero una condizione di patologia.

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Ma come si gestisce tutto ciò che esula rispetto a questi due percorsi?

Questa è la domanda che, per primo, Philippe Pinel si pose nel momento in cui, nel 1793, spezzò le catene degli alienati. A quale ordine appartengono tutti coloro che la medicina ha ritenuto essere sani e che un processo giudiziario ha bollato come incapaci di intendere e di volere? In questa riflessione risiede il mandato fondativo della psichiatria e della psicologia, in quanto entrambe (la prima come pratica medica e la seconda come disciplina scientifica di supporto) vengono chiamate a offrire una presunta terza normalità della quale gli alienati rappresenterebbero una deviazione.

Questa terza normalità, serve precisarlo, non è mai stata individuata. Ciò che la psichiatria ha prodotto è una serie di sistemi diagnostici di classificazione, di cui il maggiore esempio è il DSM (Manuale statistico dei disturbi diagnostici). Questi artefatti, sorvolando sulle questioni teoriche legate alla norma appena esposte, ordinano e descrivono quelli che sono i diversi disturbi mentali, sintomi compresi. In poche parole, essi classificano le diverse forme di espressione della vita psichica dando per scontata quella che è la normalità.

Repetita iuvant: i manuali diagnostici offrono descrizioni dei diversi disturbi mentali – con annessi consigli operativi su medicinali da prescrivere per il trattamento – senza le competenze conoscitive adeguate per poter compiere una simile classificazione, ovvero presupponendo, tirando a indovinare. Le definizioni offerte dal DSM (si tracci il paragone con le definizioni offerte dalla comunità LGBTQIA+), proprio perché operate a partire da un’opinione e non fondate scientificamente, servono esclusivamente a etichettare l’altro. L’etichetta diagnostica, come un copione, indica al paziente psichiatrico come deve comportarsi per assecondare il senso comune o per distanziarsene. Se dovessimo trasportare questo processo entro un contesto medico, la gravità della diagnosi psichiatrica sarebbe evidente: è come se, una volta comunicata la frattura del femore, il femore si fratturasse ulteriormente.

Lo psichiatra francese Philippe Pinel. Foto: WikiCommons.

Definire la normalità

L’impossibilità di una norma psichiatrica e psicologica è strettamente connessa al problema fondativo che attanaglia le due discipline. Infatti, l’oggetto di studio dell’una e dell’altra – come il prefisso delle due parole ci suggerisce – è fumoso e inafferrabile. Stiamo parlando della psiche.

Senza il bisogno di addentrarsi oltre in una dissertazione filologica sul termine greco, è di dominio pubblico che la mente (che qui useremo come sinonimo di psiche) sia un fattore misterioso, restio a qualsiasi definizione che lo voglia inquadrare una volta per tutte. Non è un caso che la psicologia, la quale condivide questo destino di inafferrabilità con antropologia, sociologia ed economia, esista solo al plurale: le psicologie. Esistono tante scuole di psicologia quante sono le possibili ipotesi formulabili riguardo al suo oggetto di studio, ovvero quante sono le diverse definizioni di psiche.

Questa frammentazione è dovuta al fatto che l’unico modo per poter osservare la mente è parlarne. La mente esiste in quanto elemento del discorso e ogni qual volta essa venga nominata acquista, per ostensione, un diverso significato. Questa incertezza è precisamente ciò che caratterizza, nella vita di ogni giorno, il nostro uso del linguaggio quotidiano, ed è per questo motivo che la psicologia è una materia intuitiva, che si presta al dominio pubblico (il che si esplica nel famoso adagio “Siamo tutti un po’ psicologi”). Per scienze come la matematica o la biologia, d’altro canto, l’oggetto di studio è chiaro.

Nel primo caso possiamo disporre di un linguaggio formale, ovvero di un linguaggio le cui regole d’uso sono blindate a priori e globalmente condivise. La matematica, data questa condizione, è un linguaggio che “studia sé stesso”. La biologia, invece, fonda la sua ricerca su qualcosa che si può percepire con il senso della vista e che può quindi essere misurato: la cellula. Data questa chiarezza di intenti, entrambe le materie dispongono di un proprio valore di normalità. Non solo, una volta che le regole vengono esplicitate si può anche dire dove e quando esse vengono infrante; in questo modo le opinioni personali vengono espulse ed è altresì possibile indicare un errore.

Quanto argomentato finora ci porta a considerare come sia inopportuno e arbitrario parlare di normalità e anormalità in quei contesti che non possono definire chiaramente il proprio oggetto di studio. Allo stesso modo, l’operazione del “definire” si rivela essere uno specchietto per le allodole, in quanto ci si può solo illudere di aver catturato i confini di un qualcosa che non c’è.

Nessuno è escluso

Arrivati sin qui, cos’è che si perde nelle narrazioni LGBTQIA+ e nei discorsi riferibili a una sua opposizione politica e sociale? Ciò che accade per entrambe le parti è che viene dato per scontato che esista una normalità a cui potersi riferire quando si parla di sessualità, genere o identità. Questo accade in quanto, con la psiche, anche la sessualità e il genere condividono la stessa sorte: essi sono elementi del discorso. Ogni tentativo di “tenerli fermi” in una definizione è destinato a scadere nell’assurdo, in quanto il discorso (come la vita stessa) procede senza mai rimanere simile a sé stesso. Anche quella di definire una propria identità diventa un’operazione sterile, in quanto ci si illude di rendere immobile qualcosa che è sempre esposto al cambiamento. Ciò equivarrebbe comunque ad affermare il fatto che c’è una norma da cui ci si discosta (e si è visto che questa norma non c’è).

Certo, si potrebbe dire che l’intera faccenda è stata fraintesa, che il movimento LGBTQIA+ nasce col preciso intento di scardinare quest’idea di “normalità sessuale”. Ma, se fosse così, come potrebbe sembrare un buon metodo quello di iniziare una protesta come contestazione di un’idea che è già insensata di per sé? Se qualcuno afferma l’esistenza di omini verdi su Marte non si organizzano spedizioni random sul pianeta per ottenere la prova che le cose non stanno così. Allo stesso modo, se mai si affermasse (come accade) che l’eterosessualità è la norma dalla quale tutto il resto devia, la contro-argomentazione non consisterebbe nel rafforzare quest’idea creandosi una propria comunità a parte.

Questo amore per le definizioni è, per l’appunto, non corrisposto, in quanto il senso comune (in cui rientrano i discorsi quotidiani e le narrazioni LGBTQIA+, in conflitto tra loro), non disponendo di un preciso oggetto di studio, spara a zero colpendo tanto il bersaglio quanto la folla circostante. Un eterosessuale che si identifichi come tale sta contribuendo a “mantenere” la propria eterosessualità. Ma la definizione di un’embolia polmonare non contribuisce al mantenere l’embolia stessa, casomai a guarire da questa condizione patologica. Nel primo caso non disponiamo di una norma, per cui qualsiasi cosa diciamo o ci viene detta contribuisce a costruire la realtà che ci circonda. Nel secondo caso, la possibilità di una norma permette alla definizione di avere dei limiti precisi, per cui ciò che si fa in nome di quella delimitazione non va a influenzare niente di ciò che si trova al suo esterno.

Classificare l’infinito

In conclusione, le modalità con cui le narrazioni di genere e LGBTQIA+ entrano in conflitto con il senso comune nei social network e nella vita quotidiana ricalcano l’errore della psichiatria. Quest’ultima è forse la più secolare e dogmatica delle discipline. I suoi metodi sono inadeguati nel trattare l’oggetto di studio (la psiche) ed essa si rifugia in paradigmi settecenteschi per far fronte a problematiche complesse e lontane anni luce rispetto all’Illuminismo. La forza con cui si afferma la propria identità al giorno d’oggi e l’energia con cui ci si prodiga per fare in modo che questa resista alla prova del tempo, sono le stesse che potrebbero essere dedicate alla cura di un oggetto “fisico”, come un cellulare o di un’automobile.

Come se l’anima (che qui usiamo come sinonimo di identità) fosse l’output di un meccanismo preciso, i cui ingranaggi sono visibili a chiunque. Non a caso, nel riportare la legittimità di una posizione di genere, le voci narranti ricorrono a questioni genetiche e ormonali, come se fosse scritto “nella Natura” che noi siamo destinati (dannati) a essere eterosessuali, omosessuali eccetera. Il dover andare a disturbare discipline come biologia, endocrinologia o genetica per parlare di genere o sessualità è proprio il segno che si è incastrati in un paradosso epistemologico.

La terza via da prendere indica un radicale abbandono della domanda: «Chi sono?», così come un radicale abbandono di questioni legate all’identità. Se si è legati all’identità si è legati alla maledizione del doverla definire. E nel definire e classificare le identità (di genere, ad esempio) ci si ritroverebbe a giocare il ruolo di Achille nel paradosso di Zenone, senza alcun traguardo da poter portare a casa. Lo spazio di ciò che si può dire è infinito e ci separa da quello che è l’obiettivo. Classificare l’infinito non lo renderà più finito, ma solo più problematico. Specialmente se nessuno di noi può considerarsi “normale”.

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